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eretici e del luogo loro, ché nulla gli farebbe, là dove sono, arguire.

Nulla, se non fosse, come s'è detto, il Canto IX. Il quale, come potrebbe soddisfare al suo compito doppio e necessario? Il tèma ha certe sue esigenze che costringono a modo loro l'Autore, impotente a differirle e a variarle; la materia per l'artefice, sia pur plastica e morbida, e vi s' affondi il pollice, e vi s'adoprino gl' istrumenti, è tutta via sempre dura tiranna con sue proprie leggi, capace d'imporre obblighi e procedimenti speciali. Cosí le necessità logiche dell'assunto è ovvio guidino ancóra in tal luogo e in questo caso il Poeta, quand' anche sia questi il figlio di donna Bella. ' Orbene: è, prima d'ogni altra cosa, chiarissimo che la narrazione degli avvenimenti materiali, come quella la quale è libero frutto di fantasia non costretta, deve non subordinare a sé l'altro ufficio, al contrario ha da sottomettersi a quello. Questo è poi a sua volta chiarito quando si considerino il punto onde deve partirsi e punto cui bisogna che arrivi il Poeta : di là la superbia, piú specialmente poi la diabolica, per ultimo narrata; di qua l'eresía nelle sue diversissime forme, nei suoi differenti aspetti tra le due rive il ponte. A costruirlo, materiale sarà offerto dagli elementi istessi ond' è complesso il punto d'inizio, dagli aspetti medesimi di cui è costituito il dramma della superbia. Che se fra tutti - molti, e lo mostrai v' ha pure il dubbio, ed è palese di molto, e grave di molto, e sentito assai, questo sarà trascelto, a rigor logico, per lanciare l'arco che snello congiunga le due sponde opposte. Giacché superbia è l'atto, per cui la mente umana si leva a scrutare l'infinito essere delle cose, a indagarne le cause e i modi, a fissarne le leggi; la disposizione, per la quale, sottrattasi al vero rivelato, patente ed aperto, ne cerca e finge e crea un suo; la volontà per che lo predica poi, lo sostiene, e viepiú lo argomenta e lo rafforza di errori: dubbio è l'affetto che ne consegue a chi oda o vegga tal maledetto superbire, vi presti orec

1 Anche Dante difatti sa (Parad. I, 127-129) che
forma non s'accorda

molte fiate all' intenzion dell'arte
perché a risponder la materia è sorda.

È presumibile debba adattarsi egli, e adattare la sua prepotente fantasia, al fren, che dirò, della materia.

chio od occhi, vi ceda supina la mente e facile il cuore, vi abbandoni sé stesso: eresía, il frutto ultimo, l'estrema colpa di chi, non credendo nel vero solo, sí dubitandone invece, superbamente un altro ne afferma diverso. Evoluzione questa ch'è ovvia; e al Poeta offre pronto e libero discorso dagli uni ai nuovi dannati, dall' un cerchio infino all' altro. Tali son le strettoie entro cui la natura del tèma chiude il Poeta.

Onde si profila ora l'aspetto del Canto quale lo vorremmo, per desiderio di critici, se non fosse, quale lo supporremmo, per induzione di logici, se mancasse e si fosse smarrito, quale sarà se l'inconscia ispirazione, onde fu sorretto il Poeta, fu vera grande alata. Sotto, ecco lo scheletro: a un estremo, il dubbio; all'altro, l'eresia; fra i due, la superbia, secreta loro fonte, ignoto loro principio, il dramma cioè duplice che fu svolto poc' anzi, di cui, perché non sia superfluo, sarà lumeggiata meglio quella conseguenza, che è il sospetto eccitante, e saranno mostrati, perché sia vie piú salutare, i rimedi, o in altri termini la ragione accorta e la provvidente divinità: ecco lo scheletro, di sotto. Sopra, la forma vogliamo narrativa, desideriamo perciò allegorica, in guisa che, nell'esporre fatti ed azioni come accaduti, confermi idee e concetti come pensati, nel tracciare disegni di cose e persone, delinei termini di pensieri e precisi significati morali.

Cosí fatto il Canto, per logica, deve essere.
Ma quale è?

IV.

