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venuti con essi nella succitata scrittura, ed impedire così la costituzione della società, alla quale, coll'attuazione di quella promesa, i quattro promissari in comitato promotore miravano col concorso di esso venditore, a costituire ed a formare la quale avevano collocato un numero superiore di azioni all' indicato in detta scrittura, egli, e per lui i suoi eredi, dovessero rispondere dei danni relativi alla alla quantità d'azioni ch'erano perciò rimaste a disposizione del comitato, meno le due, per le quali altro de' suoi membri ebbesi a disinteressare in causa.

. E questi concetti resistono alle censure elevate col primo mezzo.

La Corte non sconobbe altrimenti i principii essenziali del contratto di compra-vendita. Le due persone giuridiche sue coefficienti furono da essa spiccatamente, e con incensurabile apprezzamento ravvisata in quella scrittura. Non si sognò tampoco di attribuire al Carrera creditore la qualifica di promotore della società a favore della quale la fatta promessa di vendita doveva devolversi. Egli, secondo la Corte, vi assunse e conservò sempre la parte sua di venditore, e se si sottoscrisse al pari degli altri, ciò non poteva condurrre a fargli assumere una veste diversa, quando il contenuto nell'atto sottoscritto non glielo dava. L'interpretazione della Corte è correttissima. Egli promise di vendere pel prezzo determinato ai quattro promotori della società, promise di ricevere azioni della medesima in parziale corrispettivo della vendita che loro faceva. Ma l'obbligazione

di vendere l'assumeva verso quei quattro, che si proponevano bensi nel termine convenuto di formare una società, nella quale egli avrebbe partecipato con trenta azioni, senza però accettare detta promessa per la società, in guisa che, questa non costituendosi, rimanesse lettera morta.

Esula dunque ogni ombra di preteso travisamento di quella scrittura, la quale fu fonte per-. fetta di obblighi pel venditore, come di diritti nei quattro che accettarono la contenutavi promessa> nella qualità di comitato per promuovere la formazione dell'accennatavi società.

E ciò è consentaneo alla legge, perchè appunto a codesti mezzi potenti d'industria, quali sono le società anonime per azioni, quand'esse non si formino per sottoscrizioni, come prevede l'art 29 del Cod. comm. e s'inizino invece da promotori, come dice il precedente art. 125, questi nello stadio preparatorio che necessariamente deve antecedere alla loro formazione legale, sono responsabili solidariamente e senza limitazione, delle obbligazioni che all' uopo contraggono, ed assumono a loro rischio la conseguenza degli atti, e le spese necessarie per la costituzione della società, senza potersene, in caso di mal esito delle loro pratiche, rivalere verso i sottoscrittori delle azioni. D' onde legittima la illazione, che a scanso, di questa responsabilità, contraendo. in precedenza con terzi per assicurare l'obbiettivo della società futura, abbiano un'azione in proprio per risarcimento di danni verso

costoro, che, mancando all'assunta obbligazione, togliessero il mezzo di costituire la società deludendo le pratiche fatte da essi a tale intendimento, quando altro non occorreva a raggiungerlo che il loro

concorso.

Per cui, anche sotto tale aspetto, fu correttissimo l'avviso della Corte di merito che ritenne perfetta la promessa di vendita dei terreni in questione e suscettibile di giuridiche conseguenze nei rapporti fra il comitato promotore ed il venditore, che col suo fatto ebbe a mancarvi, impedendo la formazione della società a cui mirava.

Non merita sorte migliore il secondo mezzo col quale si redarguisce la sentenza per contraddizione nei suoi motivi. Avendo dessa ritenuto che la promessa fatta dal venditore colla scrittura del 30 marzo 1886 ai componenti il comitato promotore della costituzione della società di cui trattasi, fosse obbligatoria fra essi, andava da sè che, essendosi egli rifiutato di ridurla a contratto formale in base allo statuto che doveva essere redatto alle condizioni pattuite in detta scrittura, mentre essi dal loro canto ben prima del termine prefinito avevano raccolto gli azionisti nel numero prestabilito alla costituzione formale della società, egli dovesse rispondere dei danni così cagionati, in osservanza dell'art. 1165 Cod. civ. che li attribuisce nei contratti bilaterali all'adempiente in confronto dell'altra parte che mancò dal suo canto all'assuntasi obbligazione, come con incensurabile giudizio la Corte ritenne. Lungi dunque dal contrad

dirsi, essa fu perfettamente logica nella trattane conseguenza ch'era scritta in legge dal momento che la promessa alla quale il venditore aveva mancato doveva considerarsi per lui obbligatoria.

