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tro la Sicilia nel 1284, illustra d'un modo efficacissimo le condizioni locali delle due città, che si contendono l'onore di essere nominate nella Divina Commedia. Il re Carlo aveva fatto apparecchiare contro la Sicilia due armate, una a Napoli e una nella Puglia, e con quest'ultima il Re si partí da Brindisi, racconta il Villani (VII, 94) e accozzossi coll'armata di Principato a Cotrone in Calavria, e furono centodieci tra galee e uscieri armati, e con cavalieri, con molti altri legni grossi e sottili di carico. Il fatto, che Carlo tra tutti i porti di quella costa scelse appunto Crotona, mi pare che provi primieramente che Crotona sia

stata considerata come vertice tra il littorale orientale e l'occidentale della penisola e perciò come punto predestinato di riunione per le due armate provenienti dall'uno e dall'altro mare, e che provi poi, anche, che la natura del luogo di questa città sia adatta alle esigenze di un naviglio assai numeroso.

nar

Dopo la riunione fatta, il Re conduce l'armata e l'esercito di terra allo Stretto e prende posto dirimpetto a Messina sul littorale di Catona. Ora da tutto lo svolgimento che segue, apparisce chiaro, che in questo luogo le forze navali come quelle di terra stavano al l'aperto senza nessun riparo. Bartholomaeus de Neocastro (Historia Sicula, cp. 78, Murat., R. I. S. S., XIII, p. 1089), dopo avere rato il contegno gagliardo mostrato da Ruggiero di Loria e dai Messinesi per respingere i Francesi, continua cosí : « Et ecce jam aliqua vassella de remis subtilia versus galêas hostium procedebant; et dum pervenissent ad prope proras earum, sagittabant in eas, et provocabant, ut exirent ad bellum; tentabant enim, si posset, eas vel earum aliquas de litore Catonae in portum extrahere, ut deceptac possint intercipi a galêis exstolii Phariorum ». Dunque l'armata francese stava semplicemente lungo il littorale di Catona, esposta al badaluccare dei Messinesi, senza trovare, in questo luogo, fortificazioni o moli di alcuna specie per schermirsi. E ciò viene confermato da quello che segue. Il Cronista descrive (cp. 79), come una grande tempesta colse i Francesi: « Iam

classes solvuntur a littore, tumultuosus rumor et clamor surgit in nautas, in pontum se trahunt cum aequore potius pugnaturi, quam litus tenentibus vasa depereant et personae.... Verentur, ne ipsos flumina Phari,

marisque rabies projiciant ad manus et litora Phariorum ». E il re Carlo si lamenta poi (cap. 81): « Adhuc patimur labores et pluvias, quos et quas nocte una et una die substinuimus in mari, et in terra, omnia confusa habemus, panem, et arma, et reliqua ». L'abbandonata situazione, priva di qualsivoglia riparo, non può essere confessata piú franca

mente.

Anche un altro passo del Neocastro, (cap. 55 e 56), al quale il professore Torraca nel suo commento (p. 710) allude, menzionando in difesa della lezione Catona la strage degli Almogaveri, parla piuttosto contro Catona. È ben vero, che Carlo vi mette un presidio di duemila cavalieri; ma se gli esploratori messinesi costatarono, « quod erant de facili deperdendi, si de nocte percuterentur », e se poi in una notte di novembre la sorpresa tentata da cinque mila « Almugabarorum » riuscí con pieno successo, ciò prova, mi pare, che di fatto la città di Catona non era fornita di queste forti torri e mura, che i suoi difensori letterarii sogliono vedergli d'intorno.

Tutti questi documenti dunque confermano, se non m'inganno, ciò che si può vedere sul luogo ancora oggidí, che cioè il littorale di Catona è una spiaggia del tutto aperta e non punto adatta a rappresentare il concetto dell'imborgarsi, che invece tanto chiaro risalta a Bari, a Gaeta e a Crotona.

II.

Suppe (Purg., XXXIII, 36).

Mi sia permesso di aggiungere qualche indicazione intorno ad un altro passo controverso della Divina Commedia, per il quale sono pervenuto a trovare parimente un sostegno importante in uno scrittore antico. Voglio parlare del verso

Che vendetta di Dio non teme suppe,

pel quale ho difesa l'interpretazione tanto bistrattata, che, cioè, la vendetta di Dio non sarà trattenuta per una ostia avvelenata da mandare ad effetto la sua sentenza. Non intendo di entrare oggi in materia. Gli argomenti della mia opinione sono esposti nell'appendice della mia traduzione del Purgatorio, pp. 350 e sgg. Vorrei soltanto richiamare l'attenzione sopra un passo, che frattanto mi venne fatto di tro

vare in Orazio e che mi pare atto a servire di rincalzo per l' interpretazione sostenuta da me.

