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tino o gli furono contemporanei. Se mi è permesso citare me stesso, nel mio corso universitario del 1904-05 (Lez. XVIII) dissi: «Abbiamo già veduto che l'imitazione della poesia provenzale nella nostra antica lirica cortigiana o siciliana giunge qualche volta alla parafrasi, e qualche volta proprio alla traduzione. Ma piú frequente è un altro metodo di composizione, anzi diciamo addirittura di compilazione, in quanto non si può affermare che l'autore di una poesia in volgare italiano abbia avuto innanzi proprio quella determinata poesia provenzale. Qualche volta il rimatore prende la mossa, la prima strofe, o solo i primi versi, e poi prosegue per altra via, raramente però mettendo del proprio, ma prendendo da altre poesie provenzali. Ne viene una specie di mosaico di pensieri, d'immagini, di frasi dedotti da questa o quella poesia provenzale ». E, per dare un esempio, indicai ad uno ad uno i concetti della canz. Amor da cui move in cinque canzoni provenzali; poi conchiusi: «Il rimatore ha attaccato ad un filo assai tenue le sue reminiscenze poetiche, quasi alla rinfusa, via via che gli si affacciavano alla memoria. Gli si affollavano, si potrebbe dire, perché esse attestano la lettura di almeno cinque canzoni di quattro autori diversi ». Or, si badi, << filo assai tenue » è per lo piú quello stesso, che tiene insieme le strofe delle canzoni d'amore provenzali; anzi, un procedimento logico anche la poesia ha la sua logica -il rampollare spontaneo e diretto delle idee e delle imagini secondarie da un pensiero centrale; la connessione intima, organica delle varie parti di una poesia tra loro, non si riscontrano sempre nemmeno ne' serventesi morali e politici. Fra Guittone, se si vuole, mette in versi de' sermoni; ma la sua canzone o il suo sonetto ha vero organesimo, salda struttura, forte compagine: ecco la novità, ecco l'originalità sua rispetto ai Siciliani e ai Provenzali. Tutto intento alla ricerca de' riscontri particolari, il P. non ha badato che Guittone adopera il concetto o la frase provenzale come il muratore adopera calcina e pietra; pure, il non aver trovato una sola poesia di Guittone possiamo lasciar da banda il quasidirettamente tradotta o imitata da una provenzale, l'avrebbe potuto mettere su l'avviso. Non poeta, ma « sottile ragionatore in versi» ripete egli col De Sanctis; ma dove sono i poeti, tra la turba de' rimatori italiani, prima del Guinizelli? E dove sono i ragionatori sottili e ingegnosi» al pari di Guittone, prima di Dante?

I riscontri di concetti, imagini e locuzioni enumerati dal P. sono una settantina, non poche volte presentati in forma dubitativa

forse, probabilmente ; ma mettiamo pure sieno cento,

centocinquanta, duecento, e tutti indubitabili, tutti certi.1 Che cosa sono in centodiciotto sonetti e in ventiquattro canzoni, alcune delle quali lunghissime?

Il P. s'è fermato alla buccia; io mi permetto di mostrare meglio, con qualche prova piú evidente, che, sotto il frasario provenzaleggiante, il contenuto è nuovo o rinnovato. Prendiamo il secondo gruppo di sonetti. Secondo il P., «il Nostro vi ha voluto evidentemente svolgere un noto concetto quello della lealtà in amore facendo sé stesso protagonista di sentimenti forse non mai provati, in una storia noiosa e prolissa, tutta infarcita d'imitazioni provenzeli ». Non sono che undici sonetti, e non si tratta d'una storia, ma dell'esposizione, dell' analisi di un fenomeno psicologico singolare. Ho finto di amare dice Guittone tanto e cosí bene, che ho acquistato l'amore della mia donna; ma io non la ricambio come e quanto dovrei; non amo lei quanto e come ella mi ama, se non pervengo ad amarla « sí ben, ch'eo degno sia» di prendere da lei ciò, che ella non mi nega. Che devo fare, Amore? Che devo fare, maestro Bandino? Un tal caso di coscienza non si trova, che io sappia, presso i Provenzali; nè questa scrupolosa delicatezza di sentire, sia pure fittizia. Prendiamo il terzo gruppo, della gioia, nel quale due