E per lo stesso motivo sono a respingersi il terzo ed il quarto mezzo relativi alla condanna nei danni, condanna che deriva necessariamente dal fatto ritenuto che la promessa di vendita fosse obbligatoria pel Carrera, presentandosi i requisiti voluti dalla legge, come si vide, per la sua efficacia fra il promittente ed i promissari costituiti in comitato promotore per la formazione della società che doveva approfittarne, e del non essersi questa potuta formare per colpa del promittente.

Pel quinto mezzo, che ha tratto all'avere la Corte ricusato di occuparsi della domanda di cancellazione della ipoteca giudiziale iscritta dai controricorrenti in base alla sentenza loro favorevole del tribunale, e ciò perchè ostasse a conoscerne l'art. 490 Cod. proc. civ. potrebbe osservarsi che fosse superflue versarvi dal momento che per l'anzidetto il ricorso va a rigettarsi, resta quindi ferma la contraria pronuncia che a fatto loro ragiona sui danni; a cauzione dei quali la detta fu presa. Anche astraendo però da questa considerazione, il mezzo non sarebbe fondato, essendosi più volte deciso che spetta sovranamente al magistrato del merito il giudizio se una domanda dedotta in appello debba aversi per nuova in confronto di quella che formò oggetto della pronucia di primo grado.

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Attesochè la Cassa di risparmio di Barletta era posseditrice di una cambiale del 20 febbraio 1887 per L. 10.000 accettata da Guglielmo ed altri Quinto a favore di Luigi Chiarazzo, pagabile in Barletta presso costui, ed occorrendo da F. S. di Vaole. Questa cambiale si vede girata dal Chiarazzo alla ditta Arpino, da cui girata a Giovanni Diara, e da costui alla Cassa di risparmio di Barletta, la quale non essendo stata soddisfatta alla scadenza nel 22 marzo fece intimare protesto ai signori Quinto, e per essi al Chiarazzo, il quale dedusse di non aver provvista di fondi. Di poi lo stesso Chiarazzo con atto del 24 marzo dichiarò alla ditta Arpino che egli fino dal 1867 aveva avuto dai signori Quinto alcune cambiali in garantia di somme anticipate per acquisto di grani; che una di queste cambiali aveva egli pignorato presso la Cassa di risparmio di Barletta, apponendovi per garentia della Cassa la sua firma in bianco, e che poi, avendo pagato il prezzo della pignorazione, aveva ritirato

la cambiale, la quale, ultimati i conti con i signori Quinto, aveva ad essi consegnato, senza cancellare la firma apposta in dorso, e quindi ritenendo che i signori Quinto avessero messo in circolazione la cennata cambiale già estinta, invitava la ditta Arpino a dichiarare in quale epoca la gira era stata fatta, ed a chi aveva pagata la valuta, al che la ditta rispose che essa, pur non conoscendo il Chiarazzo, lo riteneva solvibile per informazioni avute, e che aveva accettato la sua firma nello interesse dei signori Quinto. Ed in seguito di tale atto, la ditta Arpino in marzo 1887 intimò precetto al Chiarazzo, il quale vi si oppose, sostenendo per i fatti di sopra cennati che l'effetto cambiario era estinto.

Il tribunale di Trani con sentenza del 31 maggio 1887 rigettò le opposizioni; però sul gravaine del Chiarazzo la Corte di appello ritenne che la dichiarazione fatta dalla ditta Arpino, e la circostanza che la cambiale vedevasi scritta su carta del 1877 erano gravi argomenti almeno per istruire sulle fatte opposizioni, e quindi facultò il Chiarazzo a provare con testimoni che la cambiale era stata rilasciata in bianco nel 1877 per negoziazione di grani futuri, e che in bilancio fu pignorata alla Cassa di risparmio di Barletta; e che, espletata l'operazione venne estinta, e riconsegnata ai debitori Quinto, dai quali fu rimessa in circolazione.

Attesochè sul ricorso prodotto dalla ditta Arpino e comp., la Corte di cassazione osserva:

Che innanzi tutto è necessario tener presente alcuni principii fondamentali del giure cambiario che debbono servire di guida per vedere se la Corte di appello abbia ben provveduto sulla controversia, di che trattasi.

Che il nuovo codice ha segnato indubbiamente un progresso rispetto al diritto già esistente, dando al titolo cambiario garantie tali, e tale un valore da considerarlo perfino come titolo esecutivo nei suoi effetti, art. 323 del Codice di commercio.

Che una delle principali garantie di questo titolo, che ha tanta parte di qualsiasi transazione commerciale, è sanzionata dall'art. 324 del codice stesso, in cui è stabilito che il debitore non può opporre che le eccezioni riguardanti la forma del titolo, o la mancanza delle condizioni necessarie all'esercizio dell'azione, e le eccezioni personali a colui, che la esercita.

