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degli interessati col tempo e col progresso sociale, aumentati di numero e di forza. E se l'acquiescenza non c'era, come era possibile che la Divinità dimostrasse « cosí bellamente la sua predilezione per l'uccisore?». Se la tomba davvero era guardata, è impossibile credere che l'uccisore vi andasse da solo con la speranza (molto meno la fiducia) di poter compiere quel pasto: né può credersi che vi andasse co' componenti della sua famiglia, e nella età comunale con quelli della consorteria a cui apparteneva, armati, s' intende, dal capo a' piedi. Sarebbe stata una mischia micidiale che, oltre a non provare né ragionevole né irragionevole la causa, avrebbe turbato l'ordine pubblico, e certo sarebbe intervenuta la suprema autorità, o in un modo o in un altro, a prevenire, e non potendo prevenire, a reprimere. L'Arias ha voluto spiegare le suppe di Dante, ma non solo non ha detto per chi e come usò il poeta il « non teme suppe » ma neppure che cosa fosse quella suppa propriamente, cioè in che consistesse: un solo de' commentatori antichi la specificò per zuppa di vino, uno la disse offa, uno suppa vel offa, uno ne fa mangiare la bellezza di nove! Ma una testimonianza assai concorde, sebbene genericamente vaga, è che si arrivava in certe condizioni, certe volte, secondo l'opinione volgare, da un uccisore a mangiare quella zuppa misteriosa e che esso non subiva per l'omicidio perpetrato molestie e danno personale. Una testimonianza non molteplice, ma isolata, autorevole però, come vedremo, perché intesa e spiegata a dovere, racchiude una verità di fatto, è quella dell' Imolese, asserente che Corso Donati mangiò la suppa o zuppa salutare e non ebbene pena ; schivò ogni vendetta.

L'Arias malamente adunque suppose che la locuzione mangiare la zuppa sia una formola ordalica, una formola, il cui significato e la cui origine si connettano con un giudizio di Dio, e che ciò concordi colla natura della vendetta comunale e che il concetto racchiusovi si trovi pure nella Divina Commedia. Ripeto che non provò il suo supposto, sebbene abbia messo tutte le sue forze a presen

tar dottamente la sua ipotesi, che invero produsse su molti impressione, e non abbia quindi alcuno cercato di reagire contro di essa. Eppure una confuta dell' opinione in proposito del coltissimo giurista, non era superflua, ed è possibile, perché non è la verità e forse non occorreva una stragrande fatica per porre, quella che lo è, in evidenza. Oltre le osservazioni suesposte, che oso credere giuste, noterò anche che il modo antico mangiare la zuppa, se avesse avuto rapporto con un'ordalía non saremmo tuttora imbarazzati a spiegarlo, a rendercene ragione, e ne avremmo certo trovata la spiegazione negli usi degli antenati, e non si sarebbe messa da tanti ingegnosi uomini la mente a tortura per veder di uscire d' imbarazzo. Se mangiar la zuppa fosse stata espressione, attenente a una forma di ordalía, se ne sarebbe scoperta l'origine, come si scoprí p. e. di porre la mano sul fuoco, formola che un dí pareva strana, ma che non fece perder tempo per comprendere ch' era una formola figurata di affermazione, della quale e origine e senso avevano connessione col giudizio di Dio del fuoco, adoperato al Medio Evo per costatare la verità di un fatto in casi dubbi; un'ordalía ch'ebbero tanti popoli e che per ragioni, dichiarate da vari dotti, si conservò secoli e secoli, sebbene tanto contraria alla ragione.

Rimandando ulteriori osservazioni alla esposizione della mia maniera d'intendere il celebre verso che, per quanto tormentato, è rimasto equivoco e oscuro, concludo questo cenno, dichiarando che accetto appieno ciò che il dotto scrittore, dietro citazione del ch. Michele Scherillo dice sulla novendialis cena, o cena mortuaria, che si faceva negli onori funebri resi al morto, nove dí dopo il bruciamento del cadavere. Certo, è istituzione differente dall' usanza cosí detta mangiar suppa, perché questa non ha « carattere d' ossequio allo spirito dell' ucciso » e l'altra < era un omaggio reso alla anima del defunto dalla pietà della famiglia ». Ma non si può non riconoscere che contribuí all' errore l'analogia nei due casi del pasto, e del tempo nel quale era di rito il farlo.