4 Devo, però, cancellare risolutamente dal numero quello della p. 103. Un'altra conosciuta immagine provenzale è dato rintracciare in alcuni versi del Nostro, i quali nell'edizione del Pellegrini suonano:

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Per il verso 6, il Pellegrini ha seguito la lezione del cod. L. R. IX. Noi riteniamo nel caso presente. piú attendibile quella del cod. V. 3793, accolta dal Valeriani:

Come quel ch'è dal tigro avvelenato

da cui risulta più chiara l'allusione a certe meravigliose qualità della tigre, che, secondo la leggenda medievale, aveva l'alito d'impareggiabiie profumo, ma velenoso, e se re giovava per attirare e uccidere gli animali,. Non la tigre, bensi la pantera aveva la bocca aulitosa. La lezione esatta è tiro, nome non d'un quadrupede, ma d'un rettile. Cfr. il Bestiario umbro moralizzato, 64, e fra Giordano da Rivalto, Pred, ined. XII: "Tutte le cose le quali Iddio ha fatte, che tengono veleno, a tutte ha fatto la propria medicina allato ovvero in essa. Dicesi d'un serpente, si chiama tiro, e uno dei più feroci che sia. Vedi meraviglia, che di questo serpente si fa la fina otriaca, e là ove non ha di questo non vale nulla; di questo tiro si fa la migliore otriaca che sia, la quale è valevole a tutti i veleni; nou solamente a quello di tiro, ma a tutti è ottima Ho mutato l'interpunzione de'vv. 8-9, e credo che il contesto porti doniate invece di donate. Il senso è: E che sia ora mostrato amore verso di me, in voi; che tanta dolcezza mi diate, la quale ammorti ecc.

volte interviene la donna a scambiar sonetti con l'amante. Di questo contrasto » il P., « per quanto abbia cercato attentamente », non è riuscito a rintracciare una fonte sicura ». Non basta: de' due dialoghi, il primo occupa dodici, il secondo due sonetti in una serie di quarantanove, che - questi sí tutti insieme svolgono una storia compiuta, dalle prime attestazioni di amore alla dichiarazione e alla domanda di un appuntamento; dal rifiuto sdegnoso della donna, alla concessione, ottenuta per mezzo di lamenti, di querele, di rimproveri, seguíta dall'espressione della gioia e della gratitudine. Non si tratta d'una tenzone, ma di una specie di monologo, interrotto, ne' due punti piú interessanti, dal dialogo. Non ne conosco modelli provenzali, né pare che il P. ne conosca.

E prendiamo la canzone Gente noiosa, uno di que' canti di lontananza, che il P. giudica frutto d'imitazione, quasi che Guittone non si fosse mai partito dalla città nativa. Se andò lontano, non fu naturale che i versi mandati da lontano alla sua donna rispecchiassero la sua condizione di assente, che si duole della separazione, che brama il ritorno? Osservo, in primo luogo, che questa canzone è una pagina autobiografica, cosa affatto nuova nella lirica italiana, e segna il passaggio dalla maniera de' Siciliani, che non ci dicono mai niente dell'esser loro e de' loro casi, a una forma più personale. L'autore espone le ragioni, che l'hanno spinto ad uscire da Arezzo, ed aggiunge che gli rincresce soltanto d'aver dovuto lasciare la sua donna. Io non credo che, in mezzo a tante allusioni a fatti reali, questa donna possa essere una finzione; e che non sia, me lo provano le parole di lei, che egli ripete, e la raccomandazione, che egli le fa nel commiato. Scene di separazione di amanti - il P. l'avrebbe potuto ricordare — non mancano nelle liriche de' Provenzali e de' loro imitatori italiani, da B. di Ventadorn ad Alfonso II di Aragona, da G. Faiditz a Federico II, da Folchetto di Romans a Giacomino Pugliese, a chiunque sia l'autore della canz. La dolce cera piacente; ma nessuna donna, nella stretta dell'angoscia, s'era lasciato sfuggire di bocca:

ch'eo verrò forsennata,

tanto son ben mertata,

s'eo non fior guardat' aggio

desnore, nè dannaggio,

a metter me del tutto in tuo piacere.