Difficilissima opera a determinarsi in vero. Nel fatto, non fu a caso s' io volli idealmente ricostruire per processo induttivo, risalendo su dalla natura e dai caratteri dell' VIII e del X, il Canto IX; fu a bella posta invece, dacché notissime sono le discussioni vive e lunghe, che non valsero tuttavia a precisare e determinare il reale contenuto di quel Canto; onde mi parve doversi pervenire a qualche risultato piú sodo, soltanto arguendo per indagine quale debba essere, a soddisfare l'armonia della Cantica, il valore intrinseco e il recondito significato di quella allegoria, ricercando poi per qual guisa gli convenga la lettera.

A questo rivolgerò pertanto ora le cure. Anzi tutto stimo opportuno dividere (non son

sempre pedanteria monotona e uggiosa le divisioni) in tre parti il Canto delle quali la prima faremo comprendere dai versi 1-33: la seconda vedremo svolta e completa nei versi 34-105 la terza diremo contenuta nei rimanenti versi 106-133. Esaminiamole partita

mente.

« Quel color che viltà di fuor mi pinse » è il suono con cui s'inizia il Canto; si continua con la dubbiosa reticenza vergiliana « se non.... Tal ne s' offerse », ov'è incluso il sospetto di non potere, per un motivo ignoto, balenato all'improvviso nella psiche del Duca e tosto ricoperto, terminare il viaggio intrapreso; prosegue ancora con la paura (v. 13) di Dante, che trae a peggior sentenza del vero la parola tronca; insiste sul timore di lui che non conosca Vergilio il cammino, onde lo interroga accortamente e sente la guida il bisogno di soggiungere, scaltra, « ben so il cammin»: è, insomma, il principio del Canto, pregno di un chiaro senso di dubbio. Appunto come l' avevamo voluto! E che non sia esso casuale sí pensato e meditato dal Poeta è prova un fatto evidente e luminoso: l'aver Dante cioè compiuto un ritorno in addietro con il rappresentare dubitoso e sospirante di bel nuovo quel Vergilio, il quale pur dianzi aveva già, finendo l' VIII Canto, accertata e affermata la secura vittoria del Messo dal cielo ritorno, dico, in addietro, che ha il fine di porre in piú chiara evidenza e piú limpidamente dilucidare quel dubbio, che dicemmo conseguenza fatale del superbire diabolico, ma che prima era stato non approfondito ed impresso, sí sfiorato e accennato soltanto.

Omettendo ora la seconda parte, balziamo con un salto alla terza (sono i salti ideali piú pronti e facili che i reali !...) Siamo nella città di Dite, là dove fanno i sepolcri tutto il loco varo. E Vergilio, al consueto, comenta : « Qui son gli eresiarche co' lor seguaci, d'ogni sètta » e afferma esservene numero più grande del credibile. Domina, insomma, la eresia: capi e seguaci, superbiosi e dubitanti. Anche qui il contenuto reale del Canto, ove non v' ha discussione né incertezza possibile, concorda a pieno con quello, che ne feci, schema ideale e induttivo.

Or bene ci troviamo in sí fatta postura, da veder concordare e coincidere a maraviglia col testo i due estremi, posti dianzi, del Canto;

