Slike stranica
PDF
ePub

del medesimo tempo (pp. 318-331). Ci rimasero allo stato di abbozzi, e ci dimostrano anzi tutto che, anche nel comporre in prosa, il nostro autore teneva, certe volte almeno, il modo stesso che sapevamo da lui seguito nel comporre in poesia; la rapida successione delle idee, nel momento dell'ispirazione, egli gettava sulla carta, per poi tornarci su a tempo opportuno ed elaborare artisticamente la materia con pazienza infinita. Ma poiché gli abbozzi sono abbastanza larghi, ci permettono anche di scorgervi chiaramente l'idea fondamentale, che è quella medesima delle Nuove canzoni, la miseria ed ignavia presente posta a contrasto con la serenità e l'operosità della vita antica. Onde, se rimasero nel loro stato di primo getto, ciò fu probabilmente per quel rapido e radicale mutamento d'idee filosofiche sulle sorti dell'umanità, che si operò nella mente del Leopardi sul declinare di questo periodo della sua vita; cosicché, quando dalle scomposte tracce egli avrebbe potuto trarre l'opera d'arte, non ne approvava piú il principio informativo.

Nel 1824, alla concezione storica del dolore, che si riflette nelle scritture precedenti, s'era già nella mente del Leopardi sostituita quella concezione cosmica, come la disse con felice parola lo Zumbini, che apparisce timidamente nei primi scritti da allora in poi composti, e si fa nei successivi ognor piú aperta e disperata. Per le opere a stampa, sapevamo già ch'egli, dal 1824 al 1828, si diede interamente alla prosa (l'epistola in versi Al conte Carlo Pepoli è la sola eccezione); e questo ci viene confermato nel volume degli scritti inediti, di cui neppur uno rivela il tentativo o il proposito di una composizione poetica durante questi anni, tranne qualche traduzioncella dal greco, posta fra il 1823 e 1824. Delle prose, una sola è compiuta, il Discorso sullo stato presente dei costumi degli Italiani, del 1824, ed è del tutto nuova per noi (pp. 332-376). Essa non ha invero molta importanza per le cose che vi sono esposte: che mai ne poteva sapere il solitario scrittore, vissuto fino allora sempre in Recanati, tranne il breve soggiorno a Roma, della vita italiana e di quella delle altre nazioni, con cui la confronta, se non quel poco che aveva potuto apprendere dai libri e quel pochissimo che aveva osservato nella sua cittaduzza e co' suoi occhi malati? Ma ci dimostra quale giudizio egli facesse, fino da allora, de' suoi connazionali contemporanei, e, per questo rispetto, prelude alla Palinodia e alla Ginestra, in cui sono derise tanto sarcasticamente le loro aspirazioni. Il quadro è, infatti, tinto del piú nero pessimismo: l'autore si studia di mostrare che « l'Italia è, in ordine alla mo<rale, piú sprovveduta di fondamenti che forse alcun'altra nazione

« europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere << ed ora conferma ogni dí piú co'suoi progressi la civiltà mede<< sima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà e dei < lumi ha distrutti. Sí per l'una parte è inferiore alle nazioni piú <colte o certo piú istruite, piú sociali, piú attive e piú vive di << lei, per l'altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, << come dire alla Russia, alla Polonia, al Portogallo, alla Spagna ecc.. Delle altre prose, non hanno grande importanza i volgarizzamenti (pp. 377-384), il proemio e il principio della Storia di un'anima (pp. 385-386), un frammento intorno al suicidio (pp. 387-389); ma sono degni della massima considerazione gli Abbozzi e appunti per opere da comporre (pp. 390-402), i quali ci danno un'idea della varietà dei temi e dei generi che voleva trattare e della moltiplicità dei propositi che andava formando questo scrittore, fecondissimo nell' ideare nuove opere, parco e lento nel comporle, sia per le condizioni della sua salute sia per quell'amore del perfetto, che portava in qualunque cosa si accingesse a fare.