Negli Epodi, V, 87, cioè si legge :

Venena magnum fas nefasque non valent convertere humanam ut vicem,

come mi pare doversi leggere secondo una nuova emendazione del testo alquanto corrotto, proposta dal prof. K. Staedler (Horaz, erklaert, Berlin, 1905, p. 34), che spiega: < I veleni non hanno la forza di sconvolgere l'eterno diritto e torto come le pene temporali». Lasciando invece il testo senza questa emendazione, se ne ricava il senso, che gli dà il vecchio Dacier (Oevres d'Horace, Londres, 1733, II, p. 321): Les poisons peuvent con

fondre la justice et l'injustice, changer le bien en mal et le mal en bien; mais ils ne sauroient changer l'effroyable punition que les dieux préparent aux méchans ». Ma scegliendo o l'una o l'altra spiegazione, non si potrà negare che il concetto espresso qui da Orazio è identico a quello della mia interpretazione del famoso verso dantesco, e coloro che danno una importanza speciale a simili raffronti classici non potranno far a meno di concedere, che con questo raffronto la mia opinione viene a ricevere un considerevole conforto di probabilità.

Schwetzingen, febbraio 1912.

A. BASSERMANN.

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NOTIZIE

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s'intitola il IV libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi di Gabriele D'Annunzio, or ora publicato con la consueta sobria e signorile eleganza dalla Casa editrice dei Fratelli Treves. Non questo è il luogo per un esame attento della novissima opera dannunziana, nella quale, come è ben noto, si raccolgono quelle dieci Canzoni della gesta d'oltremare che all' apparir, sul cielo d'Italia, di questa nuova « primavera santa » la quale ha riempito d'improvvisa gioia lo spirito intorpidito della Nazione, il Poeta publicò via via, dall' 8 di ottobre 1911 al 14 di gennaio 1912 nel Corriere della sera. Tuttavia non parrà strano che del Poema ammirevole sia fatto ricordo nelle pagine di questo Giornale; però che mai nelle opere dannunziane e neppur forse nella Fran

cesca

parve, come in questa, cosí viva schietta felice la forza e la continuità della inspirazione dantesca. In queste terzine possenti, delle quali altre non ne ha di più perfette, dopo quelle della Comedia e de' Trionfi, la poesia italiana, si sente alitar sempre presente lo spirito dell'Alighieri, e si scorge in modo palese quanto dalla sua anima e dalla sua arte abbia saputo derivare Colui che, piaccia o dispiaccia a certa critica idiota o maligna, è senza dubbio il piú grande de' nostri scrittori e poeti moderni, è e sarà uno dei piú insigni poeti civili d'Italia. Al primo emistichio della Canzone d'oltremare: << I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi O Vittoria senz' ali », sono comento Egli avverte, i Canti della morte e della gloria, i Canti della ricordanza e dell'aspettazione, il Canto augurale per la Nazione eletta, quasi tutto il secondo libro delle Laudi publicato or è dieci anni non invano. Ma son pur comento al primo verso luminoso ci si consenta di aggiungere la raccolta delle Odi navali, gli scritti

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polemici su L'Armata d'Italia, molti accenni, molti passi, alle volte intiere pagine delle altre opere in prosa e in verso, dal Trionfo della Morte alle Vergini delle rocce, dalla Città morta alla Gloria, dal Fuoco alla Nave. Erra dunque, se non è in mala fede, chi si ostina a gridare il D'Annunzio sol come un poeta nato a cantar di etère e di facili amori, o chi finge maravigliarsi, come d'un aspetto suo finora ignorato, del suo atteggiamento di poeta civile, che ci si mostri per la prima volta e balzi fuori improvviso da queste dieci canzoni, martellate e misurate al largo respiro della Patria, balzata, essa sí, improvvisamente, dalla miseria d'una sua lunga decadenza dalla quale non si vedeva come mai potesse risorgere.