me

è quindi naturale, logico, anzi necessario, se siam convinti della bontà e del valore di quel ragionamento, che svolsi poco fa e suffragai di argomenti, l' ammettere che la parte diana del Canto corrisponda al dramma della superbia, radice del dubbio e per esso della eresia; il riconoscere di piú che tal dramma, per non esser la superflua ripetizione del già svoltosi, debba rilevare con efficacia ed evidenza maggiore la conseguenza del sospetto e del dubbio, che quel primo comprendeva, ma non lasciava spiccare. Tuttavia potremmo ripudiar tale corrispondersi e coincidere dei versi 33-105 con il concetto della superbia, ove la discovenienza formale risultasse palese e ripugnasse al buon senso comune. Avviene ciò? Cerchiamo. Su l'alta torre alla cima rovente IN UN PUNTO furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte. Erano le meschine della regina dell' eterno pianto. Erano le feroci Erine. Piú precisamente, Megera dal sinistro canto; a destra, piangente, Aletto; Tisifone nel mezzo. Tutt' e tre si fendono con l' unghie il petto. Ebbene. Anzi tutto le tre Furie, sorgendo in un punto, dànno a divedere di raffigurare un solo concetto, nella sua triplice forma senza dubbio, ma solo a ogni modo: tale il concetto di superbia. Inoltre sono esse meschine di Proserpina, la regina infernale; molto bene: perché il Re dell' Inferno è per l'appunto il superbissimo, l' arcangelo ribelle, il piú orgoglioso tra le persone orgogliose. Da ultimo presentano i caratteri che, non noi, non i teologi, non alcun altro, bensí Dante stesso attribuí alla superbia umana e alla diabolica : Aletto, che raffigura la prima è dalla destra, segno di men grave colpa, piange, come Filippo delli Argenti, piange inoltre incessantemente, se si bada alla etimologia del nome, a quella guisa che l' Adimari si rimarrà per sempre con piangere e con lutto: Megera che rappresenta la seconda superbia è dal sinistro lato, come errore piú grave, significa ed esprime, per senso etimologico, la invidia, a quel modo che la significano e rappresentano (lo mostrai) i più che mille diavoli; Tisifone, che sta nel mezzo, è simbolo del comune carattere e degli umani e dei dèmoni superbi, della vendetta cioè, che l' Adimari tenta che i diavoli cercano, è segno insomma di quel comune terreno su cui s'incontrano i due orgogli, di quel comune ceppo onde divergono i

due rami alteri, è la terza sorella in cui è assommata la qualità che hanno le altre due comune: infine ciascuna si fendea con l'unghie il petto, cosí come il fiorentino spirito bizzarro in sé medesimo si volgea coi denti, cosí come ai diavoli fu spesso per tracotanza cresciuta doglia dal supremo Fattore, giacché è della superbia proprio l'avvelenar sé stessa ; tutte ancóra gridavan alto, non dissimilmente, ognun lo ricorda, dalla furiosa alma dell' Argenti e dal diabolico congresso sulla porta infernale. Se ne conclude, la figurazione letterale ed esteriore delle Furie adattarsi perfettamente al concetto della superbia, a quello insomma che qui si desiderava, in séguito a un esame facile del tèma e delle sue esigenze.

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Piú, si desiderava ancóra lo ripeto, ché non è mai vano una piú netta e piú spiccata espressione del concetto del dubbio. È questa pure riscontrabile nella Medusa dantesca? Certo - non esito. In primo luogo, Medusa è invocata dalle superbe Erine, a quel modo che il dubbio sorse in cuore a Dante e nella mente a Vergilio di fronte alla superbia diabolica: sí che comune e quella e questo hanno l'origine. Poi, Medusa pietrifica e debilita, a quella guisa che il dubbio fa rari i passi del Latino, rase di baldanza le ciglia sue, sospiroso il petto, e toglie a Dante ogni forza ogni volere ogni intenzione dell' andar piú oltre: onde uno è per quella e per questo l'effetto. Anche, per evitare i danni della Gorgone in soccorso di Dante corre Vergilio prontamente e con aiuti di parole e con aiuti di atti, a quel modo che Vergilio medesimo e con parole e con atti distorna Dante dal sospettoso timore dopo la superba fuga dei diavoli; di piú, la protezione di Vergilio cessa in quell'istante in cui il Messo dal ciel si fa sentire, proprio come Iddio era intervenuto a dissipare del tutto, infine, il tremore di Dante: in breve, i rimedi che neutralizzano l' efficacia della Medusa son gli stessi che quella del dubbio.

È QUINDI LECITO, E NON RIPUGNA ALLA

LETTERA E NON DISDICE AL BUON SENSO, IL RICONOSCERE NELLE FURIE LA SUPERBIA, E IL DUBBIO IN MEDUSA. Tuttavia, agli argomenti già addotti, è possibile aggiungere ancóra tre controprove.

il quale, nell' VIII Canto, dinanzi alla superbia aveva parlato spiegando, mostrandone a Dante i moti e gli atti, additandone le guise; là dove di fronte al dubbio aveva esortato, comandato, stimolato; aveva in somma, per dirla con espressioni da grammatico, dinanzi ai superbi usato l' indicativo, l'imperativo, dinanzi al dubbio del discepolo: ora del pari, allorché scorge le Furie d' un súbito comparse, prontamente avverte elleno essere le feroci Erine, ne espone i nomi e ne descrive gli atti; ma alla minaccia dell' avvenimento di Medusa, accorto e pronto consiglia < volgiti indietro, e tien lo viso chiuso!: identica condotta dinanzi a persone e figure medesime.