Amore folle », amore colpevole confessato; dunque, amore reale (cfr. canz. Gentil mia donna). E il P. sostiene che non questa di

Guittone, ma le donne di Giacomino Pugliese e del Notar Giacomo << vissero realmente!» La raccomandazione del commiato non è ispirata dall'ossequio convenzionale e tradizionale del fedele alla dama, tutt'altro:

Va, mia canzone, ad Arezzo in Toscana,

a lei ch'aucide e sana

lo meo core sovente,

e di' ch'ora parvente

serà como val ben nostra amistate:

chè castel ben fornito

e non guaire assalito

no è tener pregiato;

ma quello, ch'è aseggiato,

e à de ciò, che vol, gran necestate.

Rude, e sinanche scortese franchezza; ma sincera, sentita, non derivata dalla poesia e dalle maniere delle corti.

Di un'altra canzone di lontananza (Lassa pensando), composta in altro tempo e diretta, forse, ad altra donna, il P. crede « che anche il concetto generale sia tolto da un canto occitanico di quel Perdigon, le cui poesie l'Aretino mostrò spesso di conoscere ampiamente ». Infatti « anche il celebre figlio del povero pescatore d'Esperon s'era accusato, in un suo canto di partenza, della follia commessa allontanandosi dalla donna amata, egli che possedeva in lei ogni felicità, per recarsi in paesi stranieri ». Vediamo se sia esatto. È vero, Perdigon si accusò di follia, perchè partendo perdé gioia ed acquistò affanno, ma giusta pena alla sua follia gli pareva l'affanno; temeva di perder l'amore della

1 Nella st. VI si legge:

E non mi fa soffrire

talento d'acquistare

a lei tosto tornare ov'a ben vegna;

ma perché 'n parte soe

u' po', com'en deserto,

prender de fallo om merto;

e qua staroe

en mal, mentre seroe del mendo certo.

L'egregio Pellegrini spiegò: "E le mie sofferenze non procedono dalla smania di tornar subito a lei (acquistarmi il ritorno a lei) e quindi al bene perduto; ma dall'essere in tal parte selvaggia (cfr. v. 8) dove si può espiare il fallo come in un deserto ecc Il P. rifiuta per buone ragioni la spiegazione del Pellegrini, e spieg, alla sua volta, cosí: La smania di guadagno (talento d'acquistare) non mi permette (non mi fa soffrire) di tornare subito a lei, al bene perduto: ma perché mi trovo in un luogo dove si può espiare come in un deserto ecc.,. Non farebbe un bell' elogio di sé stesso Guittone, se questo fosse il senso. Io intendo: Non è talento di acquistare, che mi fa astenere (mi trattiene) dal tornare tosto a lei, ma ecc.

donna, ma, per conto suo, si proponeva di esserle sempre fedele; pietosa gli sarebbe parsa la morte in terra straniera, che avrebbe posto termine al suo dolore. Tutte belle parole, ma egli non dette un passo per ritornare; piangeva, si lamentava, sospirava, e questo era tutto. Guittone soffriva tanto che, se fosse stato lecito, si sarebbe ucciso con le proprie mani; giusta pena alla sua follia gli sarebbe parsa la morte, ma lo teneva in vita la speranza, che lo consolava, gli vietava di temere, gl'ispirava fede nel perdono della sua donna pietosa: e se non tornò subito a lei, fu perché volle punire sé stesso del fallo, sino a quando non fosse stato certo di averne fatta debita ammenda. Guittone stesso, nel commiato, riassume il « concetto generale » della sua canzone, molto diverso, come risulta dal confronto, da quello di Perdigon:

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Di fronte a 25 versi, tolti dalle prime quattro stanze di Guittone, il P. mette 15 di Perdigon. Non si può negare, tanto negli uni quanto negli altri, si legge gioia, follia, morte, terra, peccato; e se Perdigon piange e si duole, Guittone è preso da non poco dolore; ma non si creda che queste parole sieno tutte usate con lo stesso senso e allo stesso modo. Gioia, in Perdigon, è sentimento; gioiosa gioia, in Guittone, è il senhal della donna. Perdigon esclama: << Ailas! quals pechatz me rete!» (qui, in terra straniera); Guittone invece: « Ai! che peccato è, per fede mia, Venir om che vil sia in alto stato!», che è cosa molto diversa. I versi di Guittone

E ch'entra croia gente
ed en selvaggia terra
mi trovo,

paiono parafrasi dell' en terra estraigna di Perdigon; ma proprio da essi e da un passo somigliantissimo d'un sonetto, il P. ha

1

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