Ma se questa immancabile resurrezione non la vedevamo noi, o, meglio, non la vedevano i censori di Gabriele d'Annunzio, ben Egli avea fede in essa e ad essa cooperava da lunghi anni, con vigile cuore, impavido a traverso l'indifferenza o l'odio de' suoi contemporanei. « Io starò fermo in campo, Egli aveva cantato, Contro l'odio selvaggio e il falso amore E ridendo farò la mia vendetta »; e pur dolendosi amaramente perché in una melma spessa e grigia una moltitudine ignobile si agitasse e trafficasse come nel suo elemento natale, e in Tullio Hermil e in Andrea Sperelli e in Giorgio Aurispa impersonando la miseria e la tristezza di un periodo angoscioso di vita italiana, vuota di pensieri e di opere, egli inseguiva con fisse pupille e con ansioso cuore un ideale lontano, e nuove albe radiose augurava e aspettava all' Italia.

Ricordiamo le memori parole che Egli pronunziò, in Or San Michele, dalla cattedra illustre, il giorno solenne della dedicazione dell'antica loggia del grano al novo culto di Dante: «Che da questa tribuna qualche vergine forza ignota si riveli, risuoni qualche

improvvisa parola di risveglio, lampeggi a un tratto qualche audace speranza! Non è vero che noi siamo in punto di perire e che tutto il paese non sia se non una immensa palude ove chi piú si agita piú affonda. La massa vitale della nazione è travagliata da fermenti occulti ond'è per levarsi qualche straordinaria febbre. Vivono qua e là uomini sinceri e forti la cui volontà si esercita secondo il bisogno morale dell'ora ch'essi attraversano, le cui azioni si svolgono subordinate a un'idea sorta in loro al contatto con la terra, intese a riempire d'un'armonia esatta i loro momenti e ad attrarre in quell'armonia i moti discordi che lo contrariano. E a quando a quando, nella stessa moltitudine si manifestano aspirazioni repentine verso la semplicità e la bellezza, che sono indizio della profonda sete ond' essa è tormentata, cui non valgono ad estinguere né a pervertire gli ignobili beveraggi che le propinano coloro i quali fanno professione di sollazzarla ». E ancóra: « V'è nella nostra terra un fondo inesauribile di forza creatrice, un nucleo di energie latente ove si ristora perpetuamente la vita che si consuma in noi, ove si formano in segreto i corpi gagliardi, i cuori vasti, gli spiriti luminosi che domani c'irradieranno all'improvviso, mentre gli strumenti della nostra opera imperfetta stanno per cadere dalle nostre mani stanche. È vero dunque che la nostra terra è ancora tanto ricca da poter nutrire il germe della più alta speranza ». E passando dall'augurio alla esortazione, ammoniva i Fiorentini nel 1900: « Fate che da voi nel nome di Dante, che fu il primo eroe di nostra gente rinnovellata, e nel nome di Garibaldi, che fu l'estremo eroe di nostra gente liberata, da voi si parta anche una volta l'esempio della volontà e dell'ardore che torranno la patria italiana alla troppo lunga vergogna e la restituiranno alla potenza del suo indistruttibile genio ». E a Milano, commemorando il Carducci, esortava i giovini: « Voi avete inteso quel che è in piacere del Nume: partite, apparecchiatevi, ubbidite: voi siete la semente di un nuovo mondo: questa è la primavera sacra ch' Ei vuole. Ma una piú antica, una piú arcana parola soggiunge e confida alla nostra aspettazione l'Eroe che levò l'inno

mattutino verso la giovinetta eterna e l'adorò quale già l'adoravano sul monte i nobili Aria padri. La raccolgano oggi tutti i prodi che vegliano e che s'armano; vi sono molte aurore ancóra che non nacquero ». E la parola è stata finalmente raccolta; la coscienza della Nazione, che parve smarrirsi per opera del mal governo dopo cinque decenii d'unità politica, si è ridestata finalmente dal lungo sonno, e l'Italia, riscaldatasi di nuovo a quella grande fiamma eroica che accomunò già tutte le anime de' suoi figliuoli in un medesimo ardore, ha ritrovato sé stessa. Il vóto e la speranza del suo Poeta son divenuti a un tratto realtà, e il pensiero civile di Gabriele d'Annunzio ha trovato la sua affermazione più sicura, più precisa, piú alta in queste dantesche canzoni della Merope, squillanti come trombe guerriere, sonanti come alati inni della vittoria.

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Le ossa di Re Manfredi.