Dirò di piú; anche la fiaba che la credenza nella zuppa salvatrice mangiata sul morto entro i nove giorni dopo il suo seppellimento fosse greca, dové formarsi dal conoscersi la descrizione dell' Iliade circa gli onori sepolcrali, fatti all'ucciso Ettore nel tempo di tregua accordato al vecchio Priamo. L'eroe fu compianto in casa sino a tutto il nono giorno (ennémar) e nel decimo (té decáté) fu sepolto e fuvvi un convito perídeipnon) dato al popolo che piangeva il defunto eroe.

Nel 1905 comparve, per cura del Sansoni

in Firenze « La Divina Commedia di Dante Alighieri novamente aunotata da G. L. Passerini ». Trattandosi di un noto cultore di studi danteschi, direttore da tempo d'un non meno noto Giornale Dantesco, credei di trovare una chiosa importante sulle suppe nel suo nuovo commento, ma non vi trovai che l'annotazione seguente (vol. II, p. 345): « Suppe =zuppe. Affermano i chiosatori antichi che se a Firenze l'omicida riusciva a mangiare, dentro nove dí dal misfatto, una minestra sul corpo dell'ucciso, non dovea piú temerne la vendetta de' parenti ».

Essendo il Passerini persona indiscutibilmente erudita, adusata alle pazienti e rigorose indagini storiche, conoscitrice del metodo critico odierno, mi duole che abbia ripetuto ciò che a sazietà fu sempre detto, senz' innovare. Mi correggo: una qualche novità presenta la noterella surriferita, in confronto con le tante consimili, e l'avverto perché, come vedremo, è significativa: il dovea sostituito al potea, il minestra surrogato a zuppa.

Lessi nello stesso anno il commento pubblicato dall' ill. Torraca restando però deluso nella rosea speranza che m' ero fatta, sapendo la valentía di quel critico dotto e di un acume sí sottile e penetrativo. Il Torraca ha, come segue, ragionato sul noto passo (p. 624) ove Beatrice sdegnata parla simbolicamente del carro che fu e non è e da carro divenne mostro, con tono solenne e vigoroso: General. mente cosí si legge, e si citano i commentatori antichi, secondo i quali Beatrice, ognuno vede quanto a proposito, allude alla comune credenza che se un assassino fosse riuscito a mangiare

la zuppa su la sepoltura dell'uomo da lui ucciso dentro nove giorni dall'assassinio, i parenti dell'ucciso avrebbero smesso il proposito di vendicarlo. Ma prima di tutto i commentatori antichi non sono concordi tra loro, e il Buti esce a dire schiettamente « Di dove se la cavasse Dante, non so». In secondo luogo di questa usanza non resta alcuna traccia ne' tanti Statuti di Comuni Italiani, nelle Costituzioni di Federico II, nelle Cronache, nelle tante raccolte di documenti del Medio Evo. Statuti e documenti trattano spesso della vendetta ereditaria, ma dell'uso di schivarla mangiando la zuppa su la sepoltura del morto mai. Ammessa per vera l'asserzione de' commentatori da qual concetto etico o giuridico sarebbe nata l'usanza? Perché la zuppa avrebbe scongiurato la vendetta? E perché Beatrice direbbe che la vendetta di Dio non teme suppe? Non è improprio dire, non teme, d'un atto indubbiamente ispirato da viltà? La vendetta si faceva in terra, e si fa con le armi, col ferro, con la spada, e la Bibbia e gli scrittori cristiani, e Dante con essi parlano infinite volte, figuratamente, della spada, con cui Dio compie le vendette sue. Alla spada e alle altre armi offensive, si opponevano, nel Medio Evo, le armi difensive; e io credo che una di queste nomini qui Dante, servendosi d'una imagine viva calzante, per esprimere un concetto, del resto, da lui medesimo espresso altre volte in forma piú nobile... D'altra parte, sappiamo che gli Statuti vietavano severamente di portare armi, non solo di offesa, ma anche di difesa; ma lasciavano al podestà la facoltà di concedere di portar armi di difesa a chi aveva inimicizia di grande offesa ossia temeva vendetta; Bandi Lucchesi 301; Costituto di Siena, ec. Per tutto ciò credo che Beatrice intenda : Si copra pure di ferro, come vuole il colpevole di tanto misfatto; la vendetta di Dio lo coglierà senza fallo, perché la spada di Dio trapassa ogni armatura. Una specie di corazza era chiamata, nel latino del Duecento, iuppa, nei volgari settentrionali zubba, subba o zuppa, nel volgare toscano giubba ».

Il Torraca, dopo ciò, opinò che Dante scrivendo juppe, come nel Parad. XI. 4 scrisse

iura, e VI. 70 Iuba, mantenesse la forma latina, piuttostoché Suppe « alla lombarda ».

