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parvero loro come specie di commedie o di tragedie, méno animate in vero, ma più poetiche di quelle di Terenzio e di Seneca, o fors' anche de' Greci. Nondimeno s'ingegnarono d' unire i due generi, di ravvivare per mezzo di un'azione il dolce vaneggiamento de pastori, e di conservare la vaghezza pastorale alle commozioni più violente della vita. L'Orfeo, sebbene diviso in cinque Atti, e mischiato di Cori, e terminato da una catastrofe tragica, ha vie più l'aria d' un' egloga, che d'un dramma. L'amore d'Aristeo per Euridice, la fuga e la morte di essa, che è compianta dalle Driadi, i lamenti d'Orfeo, la sua discesa all'Inferno e il suo supplizio per mano delle Baccanti, formano il subbietto de' cinque Atti, o piuttosto di cinque piccoli quadri leggiermente annodati fra loro. Ciascun Atto è composto di cinquanta in cento ver si; un breve dialogo espone gli avvenimenti sopraggiunti da un Atto all altro, e così porge occasione ad un' ode, ad un canto, ad un lamento, in somma ad un pezzó lirico, che pare sia stato il fine principale dell' autore e l'essenza della sua poesia. De' metri variati, la terza rima, l'ottava, ed anche le strofe più complicate delle canzoni, servono pel dialogo; ed i pezzi lirici sono quasi sempre seguíti da un ritornello. Non v'è cosa che meno si rassomigli, senza dubbio, alla nostra tragedia presente od a quella degli Antichi. Tuttavolta l'Orfeo

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del Poliziano fece una rivoluzione nella poesia ; il prestigio delle decorazioni unito a quello de' versi la musica che avvalorava la parola, la curiosita eccitata nel tempo stesso che venía soddisfatto lo spirito, tutti questi nuovi diletti insegnarono a desiderare il più sublime di quelli che può recar la poesia; e l'arte drammatica cominciò a rinascere. La scrupolosa imitazione dell'Antichità preparava ad un tratto per altra via il risorgimento del teatro. Dopo l'anno 1470, l'accademia de' letterati e poeti di Roma, per far meglio rivivere gli Antichi, pigliò. a rappresentare in latino alcune commedie di Plauto questo esempio e quello del Poliziano furono tostamente seguitati. Il gusto del teatro si rinnovò con tanto maggiore vivacità, quanto che riguarda❤ vasi come una parte essenziale dell'Antichità classica; ancor non si era pensato a sostenerlo colle retri buzioni degli spettatori; esso formava, come a Roma e nella Grecia, una parte delle feste pubbliche, e sovente delle feste religiose. I Sovrani che a quell' epoca riponevano tutta la loro gloria nel proteggere le lettere e le arti, si sforzavano di superarsi a vicenda, con erigere, in qualche solenne occasione, un teatro che dovea servire per sola una rappresentazione; i letterati e i grandi della Corte si disputavano le parti nell'opera drammatica da rappresentarsi, e che ora venía tradotta dal greco in latino, ed ora composta da qualche poeta

moderno ad imitazione degli antichi maestri. L' Italia andava fastosa allor quando in un solo anno aveva avuto due rappresentazioni teatrali, l'una a Ferrara od a Milano, l'altra a Roma od a Napoli. Tutti i Principi vicini vi ac o revano colla lor Corte, da parecchie giornate all' intorno; la magnifi, cenza dello spettacolo, la spesa enorme ch'esso cagionava, e la riconoscenza per un piacere gratuito, impedivano che il Pubblico si mostrasse severo ne' suoi giudizj. Le croniche di ciascuna città, conser vandoci la memoria di tali rappresentazioni, non parlano mai che dell' ammirazione universale. Onde i poeti nelle loro composizioni non aveano già per mira il Pubblico, ma l'Antichità; si travagliavano di copiarla con quella fedeltà, che poteano maggiore; e siccome l'imitazione di Seneca era non meno classica di quella di Sofocle, così parecchi de' primi esperimenti fatti da' poeti del secolo XV portarono l'impronta di tutti i difetti del Tragico latino: per lo più delle volte essi non erano che ampollose declamazioni, a cui nessun'azione dava moto e vita.

Verso il medesimo tempo, cominciò pure ad essere coltivato quel genere di poesia che doveva un dì stabilir la gloria dell' Ariosto. Luigi Pulci, fiorentino, il più giovane de' suoi tre fratelli, tutti poeti, compose e lesse alla tavola di Lorenzo de' Medici il suo Morgante maggiore; e Matteo Maria Bojardo, conte di Scandiano, scrisse il suo Orlando

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innamorato. Questi due lavori sono romanzi cavallereschi in vers, o piuttosto in stanze di otto versi ciascuna, e di quella medesima forma che è dappoi divenuta propria alla poesia epica italiana: nè l'uno nè l'altro però possono meritare il nome di poema epico. I romanzi di cavalleria, composti per la più parte in francese ne' secoli XII e XIII, si erano sparsi di buon'ora in Italia; e si vede in Dante ch'erano già molto letti a' suoi giorni. Nella loro origine andavano essi d'accordo colla vivacità de' sentimenti religiosi, coll' impeto delle passioni, col gusto delle avventure che animavano i Cristiani delle prime crociate: l'ignoranza universale favoriva l'immaginazione; la molitudine trovava più facilmente delle spiegazioni nel soprannaturale che nella natura, ed ammetteva il maraviglioso come un ordine di cose a cui le sue speranze e i suoi continui terrori l'aveano avvezzata. Alla fine del secolo XV, allorchè i poeti s' impadronirono di tutti questi vecchi romanzi di cavalleria per variarne un poco le avventure e metterle in versi, era diminuita d'assai la fede al maraviglioso, ed i guerrieri che ancor portavano il nome e l'armadura di cavalieri, erano ben lontani dal far ricordare la lealtà, la fedeltà in amore e in guerra, e per fino il valore degli antichi paladini. Laonde le avventure che si raccontavano dagli antichi romanzatori con una serietà imperturbabile, non potevano esser ripetute

dagl' Italiani senza che v' entrasse alquanto di motteggio; d'altra parte lo spirito del secolo non permetteva ancora di trattare in italiano un subbietto veramente serio Chi pretendeva alla gloria, doveva scrivere in latino: la scelta della lingua volgare indicava già che si volea scherzare; e questa lingua avea di fatto, insin da' tempi del Boccaccio, preso un carattere di semplicità mescolata di malizia, che le è rimasto, e che soprattutto colpisce gli animi nell' Ariosto.

Non fu però tutto a un tratto che i poeti romanzieri italiani arrivarono ad una giusta misura nella mescolanza del motteggio col racconto favoloso; Ligi Pulci (1431-1487) nel suo Morgante Maggiore, che fu il primo a comparire nel 1485, è a vicenda basso e burlesco, serio e triviale o religioso I principali personaggi del suo romanzo sono que' medesimi che per la prima volta si videro nella Cronaca pseudonima di Turpino, e ne' romanzi di Adenez, nel secolo XIII. Il suo vero eroe è Orlando ben più che Morgante. Egli mette in iscena il paladino di Carlomagno al momento che i rigiti di Gano da Maganza lo sforzano ad allontanarsi dalla Corte. Una delle prime avventure d'Orlando è di combattere tre giganti che assediavano un'abbadía; egli ne uccide due, e fa prigione il terzo; e questi è Morgante, il quale è da lui convertito e battezzato, e da quel punto diventa suo commilitone

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