Qualche giornale raccolse, tempo fa, la voce che in una chiesetta poco lontana da Benevento sarebbe stato ritrovato un sarcofago contenente le ossa di Re Manfredi. Ora risulta da informazioni sicure che questo ritrovamento è assolutamente insussistente. Nessun elemento nuovo, pur troppo, è dunque ancor venuto a rischiarare il profondo mistero che tanto appassiona gli storici, intorno alla esistenza e alla sepoltura dei resti mortali dell' infelice figliuolo di Federigo II. In memoriam.

Un maestro nell' imprimer libri infaticabile e maraviglioso, Salvadore Landi, direttore e fondatore a Firenze della tipografia dell'Arte della stampa, è morto grave d'anni e di domestici affanni il 1° Dicembre 1911.

Di lui scrisse degnamente sul Marzocco Piero Barbèra; noi mandiamo un reverente saluto sulla sua tomba, nella quale si potrebbe incider l'elogio che in onor del Bodoni fu già inscritto nel verso della medaglia del Galeazzi: Inter typographos cultor et artifex venustatis elegantissimus.

1912 Tipografia Giuntina, diretta da L. Franceschini Firenze, Via del Sole, 4. G. L. Passerini, direttore Leo S. Olschki, editore-proprietario-responsabile.

3

DANTE E IL DIRITTO ROMANO *

I.

I.

Esposizione ed esame critico

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della letteratura.

La vita e le opere di Dante hanno oramai una cosí ampia e particolareggiata letteratura, che per non stancare né noi né i lettori con un sistema di continui rinvii, parrebbe miglior cosa procedere liberamente per la nostra strada, senza riferirci di continuo alla sconfinata congerie di opinioni e di ipotesi che pur in uno studio modesto come questo è giocoforza esaminare e discutere.

Ma, se buone ragioni di semplificazione starebbero per un tale procedere, non esse certamente potrebbero esimerci da una esposizione critica delle diverse opinioni che in merito ai rapporti tra Dante e il diritto si contesero il campo della verità, e, d'altra parte, per la loro debolezza, giustificano questa nostra indagine, su di un tèma non certo ignoto alla critica e alla letteratura dantesca. Per questo noi abbiamo creduto ottima cosa far precedere un rapido esame di quanto si è scritto

* Questa Memoria fu premiata dall'Istituto di Storia di diritto romano dell' Università di Catania nel concorso indetto per l'aprile del 1910 sul tèma: Ha studiato Dante il diritto romano? Pubblicandola, con qualche ritocco, sento il dovere di ringraziare il prof. Federico Patetta, illustre mio Maestro, che tanto amorosamente volle interessarsi per il miglior esito di questo lavoro.

sopra le conoscenze giuridiche di Dante, persuasi in pari tempo di colmare una piccola lacuna nel campo degli studi. 1

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2. Lo studio del pensiero giuridico dell' Alighieri si può dire cominci col nostro Risorgimento, quando al soffio delle idealità civili, nel gagliardo rifiorire di studi e di coscienze, la figura del ghibellin fuggiasco > apparve agli italiani simbolo dell'unità nazionale. È assai comune in questo periodo trovare, anche in opere di carattere politico, accenni ai concetti giuridici dell'Alighieri; ma tutto questo non ha per noi che un valore molto relativo, perché piuttosto di vere e proprie esegesi ne sono soltanto delle semplici esposizioni. Il primo lavoro che prende in esame il lato giuridico delle opere dantesche è un opuscolo

1 Manca infatti una bibliografia completa e particolareggiata sull'argomento. Qualcosa si trova in WILLIAMS JAMES, Dante as jurist (The Law Magazine and Law Review ser. IV, vol. XII, 1896-97, pag. 110 e sgg.), come pure nell'altro lavoro dello stesso Williams, Dante as a jurist (Oxford, 1906). Quest' ultimo non è che un rifacimento del precedente e lascia pur esso molto a desiderare riguardo alla bibliografia. Del resto l'autore stesso lo riconosce a complete bibliography of books and articles on the legal aspect of Dante's works still remains to be compiled (pag. 64). L. CHIAPPELLI nel suo lavoro su Dante in rapporto alle fonti del diritto ed alla letteratura giuridica del suo tempo. (In Arch. stor. ital. serie V, tom. XLI, fasc. I, 1908) non si occupa che incidentalmente della parte bibliografica.

Giornale dantesco Anno XX, quad. II.

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