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libri con cui non abbiamo famigliarità, e di tutti quelli che sono frutto di studi anteriori o del confronto degli originali fra essi. Era d'uopo una forza di mente inconcepibile per ritrovare, esempigrazia, in uno scritto di Cicerone, senza titolo nè principio, tutto ciò che indicava l'autore, il periodo dell' istoria in cui era stato composto, le circostanze che l'avevano determinato ; per correggere i numerosi errori də copisti; per riconoscere le lacune, che, presentandosi il più delle volte al principio ed alla fine, non lasciavano sussistere nè il titolo, nè le divisioni, nè la conchiusione, nè cosa alcuna di ciò che può servire di scorta a chi legge; finalmente, per riconoscere come un manoscritto ritrovato ad Eildeberga poteva supplire a quello che si scopriva a Napoli. Di fatto non era se non per mezzo di lunghi viaggi che allora i dotti s'istruivano; copiare un manoscritto col grado d'esattezza necessaria onde far potesse autorità, era sempre una cosa lunghissima e di molto costo; quindi una biblioteca di dugento o trecento volumi era. tenuta per numerosissi ma e conveniva andar melto lontano a cercare la continuazione di un libro che si avea cominciato a trascrivere vicino al proprio soggiorno.

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Il Petrarca ed il Boccaccio, ne' loro continui viaggi, copiarono e fecero copiare i Classici che venía lor fatto di trovare. Il primo si era proposto, fra l'altre cose, di raccogliere tutte le

opere

di

Cicerone, e non vi riuscì se non in capo a molti anni; il secondo insegnò agl' Italiani di come stu◄ diare il greco ad un fine veramente letterario, non già per interessi di commercio o per far delle tra→ duzioni scientifiche, ma per ornare il proprio intelletto e stendere le sue cognizioni sopra quell' altra melà dell'Antichità che infino allora era rimasta velata a' suoi compatriotti. Egli fece erigere in Firenze una cattedra per l'insegnamento della lingua greca; vi condusse, vi stabilì egli medesimo uno de' più dotti Greci di Costantinopoli, Leonzio Pilato; lo ricevette nella sua casa, tuttochè uomo stizzoso e sgarbato; lo nudrì alla sua tavola per tutto il tempo che piacque a questo professore di rimanere in Firenze; s'inscrisse pel prima fra' suoi scolari; e a proprie spese fece venir di Grecia tutti i manoscritti greci che si sparsero in Firenze, e che servirono alle lezioni di Leonzio Pilato giacchè l'insegnamento si faceva allora soprattutto per mezzo della lettura ad alta voce, con de' comenti; ed un libro, di cui non si possedea per lo più che sola una copia, doveva a un tempo medesimo servire a più migliaja di scolari.

Infinita è la distanza che passa da' tre grand'uo mini de' quali abbiamo trascorso le opere, a quelli pure fra' loro contemporanei che ancora oggidì conservano qualche riputazione; quindi appena ci fermeremo intorno ad essi, e sol quanto basta per far

nota la loro esistenza e l'epoca a cui pertengono. I più stimabili, secondo mio avviso, sono i tre Storici fiorentini che portano il nome di Villani: cioè Giovanni Villani, il maggiore, che si morì della prima peste nel 1348; Matteo, suo fratello, che soggiacque alla seconda nel 1361; e Filippo, figlio di Matteo, che continuò l'istoria di suo padre fino al 1364, e che scrisse poscia un' istoria letteraria fiorentina, prima impresa di sì fatto genere ne' tempi moderni. Ma in un' altr' opera (*) ho già renduto omaggio a questi tre uomini illustri che per più di un secolo furono le mie guide fedeli circa l'Istoria d'Italia, e che per il loro candore, la loro lealtà, la loro antica franchezza, il loro attaccamento alla virtù, alla libertà, a tutto ciò che ha di grande e di nobile sulla terra, m'aveano inspirato un' affezione personale; di modo che non li lasciai, per continuare senza di essi un viaggio difficile, se non se con quel dolore che si prova separandosi da' vecchi amici.

Due poeti divisero, in quel secolo, col Petrarca gli onori della laurea poetica; Zanobi da Strada che fu con gran pompa incoronato a Pisa nel 1355 da Carlo IV medesimo; e Coluccio Salutato, segretario della repubblica fiorentina, uno de' più puri latinisti, ed uno de' più eloquenti uomini di Stato che abbia

(*) Istoria delle Repub. ital., ec

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DELLA LETTERATURA ITALIANA

prodotto di que' tempi l'Italia. Ma i versi del non sono stati conservati; e l' altro non godet l'onore che gli era stato conceduto dall' Impe ad istanza de' Fiorentini: Coluccio sera

1406, in età di settantasei anni, avanti il stabilito per la cerimonia; e questa gloriosa fu collocata sopra la sua tomba, sì come tardi sopra quella del Tasso.

Fra i prosatori, quello che più s' accosta al caccio, è Franco Sacchetti, nato in Firenze l'anno 1335, e morto prima della fine del se dopo avere occupato le prime cariche nella su pubblica. Egli tolse ad imitarlo nelle sue Nov come aveva imitato il Petrarca nelle sue poesie che; ma queste ultime non sono stampate, che si hanno parecchie edizioni delle sue Nov Del resto, per quanto si lodi la purezza e l'eleg za del suo stile, egli mi riesce più curioso in qu to al ritratto de' costumi del suo tempo, che se cente per le sue facezie allorchè si tiene per l' mo più faceto del mondo. Nelle sue dugento c quantotto Novelle egli rapporta quasi sempre av nimenti de' suoi giorni e succeduti intorno á lui; questi si riducono ad aneddoti domestici, a picc accidenti di famiglia, i quali, generalmente, mi se brano assai poco dilettevoli; a certe furberie c non hanno punto di destrezza, a certi scherzi ch non hanno niente di fino: e spesso reca meravigl

il vedere un celiatore di professione darsi per vinto da un motto arguto che gli ha detto un fanciullo od un zotico, e che nessuno di noi ammirerebbe più che tanto. Lette che si hanno queste Novelle, non si può non conchiudere che l'arte della conversazione non avea fatto nel secolo XIV progressi così rapidi, come l'altre belle arti, e che que' grandi uomini, a cui siam debitori di tante opere eccellenti, assai meno valevano nel discorrere familiare che persone da non si poter loro mettere a confronto.

Due poeti di qualche merito pigliarono Dante per modello, e al pari di esso composero in terza rima delle lunghe allegorie, metà descrittive, e metà scientifiche. Fazio degli Uberti, nel Dittamondo ? prese a descrivere l'universo, le cui differenti parti personificate raccontano, ciascuna alla sua volta, la loro istoria; e Federigo Frezzi, vescovo di Foligno, che mori nel 1416 al Concilio di Costanza, descrisse nel suo Quatriregio i quattro regni d' Amore, di Satana, de' Vizj e delle Virtù. Ambedue questi poeti ebbero sovente de' versi felici, e che non sono indegni di Dante; ma quale idea si faceano mai essi delle opere del genio, allorchè si diedero a credere che la Divina Commedia fosse non già un'invenzione unica, ma un genere da potervisi esercitare chicchessia?

Lo studio appassionato dell'Antichità, di che i

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