Anche all'ultimo gruppo delle poesie approvate, che dal 1828, come si sa, vanno con brevi intervalli in serie continuata fino all'ultimo giorno della vita del Leopardi, si riportano piú cose di questo volume: il fac-simile del manoscritto del canto A Silvia, che apparisce una copia corretta e offre notevoli varianti rispetto alla lezione definitiva, e il fac-simile dell' ultima strofa del canto Il tramonto della luna, della quale i primi dodici versi furono scritti di mano del poeta e gli altri quattro di pugno del Ranieri, nel giorno stesso in cui quegli spirò. S'aggiungano due nuovi frammenti, Il canto di una fanciulla (p. 112) e Angelica (p. 113), e l'abbozzo col suo fac-simile del disperatissimo inno Ad Arimane (pp. 114-115), già fatto conoscere interamente dal Carducci,

E veniamo alla terza sezione, lasciando da parte i tre indici che la precedono (importante è specialmente il primo, che contiene i titoli di molti componimenti fanciulleschi, dal 1809 al 1812, e giova per lo studio della puerizia del poeta) e i documenti per la nomina del Leopardi a Deputato di Recanati nell'Assemblea nazionale di Bologna, già pubblicati dal Carducci.3 Essa abbraccia le lettere, tre del Leopardi, le altre a lui indirizzate. Fra queste tengono il primo posto le quattro di Vincenzo Gioberti (2 aprile 1830-27 dicembre 1833), su cui richiamò già

1 Pag. 361.

2 Nel cit. Degli spiriti e delle forme ecc., Opere, XVI, pp. 349-350.

3 Giacomo Leopardi deputato in Opere, X, p. 393 e sgg.

l'attenzione il D'Ancona: 1 esse rivelano quanto fervido ammiratore del nostro poeta fosse lo scrittore torinese, nonostante la diversità delle idee e dei principj; ed è sopra tutte notevole la prima, con cui il Gioberti gli annunzia di avere abbandonate le sue precedenti dottrine per il cattolicismo, e di avervi trovato finalmente quella pace che l'animo suo da tanto tempo aveva cercato invano. Qui ricorderemo, inoltre, quella della contessa Teresa Carniani Malvezzi (26 maggio 1830), che rimprovera al Leopardi di essersi fermato alcuni giorni a Bologna senza visitare la sua famiglia; le due di Monaldo (19 e 21 marzo 1831), che annunzia al figlio la nomina di Deputato, e lo consiglia di non accettarla, << perchè trovarsi a Bologna con carattere pubblico al momento « di una, ancorché passeggera invasione [degli Austriaci], potrebbe << esser di gran pericolo, e cosí potrebbe essere difficile e periglioso < partirne nell'ora della confusione »; e quella con cui Pietro Colletta gli manda l'ultimo dodicesimo dell'assegno fiorentino, dolendosi che le strettezze economiche non gli permettano di togliere in avvenire al povero poeta « le sollecitudini moleste del << vivere materiale » (1 aprile 1831). Sette lettere di Pietro Giordani (1831 e 1832) accrescono la corrispondenza già nota dei due amici in un periodo di tempo nel quale essa scarseggia, e mostrano come anche in quegli anni la loro amicizia conservasse, nel Giordani almeno, l'antico calore. Fra le dodici del Vieusseux (1831 e 1832) vi è quella che recò al Leopardi, allora a Roma, la notizia della sua nomina a socio dell' Accademia della Crusca. Le quattro di Carlo Antici (1833-1835) mostrano questo zio del poeta sempre sollecito delle sue difficoltà economiche, e tre di esse si riferiscono a un impegno pecuniario contratto dal nipote, di cui v'è cenno anche nell' Epistolario. L'unica lettera di Gino Capponi (21 novembre 1835) è quella con cui il marchese ringrazia il poeta di avergli intitolata la Palinodia, ed esprime giudizi non molto discordi dalle idee del Leopardi intorno alle speranze ed ai lumi del secolo; onde si comprende meglio perché a lui sia stato dedicato il canto. Le trentatré delle famiglie Tommasini e Maestri (1830-1837) sono tutte piene di affetto e di riverenza insieme per il poeta, e fra le altre meritano di essere notate specialmente quelle scrittegli con sollecitudine squisita e delicatissima insistenza per invitarlo a stabilirsi qualche tempo a Parma in casa loro, dopo ch' egli si era lasciato sfuggire che

1 Cfr. l'articolo Il volume delle ultime reliquie leopardiane nel « Giornale d' Italia», 9 gen

naio 1907.

2 Vol. III, 16.

prevedeva di dover tornare a Recanati quando fossero sfumati i pochi danari di cui disponeva a Firenze; altre dimostrano come que' suoi buoni amici, desiderosi di venirgli in soccorso, si dessero le mani attorno per procacciargli associati all'edizione fiorentina dei Canti: una di Adelaide Maestri (13 marzo 1834) gli annunzia la carcerazione del Giordani, e un'altra della stessa (24 luglio 1834) la sua liberazione. Le quattro, infine, di David Passigli (1836-1837) contengono trattative col Leopardi per la ristampa del suo commento al Petrarca in una raccolta dei quattro poeti italiani.

