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giustamente Bastiano Del Rosso, armossi a sua difesa contre Bernardo; e Lionardo Salviati rintuzzò alcun poco Torqua to, il quale, come afferma il Quadrio nella storia e ragione d'ogni poesia, troppo pungentemente offese i Fiorentini nel suo dialogo del Piacere onesto. Perchè non dubitarono i valorosi Accademici di assoggettare alla più severa critica la Gerusalemme liberata, che non fu posposta al Morgante, nè al Girone, ma fu paragonata all'A varchide dell'Alamanni, come dice il marchese Orsi nella sua difesa del poema medesimo canonizzato, è vero, dalla pubblica opinione, ma come tutte le umane cose, non esente da reali difetti, dal Tasso medesimo riconosciuti.

Quandoque bonus dormitat Homerus = Pare ognun sa come, sopite quelle celeberrime gare, in quel secolo immortale l'Accademia istessa smentisse di poi avvisatamente, e con le più obbliganti e nobili maniere quel ch' era stato pubblicato contro la Gerusalemme Liberata, annoverando il Tasso fra gli scrittori che fanno autorità di lingua.

Di poi con un anacronismo imperdonabile già tempo rilevato, il nostro critico con temerario ardimento pronunzia per delirante nel cospetto del mondo il gran Galileo, perchè nella sua giovenile età, e molto prima d'alzarsi alle celesti contemplazioni mostrò tanto senno, è tutto finissimo nelle sue riflessioni sopra la Gerusalemme, le quali anzichè far torto al sommo ingegno di lui, lo fregiano di sommo onore, dato avendo a divedere fin dai verdi anni a qual sublime altezza giunta sarebbe la mente sua divina. Eppure (chi il crederebbe!) il Galileo da lui, per esser forse fiorentino, è detto delirante, ed il Tasso vien divinizzato, forse perchè nato da padre bergamasco. E quivi bene sta a proposito il ripetere: Tanto possono anco negli animi dei nostri letterati le passioni, che non paghe di mordere i vivi, tormentano pure gli estinti, senza verun rispetto ai decreti del pubblico e alla santità dei sepolcri.

Vano si è pure l'immaginato lamentevole piagnisteo, che egli mette in bocca alle scienze ed alle arti per non averci il loro conto nel vocabolario, ben sapendosi che nulla hanno che fare in un dizionario di lingua i termini di scienze e di arti meccaniche e liberali: que' termini vo' dire, che non sono di uso ordinario e famigliare, bastando che vi siano soltanto annoverate quelle parole scientifiche, le quali possono comunemente ascoltarsi, o è mestiere intendere nella lettura dei libri.

Miglior divisamento pertanto sarà che le loro parole siano registrate nei proprj vocabolarj di scienze e di arti, e non in un dizionario di lingua.

Asserisce appresso che nella prima riforma del vocabolario si mandò avanti l'impero dell'uso: la qual proposizione resta oscura anzi che no: perchè nelle lingue l'autorità val più della ragione; e l'uso, che non ha nè legge, nè ragione, si è quello che forma l'autorità tanto nel materiale e nella significazione delle parole, quanto nell' analogia ed irregolarità delle terminazioni, e nelle servitù e libertà delle costruzioni, così che l'autorità dell'uso è stata da alcuni chiamata più presto tirannia, che assoluta signora delle lingue.

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Montato quindi in cattedra la fa da severo pedante co' suoi scolaretti in grammatica, vo' dire l'Infarinato e l'Inferigno, che lo fanno inquietare un pochetto, e chiama a sè il Salviati a render conto del perch'egli abbia escluso alcune voci derivanti dal greco e dal latino, come rebbe a mo' d' esempio Pederasta di greco fonte tutta, e della quale tanto si piacque il nostro pedagogo, e lo rampogna poi acerbamente d'averne ammesse altre scaturite dalle medesime sorgenti che a lui non piacciono; e Lionardo avrebbe di leggieri potuto qui temere qualche bravata, se mai scusato si fosse col dire essere state quelle allora in uso nei buoni scrittori, dei quali se alcune opere non furono approvate, ed altre sì, à tutt'altro si dee addebitarne la cagione, che a quella d'essere scritte in lingua fiorentina queste, e quelle no: ma sì perchè composte le une con maggiore castigatezza, e con più esatto stile e purgato delle altre.

Quello però che veramente farebbe ridere tutta la vita, si è la pretensione di lui che il vocabolario dovesse citare nella quarta sua riforma, e classiche dichiarare le celebratissime opere che allora non si conoscevano, perchè non per anco date alla luce; tra le quali le lettere di Annibal Caro scritte a nome del cardinale Farnese, le quali non erano ancor pubblicate, e che avrebbe egli preferite alle familiari del medesimo, le quali, cosa singolare a dirsi, confessa di stil festivo e purgato, ed opina poi che fossero scritte senza pensarvi o piuttosto dormendo.

