Vince modestia alfin. Rapido ei fugge:
Ma queste note in pria, con man tremante Da lui vergate, sulla sponda gitta:
» Ti bagna in securtà, vergin leggiadra,
» Dai santi rai di fido amor sol vista. » A custodir la via, sì che importuno » Sguardo profan te non discopra, io parto. Pari alla Dea cui l'ocean diè cuna (Mirabil opra di scarpello argivo!), Che inchinandosi lieve, delle palme Al nudo sen tenta far velo, immota Al rimirar dell' improvviso foglio Musidora riman. Quindi riscossa,
Con ratto piè corre alle vesti ( ignote Dell' Eden a' bei giorni); e cinte in fretta
Le terse membra, quell' arcano scritto Infra 'l sospetto ed il desio raccoglie. Ma poi che dell' amato, al primo sguardo, Riconobbe la man, svanì la tema, E più mite consiglio in cor le nacque. Dilicato rossor, da colpa scevro, E del pudico di Damone affetto La lusinghiera idea, non dal soave Pensier di sua beltà forse divisa, Un piacevol tumulto in sen destollé : Ma non fu lenta a ritornar la calma. Con mal temprato calamo sul tronco Allor d'un faggio queste note incise, Cui ben presto Damon d'innamorati Baci e di pianto per letizia asperse : » Adorato garzon, cui tanto arrise
» Fortuna, e (ahi troppo!) amor; di queste cifre
Solo e non dubbio interprete; sii casto
>> Ognor com' oggi; e verrà tempo forse
» Che più il dover non t'imporrà la fuga.
Corso ti slancia, o cacciatrice schiera : Lo spazio e 'l tempo col desio divora, E di coraggio e d'agil piè fa prova. Felice quei che i tortuosi giri Segna primier della fuggente, volpe, E l'arti ne discopre e la favella Conosce de' levrieri, e la raggiunta Belva spirar sotto gli strazj mira
Di cento bocche, e non mandar lamento. 11 corno suona, che del fiero ludo Il fin prescrive. Al destinato albergo Si ricovra l'eroe. Pendon sospesi Alle mura i trofei, che d'animoso Industre cacciator fan chiaro il merto. Inaridito della volpe il cuojo
E al tetto affisso, e di ramoso cervo La vasta fronte le pareti adorna.
Si avvicina la notte; e l'anelante
De' compagni drappello a quei si aggiunge. Assiso il prode allor, di sue bell' opre Incomincia l'istoria, al braccio ignote De' Centauri Tessalici. Di voci Suona di maraviglia e di contento La villesca magion mentre di larga Spoglia de' boschi il focolar nutrito, Stridente avvampa, e i glorïosi volti Degli ospiti rischiara. Di esquisito
Licor spuman le tazze, e del fumante Lombo sotto l'incarco il desco geme. In pugno ai prodi il trinciator coltello Risplende gia; di spazioso solco Impresso già l'abbrustolito fianco Appar del bove; e con bramosa fame, Delle fatiche del percorso arringo
Si compensa la turba. Ognor più il labbro
Ne discioglie allegria. Della Britanna
Gloria, che mai, sinchè da tanta mole Di pingue cibo suo vigor derivi,
Languir non può, già ognun ragiona, o il ferro
Avidamente in più cedevol dape Immerso ad or ad or (se dell' ingordo Avvien pur che il costume indugio soffra), Al cielo i vanti della caccia estolle.
Sazïata la fame, alla seguace
Sete il capace vetro impon che appresti. Di rubicondo umor colmo, spumante, Lo stringono i gagliardi ; e tal profumo Intorno si diffonde, che al soave Fiato rassembra di campestre ninfa, Quando sul letto di viole assisa, Dell' adorato pastorello i passi Ascolta, che furtivo a lei si appressa, Dalla riposta sotterranea chiostra Il purpureo d' ottobre almo licore Di sei lustri superbo, alla gioconda Notturna luce brilla, e de' più rari Generosi falerni emula i pregi. Il tempo ad ingannar, sotto fumosa Nuvola per brev' ora il Whist si aggira; E da' sonanti bossoli scagliato
Prorompe il dado, che al romor si mesce Del garrulo drappel. Con folle scherzo Afferrata così, tratta è l'ancella.
Ma lunge i lievi giochi! Il sitibondo
Stuolo in cerchio si aduna, e a valorose Prove, devoto dell' allegro Bacco, Già si apparecchia: nè rifugio l'arte Appresta al meschinel, che al debil petto Il soverchio Lièo paventa infesta.
In ogni gola il puro umor gorgoglia ;
La mensa ondeggia; e al piè dell'ebro infida, Già la terra vacilla. Romoroso
Da venti lingue a un tempo esce l'errante Sermon confuso, e di corsier, di veltri Si favella, o di spettri, o delle vane Ragion del vulgo e del poter de' regi: Quando repente in risonante metro Dell' allegrezza la canzon s'intuona, Che sino al cor penetra, e la concorde Ingenua laude le risponde e 'l riso. Dalle grida così desto il levriero, Sorge, l'orecchio tende, e dell' accesa
Gara il clamor cogli ululati accresee. Quasi notturna procellosa piova, Che, cessata la furia, a poco a poco In più sommesso mormorio si perde, Di que' prodi così langue la voglia. Inerte il labbro, più a vibrar non atto La sonante parola, ai sorsi estremi Appena si disserra. Al par di Sole, Che fra mezzo alla nube i rai tramandi, Duplici e saltellanti agli ebbri lumi Appajono le faci, e tutta intorno
Move la stanza in volta. Il piè vacilla; E con tarda caduta i ponderosi
Corpi il terreno ingombrano. Dispersi Fogli, fiale e rovesciati nappi
Giaccion sul desco, ed al suo piè la stesa Sibilante caterva. In mezzo siede Colla distorta gamba il pigro sonno E sopor grave negli spirti infonde, Che all'alba cessa. Per gran ventre altero, D'immenso cibo e colme tazze abisso, Campion del clero invitto in piè sol resta; E vôlto il guardo al sonnacchioso gregge, In bassi accenti, di sua prava etade La debil tempra nel partir deplora.
Saggio dell'Istituto clinico Romano di medicina esterna esposto da GIUSEPPE SISCO, P. professore e direttore di clinica chirurgica nell Università Romana della Sapienza, ecc. Primo e secondo anno scolastico 1816, 1817. Roma, 1817, in 4.° con due tavole in rame, presso il de Romanis.
DALL' età di Erofilo e di Erasistrato, trecento anni all'incirca prima dell' era volgare, la medicina fu divisa in tre parti, ed a buon dritto fu dato il nome greco di chirurgia a quella che soccorre agli infermi con l'opera della mano. Questa divisione e questo nome hanno ottenuto il voto de' secoli posteriori, e concordemente si adottarono sino a questi ultimi tempi; ma quella petulante smania di novità, che tanto oggi giorno prevale, e che vuolsi, se non con vere scoperte, ottenere almeno con introdurre nuove parole, ha spinto alcuni Francesi ad abbandonare questo antichissimo e giusto vocabolo, sostituendo l'altro oscuro, equivoco e fallace di medicina esterna. Non è difficile l'intendere che da tale denominazione tutt'altra idea può nascere che quella di chirurgia, la quale più che dall'esterna sede de' morbi, e dall'esterna applicazione de'rimedj è così detta, lo ripetiamo, dall' operare della mano del professore. E veramente non sappiamo quanto esterna medicina ella sia l'estrazione della pietra dalla vescica, il taglio cesareo, la cucitura
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