L'altra, che dicevo, controprova è invece nella natura del Messo dal Cielo. Abbiam visto la superbia umana offendere la misericordia divina, la superbia diabolica ingiuriare di Dio la giustizia, quella per pena donare sue grazie all'avversario di Filippo, questa per vendetta infierire contro i demoni. Se dunque le Furie realmente sono la simbolica figurazione delle due superbie, contro esse e contro diavoli che l'hanno suscitate sulle lor mura, che ve l'hanno poste a strumento bellico, deve il Messo dal Cielo infierire con entrambe le due attitudini celesti, con la misericordia e con la giustizia. E difatti procede con quel fracasso pien di spavento e di terrore, con quel baccano che fa tremar le rive, con quell'impeto che l'assomiglia a un vento o ad una bufera, i quali sono propri attributi della rigida e tremenda giustizia sí di un Giove tonante come d'un Dio cristiano; passa, di piú, le acque di Stige con le palme asciutte, a segnare la sua soprannaturale origine come la sua sovrumana potenza, cui non può il fine mai esser mozzo; cui non valgono ostacoli, non servono freni, perché tutto varca e sorpassa senza difficoltà, perché a tutto fatalmente arriva. D'altra parte, non ha sereno l'aspetto, spianato il vólto: ma l'aer grasso che s' addensa fitto e sgradevole nel basso inferno. l'aduggia sí, ch' ei muove la destra a liberarsene e sol di quell' angoscia pare lasso; soffre in breve di quel sozzo alito che gli spira in vólto e a cui non è avvezzo, egli, abituato al piú puro limpido e sereno aere delle sfere superne, alla schietta e onesta vita di purezza, costretto ora alla visione del peccato della

L'una sta nel comportamento di Vergilio: colpa delle pene. Non è misericordia questa?

Giornale dantesco, anno XIX, quad. I.

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non questa angoscia che l'affligge dinanzi al peccato, simile all' angoscia di quel Dio che del peccatore soffre e gli perdona, allargandogli pietosamente le braccia grandi? Certo, è; e ci conferma in cosí fatta credenza l'esposizione medesima del Poeta: il quale, detto il terribile suono e vento che si partiva dal Messo, narrata la fuga dei demoni e dei peccatori dinanzi a quello, notata, cioè, la giustizia ch' egli affigura; distinto d'altra parte l'atto angosciato e l'afflitto aspetto attraverso il grasso aere; súbito soggiunge: ben m'accorsi ch' egli era del ciel messo. Non prima se ne poteva accorgere, quando lo vedeva esecutore di Giustizia soltanto; sí ora, quando lo notava addolcito da pietosa Misericordia, dote piú propria e più cara del dolce Iddio suo! Sicché è certo il Messo dal Cielo dotato a un tempo di entrambe quelle caratteristiche con cui mosse il Creatore a punire la superbia dell'uomo e la superbia del diavolo: segno palese che le Furie, le quali, con essi i demoni, egli sbaraglia, simboleggiano bene il concetto della superbia.

La terza, che dissi, controprova sta nel discorso del Messo medesimo. Il quale, esaminato, risulta composto di due biasimi e rimproveri distinti: quello, anzi tutto, rivolto ai cacciati dal ciel, gente dispetta, a cagione della tracotanza che in lor s' alletta o, se vogliam dire altramente, della superbia per cui osarono contrapporsi al libero adempiersi della divina giustizia e recalcitrare al superno volere quello, d'altra parte, indirizzato al dubbio, insano e ingiusto, di chi, innanzi all' alterigia diabolica, sospettò infranto il volere di Dio, sospeso il cammino che da quello era stato concesso, interrotta la grazia che lo aveva permesso; di chi in somma pensò che potesse alla voglia del Primo Fattore esser tal volta pure mozzo, come alle umane più deboli voglie, il fine, che non è, né può, né s'ha da pensare. Discorso dunque contro sí la superbia e sí il dubbio. Ora: a chi è diretto il sermone aspro e chioccio? Ai dèmoni, e chiaro lo mostra il vocativo con cui s'inizia (v. 91), le allusioni che contiene (v. 98), l' andamento suo tutto (vv. 91-99). E allora, se proprio non ripudiamo la logica, se ancóra ci disgustano le contradizioni, dobbiamo pure ragionare cosí : Davanti a Dante e a Vergilio, per impedire il cammino e vendicarne l'audacia, si pararono