Stabilisce quindi una gran diversità dal linguaggio toscano all'italiano, senza spiegarci in che consista questa gran differenza, come fa il Muzio nelle fantastiche sue battaglie, dalle quali il nostro autore ha scavato tanti

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reconditi tesori. Questioni tutte antiche quanto il brodetto, ed oramai rancide ed andate pienamente in disuso. Asserendo ancora che i diversi italiani dialetti non s'intendono tra di loro, non ha potuto confondervi il linguaggio toscano, sapendo bene ch'esso è inteso in tutte le parti d'Italia, e che per questo solo oggetto d'imparar bene la lingua italiana, tutti i più rinomati collegi e conservatorj della Toscana abbondano di illustri giovanetti e di nobili fanciulle inviate colà da tutta Italia per esservi educate, le quali poi ripatriandosi sono timamente intese da tutti non solo, ma formano altresì con la dolcezza e con l'eleganza del loro parlare la delizia, e direi quasi l'ammirazione di chi le ascolta. Grazie non di meno debbono rendere i Toscani al medesimo del buon consiglio che loro porge da pari suo, di studiare la propria favella, quando vogliano scrivere correttamente; se non che per avventura egli mostra con ciò il cuore punto da invidia, perchè fatica minore debba loro costare un tale studio: in forza di che senza avvedersene il buon uomo confessa che la toscana favella è la vera ed unica lingua italiana.

Dopo tutte queste cose dette e non dimostrate, ne deduce XIV conclusioni corollarie, che è difficile conoscere di dove egli le tiri, e le quali dubito che dovessero piuttosto chiamarsi canoni o decreti per servire di regola al gran Concilio: e protestando con adulazione veramente stomacosa bastare a lui che ne sia persuaso uno solo, l'illustre suo amico e protettore, onde il pubblico gli abbia per buoni e per veri. Ammessa la quale infallibilità di un solo, egli era inutile appellare al Concilio; oltre di che se questi corollarj fossero veri, dovrebbero persuadere ognuno che ha l'uso della ragione. E non era egli meglio chiamare questi corollarj Progetto di costituzione per formare un nuovo vocabolario di lingua italiana? Ma ascoltiamoli di grazia distesamente; e trattandosi di articoli che in sè racchiudono la quintessenza dell' opera, e che debbono portare a delle grandi conseguenze richiamiamo vie maggiormente la nostra

attenzione.

Corollario 1. Una nazione di molti governi e molti dialetti, ecc. ecc.

(Sarà continuato)

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Stagioni di THOMSON, tradotte dal sig. LEONI.

L'

INFATICABILE sig. Leoni ha terminato un altro lavoro ed ha meritata una nuova corona intrecciata dalle italiche ed angliche muse. Ognuno conosce la celebrità del Poema didascalico di Thomson intitolato Le Stagioni (The Seasons), e le mediocri traduzioni che finora di quel poema ha avute l'Italia. Il sig. Leoni lo ha tutto tradotto anch' egli, e si prepara a pubblicarlo a Verona co' torchi della Società tipografica all'insegna della Serpe. Egli ha voluto mandarcene qualche saggio per metterci a portata di giudicare del suo lavoro, e noi crediamo far cosa grata ai nostri lettori inserendoli nel nostro Giornale, parendoci degni degli applausi del pubblico. Noi torneremo forse ancora su questo argotosto che avremo veduta alla luce tutta opera. Eccone intanto due saggi felicissimi.

mento

ין

Episodio tratto dall' estate.

D'erma selvetta di nocciuoli all'ombra,
D'amor trafitto, era Damone assiso;

E al rio, stillante dal dirupo, e all'aura

Tra le foglie de' salici loquace,

Del rigor si dolea di Musidora.

Pur cruda ella non era; e sol pudico

Ritegno o vana femminil baldanza

Fean contrasto alla fiamma ond' ella ardea.

Ma i sospir tronchi e i fuggitivi sguardi

Ne discoprian talor l'interna piaga.

A penetrar di Musidora i sensi,

Inspirato dal loco, un amoroso
Carme tessea Damon. Pastor felice!

Fausta ventura, onde sovente il fato

De' regi pende, alle tue brame arriso.

Bibl. Ital. T. XI.

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Scorta da stuol di pargoletti amori, Volse la ninfa a quella chiostra il passo. Vermiglia in volto, in abito negletta, Nel fresco umor le alabastrine forme Gia dalle vampe a restaurar del Sole. La vede l'amator. Pensier diverso In forse il tien. A portar lunge il piede Lo consiglia modestia: amor lo arresta. Bella tra quante, a ricrear le membra, Sceser d'Arcadia nelle vitree fonti, Trepida il guardo ella d'intorno gira, E dell' invido lin disgombra il fianco. Non cosi tocco il pastorello Ideo Fu dall' emule Dive, allor che ignude Le grazie a lui delle sembianze offriro, Qual tu, Damon, quando l' eburnee spalle E il ritondetto piè spogliò l'amata, E il nodo sciolto del virgineo cinto, D'infra la veste il rilevato petto, Candido più che neve, a te scoperse. Giovane incauto! in lei ti affissi, e godi Fuggi. La vista di bellezza ignuda

Far potria, se ti alletta, il cor men puro.

Nello splendor delle sembianze, in riva

Ella così del fiumicel si mostra,

E paventosa fin dell'aura, il volto
Di bell' ostro colora, e in sè si stringe.
Quasi cervetta saltellante, il margo
Alfin lascia, e nell'acque i membri attuffa.
Guizza la ninfa, e nuove grazie svela.
A giglio o rosa di rugiada aspersa
Nell' arida stagion per man dell' alba,
Tra i liquefatti argenti ella rassembra:
E mentre del ruscel uell' imo grembo
Di più fresco lavacro in traccia ir gode
Sparte a fior d'onda le lucenti chiome
11 bel tergo ne velano. Ella sorge;
E dell' ascoso pastorel piagato

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È ognor più il petto. A temeraria impresa
D'amor l'ebbrezza lo sospinge onesto
Pensier, non mai dal vero amor disgiunto,
L'ardir ne affrena: di villano affetto

Accusa agli occhi suoi quel che si usurpa.

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