CANZONE IX.
Nella stagion che'l ciel rapido inchina
Verso occidente, e che 'l dì nostro vola A gente che di là forse l'aspetta ; Veggendosi in lontan paese sola La stanca vecchierella pellegrina Raddoppia i passi, e più e più s'affretta ; E poi cost soletta
Al fin di sua giornata Talora è consolata
D'alcun breve riposo; ond' ella oblia La noia, e 'l mal della passata via. Ma, lasso, ogni dolor che 'I dì'm' adduce, Cresce, qualor s' invia
Per partirsi da noi l'eterna luce. Come 'i sol volge le 'nfiammate rote, Per dar luogo alla notte, onde discende Dagli altissimi monti maggior l'ombra; L'avaro zappator l'arme riprende: E con parole e con alpestri note Ogni gravezza dal suo petto sgombra; E poi la mensa ingombra
Di povere vivande,
Simili a quelle ghiande
Le qua' fuggendo tutto 'l mondo onora. Ma chi vuol, si rallegri ad ora ad ora; Ch'i' pur non ebbi ancor, non dirò lieta, Ma riposata un'ora,
Nè per volger di ciel, nè di pianeta. Quando vede 'l pastor celare i raggi
Del gran pianeta al nido ov' egli alberga, E 'mbrunir le contrade d' Oriente: Drizzasi in piedi, e con l' usata verga, Lassando l'erbe, le fontane, e i faggi, Move la schiera sua soavemente : Poi lontan dalla gente
O casetta, q spelunca
v. 4. al. trovandosi. v. 5. al. peregrina. v. 9. al. alquanto. v. 10. ov' ella. v. 17. al. Foggi. v. 18. zappador. v. 29. del. v. 26. al. non vo dir. v. 32. . al, levasi. v. 33, erba. v. 36. al. spilonca.
Di verdi frondi ingiunea :
Ivi senza pensier s'adagia, e dorme.. Ahi crudo Amor, ma tu allor più m' informe A seguit d'una fera, che mi strugge, La voce, ei passi e l'orme;
E lei non stringi, che s'appiatta, e fagge. E i naviganti in qualche chiusa valle
Gettan le membra, poi che 'l Sol s'asconde, Sul duro legno, e sotto l'aspre gonne. Ma io, perchè s'attuffi in mezzo
onde E lassi Ispagna dietro alle sue spalle, E Granata, e Marrocco, e le Colonne ; E gli uomini e le donne E'l mondo e gli animali Acquetino i lor mali;
Fine non pongo al mio ostinato affanno : E duolmi ch' ogni giorno arroge al danno Ch'i' son già pur crescendo in questa voglia Ben presso al decim anno:
Nè poss' indovinar chi me ne scioglia. E, perchè un poco nel parlar mi sfogo, Veggio la sera i buoi tornare sciolti Dalle campagne, e da" solcati colli.
I miei sospiri a me perchè non tolti; Quando che sia? perchè no 'l grave giogo? Perchè dì, e notte gli occhi mici son molli? Misero me, che volli,
Quando primier sì fiso
Gli tenni nel bel viso,
Per iscolpirlo imaginando in parte,
Onde mai nè per forza, nè per arte
Mosso sarà; fin ch'i' sia dato in preda
A chi tutto diparte?
Nè so ben anao, che di lei mi creda. Canzon, se l'esser meco
Dal mattino alla sera
T'ha fatto di mia schiera;
Tu non vorrai mostrarti in ciascun loco:
E d'altrui loda curerai sì poco,
V. I. al. ingionca. v. 2. sanza. v. 8. al. Gittan lor. v. 9. al. sopra. v. 11. lasci Spagna. v. 17. ah Arrogo. v. 20. al. imaginar. v. 22. al. isciolti
Ch' assai ti fia pensar di poggio in poggio, Come m'ha concio il foco
Di questa viva pietra ov' io m'appoggio.
Poco era ad appressarsi agli occhi miei
La luce, che da lunge gli abbarbaglia; Che come vide lei cangiar Tessaglia, Così cangiato ogni mia forma avrei : Es' io non posso trasformarmi in lei Più ch'i mi sia, non ch'a mercè mi vaglia; Di qual pietra più rigida s'intaglia, Pensoso nella vista oggi sarei :
O di diamante, o d'un bel marmo bianco Per la paura forse, o d'un diaspro
Pregiato poi dal vulgo avaro, e sciocco: E sarei fuor del grave giogo ed aspro ;
Per cu' io ho invidia di quel vecchio stanco, Che fa con le sue spalle ombra a Marrocco.