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Che questa disposizione ha per obbietto di rendere certo il possessore di una cambiale, che tutti coloro, che hanno su di essa apposta la loro firma sia da accettanti, o giranti, sono solidalmente verso di lui responsabili del pagamento, salvo che non avessero eccezioni personali verso di lui, e sempre che il titolo fosse in regola per forma, e non mancasse delle condizioni necessarie all'azione quali sarebbero il rispetto dei termini dal Codice stabilito per l'esercizio della medesima. Tutto ciò importa che il girante, il quale rilascia la cambiale con la sua gira in bianco, sia pure che la rilasci allo accettente, dà a costui col solo fatto

dell' apposizione della sua firma a tergo dell'effetto un valore per metterlo in circolazione, e quindi in altri termini assume per lui una garentia. Non ha quindi il girante alcuna eccezione da proporre contro il terzo possessore relativamente ai rapporti, che possono per avventura esistere tra esso girante e lo accettante. Il terzo possessore debbe essere garentito con l'azione cambiaria, e sarebbe di grave detrimento al commercio in generale ed al commercio cambiario in particolare se per la mancanza di tale garantia venisse scossa la fiducia in un titolo, che pel commercio costituisce la moneta contante.

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Che col vigente codice nel fine di sempre più evitare le possibili eccezioni alla validità della cambiale, si è voluto escludere anche la necessità di indicare sugli effetti la causa della sottoscrizione di essi formando a tal modo il principio che la sola firma sul titolo cambiario costituisca la obbligazione.

Che il Chiarazzo quindi avrebbe dovuto o cancellare la sua firma dall' effetto, ovvero quietanzarlo nel restituirlo; e non avendo ciò fatto, le eccezioni, che per avventura potrà proporre contro l'accettante sulla validità della obbligazione, non possono nuocere il terzo possessore, che nel solo caso, in cui le eccezioni medesime sieno anche a lui opponibili, o che si provasse da lui la scienza dell'inefficacia dell'obbligazione verso l'accettante, e per conseguenza la mala fede.

Che la Corte di appello, a norma dell'art. 44 Codice di commercio,,

ben poteva disporre la pruova per testimoni, essendo un mezzo dalla legge consentito per la liberazione delle obbligazioni commerciali. Però doveva prima discutere se i fatti che il Chiarazzo intendeva provare, erano o pur no in opposizione con i principii di sopra

cennati.

Del pari la Corte di appello doveva discutere, e, se era il caso, istruire sulla eccezione proposta dalla ditta di essere cioè uso costante in commercio, e specialmente presso le Banche, di ammettersi allo sconto le cambiali che si presentano, pagando la valuta all' esibitore, senza provare se questi figuri da girante, ovvero da emittente ed infine doveva pure discutere le pretese contraddizioni che si attribuivano al Chiarazzo.

La impugnata sentenza adunque debbe essere annullata, sia perchè non ha tenuto presenti i principii di diritto che informano il giure cambiario, sia perchè ha omesso di motivare su deduzioni proposte con capo speciale di comparse. Ed allorchè poi sarà discussa in grado di rinvio, il magistrato di merito giudicherà ancora se sia stata o pur no esatta la interpretazione data dalla Corte di Trani alla risposta della ditta Arpino in seguito della richiesta fattale dal Chiarazzo con atto del 24 marzo.

La Corte di cassazione cassa ecc.

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Con sentenza del Tribunale di Massa delli 23 maggio 1888 veniva pronunciato il fallimento di Giulio ed Alessandro Cocchi sull'instanza nello stesso giorno proposta dal Direttore della Banca Toscana (sede di Massa) e di Poletti Pietro, portatore di due pagherò, non ancora scaduti, senza essere indicata nè la loro somma nè il giorno della scadenza, motivandosi la dichiarazione di fallimento su che nello stesso giorno era stata pronunciata sentenza di condanna dei fratelli Cocchi a favore della Banca di Massa per L. 13,900 per effetti cambiarii da essi girati ed accettati.

A tale sentenza hanno fatto opposizione li fratelli Cocchi con atto

Consulta: VIDARI, Corso di diritto comm. Vol. VIII n. 4302 e seg.; SACERDOTI, Diritti dei creditori per gli alti compiuti dal fallito pag. 16; CUZZERI, Commento sul Cod. di comm. pag. 18; BOLAFFIO, Questioni controverse nel giudizio di fallimento p. 5 e 6; BENSA, Del concetto giuridico delle cessazioni dei pagamenti (Dir. Comm. 1885, 65); VIVANTE, Interpretazione dell'art. 705. (Temi Veneta X, 22).

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