insieme coi diavoli, e loro strumento, anche le Furie e, dopo esse, Medusa; le parole del Messo, venuto a vincere e sopraffare gl'interposti ostacoli, sono di rimprovero alla tracotanza e al sospetto; ma sono del resto indirizzate ai diavoli soli; quindi di queste due possibilità l' una è vera: o le Furie e Medusa formano con la superbia e il dubbio una cosa sola; o pure sono una cosa diversa. Nel secondo caso non si comprende come il Messo celeste, che è il mònito divino, quanto acerbo e duro si sa, contro alle forze infernali, le ometta e si limiti a un biasimo duplice, là dove forse triplice o quadruplice poteva essere; non lo si comprende tanto piú, allorché si pensa che le Furie e Medusa erano state per il Poeta ostacolo grave, quanto quello dei più di mille dal ciel piovuti, piú grave ancóra forse, se ebbe a rischiare di diventar di smalto e Vergilio medesimo pensò a soccorrerlo con le sue mani; tanto piú non lo si comprende, ove si osservi che un'altra omissione, la quale con questa potrebbe (se si volesse asserire il secondo corno del dilemma su posto) formar il paio, è fatta notare ben chiaramente dal Poeta, che dice, « non fe' motto a noi », ma non dice << non fe' motto alle Furie e a Medusa ». Nel primo caso invece, che vuole le Furie e Medusa equivalgano a superbia ed a dubbio, la omissione d'un cenno aperto e patente rivolto a loro sarebbe non spiegabile soltanto, non soltanto evidente, ma a dirittura artisticamente opportuna, necessaria persino, ad evitare dannose superfluità, ripetizioni inestetiche. Ci vediamo in conseguenza costretti, ancóra una volta, a ravvisar nelle Furie e in Medusa la superbia e il dubbio. Che si tratti poi piú precisamente della superbia, da riconoscer nelle Furie, e, da riconoscere in Medusa, del dubbio, basterebbe a dimostrarlo, ove altro non fosse e mancassero gl' indizi, che son venuto raccogliendo invece in gran copia, l'ordine stesso del discorso celestiale; ma c'è di piú il contenuto medesimo dei rimproveri del Messo che lo conferma a chiare note. Gli attributi infatti ond' egli colpisce la superbia sono gli istessi che le Furie si ebbero poc'anzi nel verso del Poeta e che Vergilio già ebbe a indicare: il dispetto, ciò sono, (v. 91) e la doglia (v. 96); mentre, all' opposto, del dubbio vengono a pena sfumati i contorni, accennati i caratteri e n'è quasi occultata persin l'allusione, a quel modo

che pur dianzi a Medusa furono, dal Poeta, volte le spalle, perché non s'abbacinassero gli occhi e s' impietrasser le membra.

V.

Concludiamo (l' aritmetica insegna a tirar le somme...): se si vuole cercare del Canto VIII il nocciolo animatore e indagarne lo svolgimento nei suoi due aspetti; se lo si pone a contatto con il X per indurne le necessità logiche cui ha da sottostare il IX, le esigenze artistiche e ideologiche cui deve soddisfare, allo scopo di non render in alcun che manchevole l'opera; se infine si analizza il Canto IX in sé stesso e ai caratteri e alle qualità della lettera si fanno corrispondere i significati e i valori dell'allegoria: decisamente, in tal caso, si riconosce convenire la interpretazione cui sono pervenuto; meglio e piú a fondo, poi, quando si consideri che con cosí fatto procedere abbiamo in primo luogo lasciato prevalere, al più possibile e in sommo grado, l'elemento obiettivo sul soggettivo; in secondo luogo spiegato Dante con Dante, un passo della Commedia con un altro passo della Commedia stessa; da ultimo, raggiunto questo fine per mezzo di un episodio che, dinanzi al comparir delle meschine della Regina infernale, si era pur allora compiuto, ed era quindi ben vivo nella mente dell'Autore, ben chiaro in quella di chi lo legge, adattatissimo per ciò a servir da fondo allegorico di una lettera, la quale non deve celarlo al tutto né al tutto renderlo astruso e difficile, sí badare invece a lasciarlo trasparire alquanto.