Non at suo amante più Diana placque,
Quando per tal ventura tutta ignuda La vide in mezzo delle gelid' acque ; Ch'a me la pastorella alpestra e cruda Posta a bagnar un leggiadretto velo, Ch'a Laura il vago, e biondo capel chiuda: Tal, che mi fece or, quand' egli arde il cielo, Tutto tremar d'un amoroso gielo.
CANZON Ε XI.
pirto gentil, che quelle membra reggi Dentro alle qua' peregrinando alberga Un signor valoroso, accorto, e saggio; Poi che se' giunto all' onorata verga, Con la qual Roma, e suo' erranti correggi, E la richiami al suo antico viaggio;
v. 27. al. pellegrinando. v. 30. suoi.
Io parlo a te, però ch' altrove un raggio Non veggio di virtù, ch' al mondo è spenta; Nè trovo chi di mal far si vergogni. Che s'aspetti non so, nè che s'agogni Italia, che suoi guai non pariche senta; Vecchia, oziosa, e lenta
Dormirà sempre, e non fia chi la svegli Le man l'avess' io avvolte entro i capegli ♪ Non spero che giammai dal pigro sonno Mova la testa per chiamar ch' uom faccia; Si gravemente è oppressa, e di tal soma Mar Ia non senza destino alle tue braccia, Che scuoter forte, e sollevarla ponno E or commesso il nostro capo Roma. Pon man in quella venerabil chioma Securamente, e nelle treccie sparte Sì, che la neghittosa esca del fango.. lo, che dì e notte del suo strazio piangoy Di mia speranza ho in te la maggior parte Che se 'l popol di Marte
Dovesse al proprio onor alzar mai gli occhi, Parmi pur ch'a' tuoi dì la grazia tocchi. L'antiche mura ch'ancor teme ed ama
E trema il mondo, quando si rimembra Del tempo andato, e 'ndietro si rivolve E i sassi dove fur chiuse le membra Di tai che non saranno senza fama, Se l'universo pria non si dissolve; E tutto quel ch'una ruina involve, Per te spera saldar ogni suo vizio.
grandi Scipioni, o fedel Bruto, Quanto v'aggrada, s'egli è ancor venute Romor laggiù bel ben locato offizio! Come cre', che Fabrizio
Si faccia lieto, udendo la novella ! E dice, Roma mia sarà ancor bella. E se cosa di qua nel ciel si cura ; L'anime che lassù son cittadine,
7. 12. sanza. v. 15. al. sollevarlo. v. 16. al. ardivamente. v. 17. nighittosa. v. 19. al. mie speranze. v. 21. Devesse. al prima. v. 27. samza. v. 32, se gli è. v. 38. là su.
Ed hanno i corpi abbandonati in terra ; Del lungo odio civil ti pregan fine, Per cui la gente ben non s'assicura ; Onde 'I cammin a' lor tetti si serra, Che fur già sì devoti, ed ora in guerra Quasi spelunca di ladron son fatti; Tal, ch'ai buon solamente uscio si chiude; E tra gli altari, e tra le statue ignude Ogu' impresa crudel par che si tratti. Deh quanto diversi atti!
Nè senza squille s'incomincia assalto, Che per Dio ringraziar fur poste in alto. Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme Della tenera etate, e i vecchi stanchi C'hanno se in odio, e la soverchia vita; Emeri fraticelli, e i bigi, e i bianchi Con l'altre schiere travagliate e 'nferme Gridan: O signor nostro, aita, aita. E la povera gente sbigottita
Ti scuopre le sue piaghe a mille a mille, Ch' Annibale non ch'altri, farien pio: E se ben guardi alla magion di Dio, Ch'arde oggi tutta; assai poche faville Spegnendo, fien tranquille
Le voglie che si mostran sì 'nfiammate; Onde fien l'opre tue nel ciel laudate. Orsi, lupi, leoni, aquile, e serpi Ad una gran marmorea colonna Fanno noia sovente, ed a se danno: Di costor piagne quella gentil donna Che t'ha chiamato, acciò che di lei sterpi Le male piante, che fiorir non sanno. Passato è già più che 'l millesim' anno Che 'n lei mancar quell' anime leggiadre, Che locata l'avean là dov' ell' era. Ahi nova gente oltra misura altera, Irreverente a tanta, ed a tal madre ! Tu marito, tu padre;
V. I. pregan. v. 4. divoti. v. 5. al. spelonche. v. 6. a buon. v. 10. sanza. v. 13. al. età. v. 19. sco pre. v. 20. farian. v. 34. avian.
« PrethodnaNastavi » |