Al Torraca spetta il merito, nel che non ha compagno alcuno dei Dantisti per quanto insigni, di avere, se non sviscerata, accennata in modo positivo la questione della dissomiglianza delle chiose antiche fra loro. A lui, che è uno dei precipui rappresentanti della critica seria, spetta poi per intiero lode per aver dimostrato come per spiegare il non teme suppe, sia assolutamente fuor di proposito citare (cosí com'appare, presa alla lettera) la puerile nota superstizione della zuppa e di averla, sotto ogni punto di vista efficacemente confutata come inconsistente. Da li in poi intraprese uno studio che lo portò a una costruzione, ingegnosa, attraente anche se vuolsi; ma fantastica e quindi errata.

Il Torraca non calcolò che per stolta e in piú particolari discorde, quella superstizione sostanzialmente identica, era stata ammessa, nel secolo di Dante da commentatori colti di varî luoghi e di anni diversi. Doveva pertanto avere una qualche ragione di esistere: esser sorta su qualche equivoco, ma riposare su fatti reali e concreti fraintesi. Anche al Torraca che aveva preso cosí maestrevolmente le mosse, nell' intraprendere lo studio delle suppe, è mancata di quei fatti l'intuizione se non la visione per quant'è possibile esatta e piena, sulla quale solamente era fondabile un giudizio serio e dalla quale soltanto era estraibile una sintesi convincente. Dante scrisse il fiorentino suppe come hanno tutti i codici danteschi innumerevoli; come scrissero i chiosatori antichi, e quando esporrò la mia opinione arrecherò un'altra testimonianza autorevolissima, rimasta inosservata che Dante scrisse suppe.

La interpretazione del Torraca fu impugnata, nel 1906, da Alberto Ròndani in un opuscoletto, Minuzie Dantesche (Roma, F. Centenari e C.), dopo aver discusso sulla lezione << in cacume» del Purgatorio (IV, 26). Il Rondani volle difendere gli antichi espositori, Pietro di Dante, il Boccaccio, l' Imolese, il Lana, il Buti e l'Anonimo delle postille Cassinesi, e mostrare che spiegavano suppe come Voce allusiva alla usanza superstiziosa. Poi, cosa che stupisce dopo ciò, opinò, dubitativamente

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che abbia rapporto con quell' usanza il significato metaforico del vocabolo nel dialetto di Parma e di molti altri luoghi, di gastigo, danno, batosta » e cereò se Dante poté « avere avuta per tradizione domestica qualche parola del dialetto parmense ». Per mezzo di chi e come? Dall' essere di Parma la moglie di Cacciaguida!

Di contenuto in una parte lodevole, ma a mio avviso errato nelle conclusioni è lo scritto che A. Tripepí pubblicò nel prenotato anno nella Rivista Abruzzese (XXI, 17) dal titolo

«

Enigmi ed enigmofili della Divina Commedia». Non avendo potuto procurarmi quella Rivista, sono costretto a parlarne, dietro una recensione fattane in uno dei noti Bollettini Danteschi ove ho trovato che si fanno con coscienziosa esattezza. Vi lessi adunque che le suppe di Dante sono l'argomento del primo dei due enigmi. Il Tripepí direbbe che vedendo in tutti i Dizionari latini ad uso delle scuole insegnato che suppe è « vino madefacta panis offa» di Columella e che pur Pietro di Dante riferendosi alle suppe espiatrici degli assassini, ha « offa sive suppa », ne trasse motivo a sospettare che Dante ricordando il viaggio di Enea nel Tartaro (VI, 419-420 Æneid. Virg.) volesse esprimere il concetto: La vendetta di Dio non si placa, come l'ira rabbiosa di Cerbero con donativi, con offe o suppe; essa non teme di essere addormentata con suppe narcotizzanti, ma all' incontro è sempre vigile e desta.

Innanzi tutto, esaminando quanto sin qui ho esposto, osservo alla voce assassini che l'opinione volgare dell'età dantesca (e le prescrizioni statutarie) distingueva tra l' uccisore per vendetta nelle cosí dette inimicizie o guerre mortali, e l'assassino per rapina o per istinto di brutale malvagità. Vi ha e vi era divario fra le due voci, né può una usarsi per l'altra. I veri e propri assassini non si credeva che con la zuppa mangiata potessero procurarsi l'indennità. Gli assassini erano come lo

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- inescusabili e inescusati e, se presi, non andavano impuniti secondo molte legislazioni medioevali si sotterravano vivi con l'orribile supplizio della propagginazione (cfr. Inf. XIX, 50 lo perfido assassin).