Sono, queste, ragioni che varranno a giustificare, spero, dal punto di vista critico, il mio procedere: ho, cioè, voluto riconstruire man mano, con analisi minuta e sintesi chiara, i vari punti dei due Canti che son oggetto di mio studio, tralasciando, in modo assoluto, ogni richiamo ad altri precedenti commenti, ad anteriori diverse interpretazioni, fingendo anzi d'ignorarle totalmente, per imaginarmi e, quasi, pormi nello stato, ch'è quello voluto dal Poeta, di chi con aperta mente e ingenuo animo, con intelletto sgombro da pregiudizi, prevenzioni, preconcetti, astruserie, si ponga a leggere i versi divini: ho lasciato quindi i richiami (che altri fece, e qualcuno con abbondanza, la quale ne mostrò la erudizione, ma non fu sufficiente ad assodarne le ipotesi, a rafforzarne la tèsi)

ora a San Tomaso, ora ad altri teologi o filosofi medievali; perché penso che questi poterono bensí esser familiari al grande Poeta, come è dimostrato di alcuni, plausibile di altri, essendo egli esponente del sapere laico di sua età e versatissimo in ogni disciplina sí scientifica che filosofica e piú specialmente teologale; ma d'altra parte sono convinto, per ragioni che dirò psichiche, meglio che logiche, per motivi interni e quasi direi intuitivi, ch' egli non mai avrebbe celato sotto un'allegoria oscura una dottrina troppo lontana dal comune, alla quale intendere fosse indispensabile la conoscenza di testi non generalmente divulgati, bensí l'avrebbe al contrario spiegata e chiarita dando opera a quel volgarizzamento morale ch'è uno dei fini, e chi sa non sia il precipuo, della Divina Commedia; concetto questo, di cui, ripeto, sono convinto, e ancor piú mi persuado ogni qual volta rileggo la esortazione ch'è contenuta nel terzetto 61-63 « O voi che avete gl' intelletti sani »; ov'è fatto richiamo non a sapienza, onde andasser fornite le menti dei lettori, non, e ancor meno, a erudizione oscura e difficile, sí piú tosto a sanità e nitore di veduta intellettiva, utile sola a intendere che la dottrina celata sotto il velame degli versi strani è la già esposta poc'anzi sotto diversa e men strana vicenda di cose uomini e demoni. Perché, in somma, Dante sa il suo lettore essere, nell' Inferno, non cibato ancóra del pan degli angeli, per questo lo illustrai mostrandomene digiuno affatto.

Tutta via, come altri pensarono tenere contraria strada e sottilizzarono e affinarono la mente, producendo interpretazioni disparatissime, sostenendole con argomenti ricercatissimi, ricorrendo ai più differenti testi per loro suffragio e conforto; cosí stimo necessario, a completare l'opera mia, il venir vagliando le diverse interpretazioni antiche e moderne, riguardo alle Furie e a Medusa; che non son poche, ognun lo sa, né son semplici, ognun lo vede pur che le scorra, né son sempre al tutto infondate, ognun l'avverte tosto che tenti di confutarle e abbatterle.

1

Ne ho sott' occhio alcune che giudico principali: Lana, Pietro di Dante, Jacopo di Dante, Benvenuto da Imola, Ottimo, Anonim. Trec., Da Buti, Landino, Lombardi, Costa, Biagioli, Cesari, Fraticelli, Blanc, Andreoli, Ruth, Giuliani, Scartazzini, Fornaciari, Filomusi-Guelfi.

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