Ma le cose piú interessanti di questa sezione sono le tre lettere del Leopardi stesso, non tanto la seconda, scritta da Roma al Giordani, nel 26 aprile 1823, sulle mosse di partire alla volta di Recanati, nella quale gli parla delle sue speranze e dello stato della sua salute e del suo spirito, quanto la prima e la terza indirizzate alla madre. Nell' Epistolario non vi sono che due lettere del figlio alla madre, una scrittale il 23 novembre 1822,1 la prima volta che uscí di casa, appena giunto a Roma collo zio Carlo e in un foglio in cui anche questi aggiunse un poscritto; l'altra inviatale da Firenze il 17 novembre 1832,2 per suggerimento di suo padre, pregandola di concedergli un assegnamento mensile di 12 francesconi, coi quali avrebbe meschinamente procurato di tirare avanti. L'occasione in cui fu scritta la prima e la ragione per cui fu scritta l'altra non consentivano una grande sincerità. A quella, Adelaide non rispose; già quando egli era partito di casa, gli aveva fatto intendere che non desiderava ricever lettere da lui; ma il figlio, otto mesi dopo, cioè il 22 gennaio 1823, chissà se in un momento di esasperazione e se spontaneamente o per suggerimento de' suoi parenti ospiti, le mandò la prima delle tre ora pubblicate, la quale contiene uno sfogo che dovette fare qualche impressione sul cuore stesso della gelida madre. Ci sono certe frasi che mettono i brividi: « Io mi ri<cordo ch' Ella quasi mi proibí di scriverle, ma intanto non vorrei < che pian piano, Ella si scordasse di me. Per questo timore rompo << la sua proibizione..... mi faccia dar le sue nuove, ma in par<< ticolare, perché le ho avute sempre in genere.... Ma soprat<< tutto la prego a volermi bene, com'è obbligata in coscienza, tanto < piú ch'alla fine io sono un buon ragazzo, e le voglio quel bene << ch' Ella sa o dovrebbe sapere.... Le bacio la mano, il che non << potrei fare a Recanati ». E dico che dovette far qualche impres

1 Vol. I, 359.

Vol. II, 505.

sione sul cuore della madre, perch' ella si risolse, questa volta, a rispondergli, senza rimbeccarlo e con lo sforzo evidente di apparire anche affettuosa, la breve lettera del 26 dello stesso mese, che fu già pubblicata dal Piergili, e che ora possiamo comprendere assai meglio, specialmente in certi punti, come quello << Addio, figlio d'oro », che ripete la frase stessa con cui il poeta s'era sottoscritto nella propria « Suo figlio d'oro ». Diversa intonazione ha l'altra lettera inedita, ch'egli le scrisse da Firenze un mese dopo l'ultima sua partenza da casa, il 28 maggio 1830, in risposta ad una ricevuta dai suoi, del 18 dello stesso mese, nella quale, come si può arguire, gli si era fatto rimprovero di esagerare i suoi mali. In essa colpisce sopratutto questo passo: « Pare impossibile che si accusi d'immaginaria una cosí terribile incapacità d'ogni minima applicazione d'occhi e di mente, una cosí completa infelicità di vita, come la mia. Spero che la morte, che sempre invoco, fra gli altri infiniti beni che ne aspetto, mi farà ancor questo, di convincer gli altri della verità delle mie pene». Con tali parole era costretto a scrivere il Leopardi a sua madre, quando ordinariamente ogni figlio lontano si studia invece di nascondere o di attenuare i suoi mali alla propria famiglia! Conoscevamo già il ritratto che il poeta fece nel 1820 di una madre, con la manifesta intenzione di descriver la sua; 2 nessun documento ce l'aveva messo a tu per tu con lei come ce lo mettono queste due lettere, degnissime di nota.

ma

Ricca dunque e varia e per molte ragioni interessante è la materia di questo volume, che corona felicemente la pubblicazione delle carte napoletane. Dopo che lo Zibaldone ci ha fatto conoscere intimamente l'erudito e il pensatore, esso giunge opportunissimo a farci osservare piú da vicino il poeta e l'artista. Né la figura del Leopardi, per questa rivelazione de' suoi piú reconditi pensieri e dei piú gelosi mezzi artistici, perde nulla della sua grandezza. Tutt'altro! si può dire anzi che, diventataci piú familiare e meglio conosciuta nelle sue intrinseche virtú, siasi resa anche piú ammirabile agli occhi nostri.

Ferrara, febbraio 1907.

GIOVANNI TAMBARA.

1 Nelle Lettere scritte a G. L. dai suoi parenti, Firenze, Succ. Le Monnier, 1878, p, 82. Nel I vol. dei Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze, Le Monnier, 1898, p. 411.

« PrethodnaNastavi »