Il Tripepi può obiettarmi. Ma io non spiego la voce suppe in Dante con la zuppa che si fantasiosamente i commentatori antichi, e chi li seguí o segue, supposero e suppongono mangiata sul cadavere dell'ucciso dall'uccisore suo. Io seguo un altro sistema; attribuisco a suppe in Dante il senso ch'ebbe figuratamente di offe, date per placare, senso che era presentissimo alla mente dell'Alighieri per via del testo Virgiliano da lui in più punti del libro VI imitato. E innanzi a tale obiezione dovrò pur dirgli che salvo la equazione da lui (ed è un merito) notata di suppa e offa, il resto del ragionamento, pure filando bene, non serve a spiegar bene il terzetto dantesco, anche perché nei vari dati delle chiose antiche sono delle particolarità ben determinate che con offa non si spiegano, ma che noi moderni se abbiamo il diritto di crederle alterate, fraintese, non abbiamo quello di ripudiarle come invenzioni e fiabe da contarsi a veglia, da vecchiarelle che filano a' loro ingenui nipotini. Benvenuto da Imola dice tassativamente che si credeva che Corso Donati una volta mangiasse la suppa, non la desse a mangiare: e v'è pure il particolare dei nove giorni dopo quello dell' uccisione, che sarà misterioso, ma non può tacciarsi senz'altro di cervellotico. Di piú che suppa ebbe anche identico significato a offa si disse da Pietro di Dante e poi da molti altri e l'identificazione sta; ma i passi di Columella che sono due non danno quella sinonimia sino d'allora, né io li trovo in dizionari a uso delle scuole, ma nel Forcellini ; Uno al 1. 8, c. 3 de gallin. « Cibus autem præbetur hordeacea farina, quæ cum est aqua conspersa et subacta, formantur offæ, quibus aves saginantur». È c. 9 de turdis: << Hieme offæ panis vino madefactæ celerius opimant ». Aggiungo suppa fu poi equiparata a offa dai letterati e non dal popolo offa specialmente nel senso figurato non fu mai popolare e suppa dal popolo non si usò mai per offa metaforicamente, e in tal caso usò boccone, sebbene in Fr. soupes al sec. XV (non prima) scritto allora souppes, valesse come insegna il Littré les profits » o « les orges » di alcuno. La stessa voce offa non credo si trovi in senso

figurato prima de' tempi del Bembo, comunque non nel tempo di Dante, e se per dannata ipotesi vi si trovasse, si potrebbe sempre obiettare ma Dante usò suppe non offe, e usò suppe, voce che era nel volgare fiorentino popolaresco, nei significati propri e metaforici che vedremo; e, spero, in modo da contentare i lettori più esigenti e piú istruiti.

Cronologicamente ultimo, Giuseppe Castelli ha dato coi tipi della società editoriale di Milano, un lavoro speciale sul testo intero della Divina Commedia. Egli l'ha tradotta « ampiamente in prosa pes uso del Popolo italiano », cercando << rendergli facile l'intelligenza del sacro poema » con una buona (e invero lo è) versione prosastica, la quale, se fa sparire le bellezze poetiche, fa « piú intelligibili le bellezze dei poemi danteschi ».

A compiere con coscienza la versione faticosa, il Castelli dichiara di avere studiato << lungamente il Dante con l'aiuto dei migliori commenti », ma di essersi « fermato a quelli dello Scartazzini (Mil. Hoepli 1903), del Casini (Fir. Sansoni 1899) e del Passerini» pur esso edito dal Sansoni, ritenendoli di tutti « i piú chiari ». La versione è un quid medium tra la libera e la letterale, vi sono innestate note storiche e geografiche, perché riuscisse « la lettura più facile e più piana e il controllo piú chiaro e a render questo anche più agevole, ogni brano tradotto è preceduto dai versi danteschi.

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Quanto al nostro passo, il Castelli ha (p. 410) « Chi è colpevole del traviamento della Chiesa stia sicuro che presto o tardi la vendetta di Dio lo colpirà, perché il rigore della divina giustizia non vien meno in nessuna maniera (non teme suppe) ». E qui pose in nota a pie' di pagina il solito « si credeva che un omicida, se riusciva per nove di a mangiare una zuppa sulla tomba della sua vittima, riuscisse cosí a scongiurare da parte dei parenti dell' ucciso la vendetta, la quale allora era un diritto. Seguendo questa superstiziosa credenza, i Fiorentini usavano per nove giorni vegliare la sepoltura del parente ucciso, acciocché l'omicida non potesse sfuggire alla loro vendetta ».

Il per nove giorni è errato quanto al man

giare la zuppa. Deve dire entro i nove giorni liani, io non conosco. Ho letto non poche dopo quello dell' uccisione.

Sino al 1910 niuno trattò delle suppe in Italia ch'io sappia, ma nel 1909 uscí presso la ditta R. Oldenbourg (München und Berlin) il « Dantes Fegeberg, der göttlichen Komödie zweiter Iheil.. Uebersetzt von Alfred Bassermann ».

Tal versione era stata corredata dal ch. autore di brevi e in generale buone note illustrative. A suppe dichiarava inaccettabile la spiegazione degli antichi commentatori; non piú riteneva ammissibile l'ipotesi delle suppe emessa dal Torraca e abbracciava quella, la quale vi vedeva l'allusione all'ostia con la quale si disse fosse stato avvelenato, nell'agosto 1313, Arrigo VII, ipotesi che bisognari conoscere che se è stata rinnovata, talora con qualche modificazione da vari, non ha trovato mai, in generale, credito e favore presso i cospicui rappresentanti della cultura letteraria italiana.

Dal Bullettino della Società Dantesca Italiana diretto dal chiar. E. G. Parodi (v. 20° del settembre 1913 fascicolo 3° pag. 218) apprendo che il Bassermann ha pubblicato anche delle << Chiose Daatesche ». Sulla seconda di esse, concernente le suppe in Dante, brevemente scrisse un A. F. (certamente il colto dantofilo Fiammazzo) a pag. 33 che il Bassermann si era persuaso di aver trovato negli Epodi di Orazio (v. 87) « un sostegno importante della sua interpretazione tanto bistrattata, che cioè, la vendetta di Dio non sarà trattenuta per un'ostia avvelenata da mandare ad effetto la sua sentenza (Bull. N. S. XVI, 149-50) ». Secondo il Bassermann, il « concetto espresso da Orazio è identico a quello della interpretazione da lui propugnata », ma il prenominato osserva contro il dantista tedesco (del quale vidi essere pur il lavoro « Orme di Dante in Italia » edito, tradotto dal prof. Gorra in Bologna dallo Zanichelli) nel modo seguente: « Qui però, si dovrebbe dimostrare, piú che dei concetti, la corrispondenza de' termini, cioè venena=suppe!».

L'osservazione acuta parmi giustissima. Altri stranieri che abbiano combattuto la vecchia chiosa su suppe e abbiano creduto di poter risolvere un quesito rimasto arduo, a Ita

versioni, se erano fornite di note dichiarative, ma ho costatato che non fanno che tradurre meglio o peggio, talora, non spesso in maniera quasi inappuntabile, una o un'altra delle note glosse del secolo XIV. Tra le migliori tedesche da me conosciute è « Dante Alighieri 's Göttliche Komödie übersetzt und erläutert von Friedrich Notter (Stuttgart verlag von Paul Neff, zweiter band) » 1872, che ha (pag. 328): « Der Mörder glaubte sich vor Blutrache sicher, wenn er innen halb der ersten neun Tage nach dem Mord auf des Ermordeten Grab in Wein gebrocktes Brod ässe. Die anwendung solchen Zaubers abzuhalten, pflegten die Angehörigen das Grab neun Tage lang bewachen zu lassen, natürlich will die stelle nich sagen, jener Entweiher der Kirche habe ein solches mittel wirklich angewandt, oder werde es anwenden, sondern nur: gegen die Strafe, die ein solcher Frevel nachziehe, gebe es kein Abwehr ».

In inglese è certo una delle piú accreditate << The Divine Comedy of Dante Alighieri translated » dal ch. Henry Wadsworth Longfellow, edita a Boston dalla ditta « Houghton, Mifflin and C. » nel 1865, e ristampata nel 1867, 1886, 1893 e nel 1905. Da quest'ultima trascrivo quanto segue (pagg. 454-455): « In the olden time in Florence, is an assassin could contrive to eat a sop of bread and wine at the grave of the murdered man, within nine days after the murder, he was free from the vengeance of the family; and to prevent this they kept watch at the tomb. There is no evading the vengeance of God in this way. Such is the interpretation of this passage by all the old commentators ».

Duolmi non aver ancora potuto vedere il << commentino in inglese » fatto dall' ill. prof. americano Grandgent, nella edizione italiana della Divina Commedia, dichiarato dal coltissimo E. G. Parodi << ammirevole (oltrecché per fresca e sicurissima conoscenza delle minime questioni) tanto per la sua perspicuità quanto per la sua sobrietà ».

Dell'anno 1910 conosco tre pubblicazioni Dantesche. La Commedia di Dante Alighieri

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