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la nota 4 a pag. 27, dove, a proposito della comunissima e vieta idea barettiana dell'arte utile e della commedia morale, si avverte che questa idea risale alla seconda metà del sec. XVI, e si cita l'Anfiparnaso di Orazio Vecchi! Com'è naturale, in tanta moltitudine di cose, qualche inesattezza di sostanza e di forma è sfuggita all'autore: vedi, p. es., la nota 3 a pag. 29; la nota 6 a pag. 48; la nota 2 a pag. 86; la nota 3 a pag. 303. Non c'è autore citato dal Baretti (e il Baretti ne cita tanti!) di cui l'A. non narri brevemente in nota la vita, citando gli studj relativi. Naturalmente non son poche le lacune; per dirne una, su C. M. Maggi si cita a pag. 268 il saggio del De Marchi, e non il recente lavoro del Cipollini; su Cesare Beccaria, a p. 437, si cita solo l'Ugoni, e non il Cantú, non il Villari, non il poco noto ma utilissimo studio di Amato Amati, Vita ed opere di C. Beccaria, Milano, Vallardi, 1872. L'autore della Frusta redarguita, l'avv. Giuseppe Antonio Costantini, « del quale si hanno scarsissime notizie » (pag. 339), è anche autore di una certa Verità del diluvio universale vendicata dai dubbj e dimostrata nelle sue testimonianze e di una certa Difesa della comune sentenza intorno alla generazione dei fulmini e di non poche altre pappolate, tra le quali sono ancora notissime ai cultori della storia del costume e della cultura nel sec. XVIII le Lettere Critiche Giocose, Morali, Scientifiche, ed Erudite alla moda, ed al gusto del secolo presente, Venezia, Pasinelli e Bassaglia, 1751-56, tomi 8 (cito l'edizione da me posseduta).

L'intento del Piccioni era questo: non solo spiegare le parole, le peculiarità dello stile barettiano, dar notizie dello scrittore e di quanti sono da lui giudicati, trattare delle sue opinioni, dei suoi odj e de' suoi amori, ma anche ricollegare l'opera sua a quella de' suoi contemporanei, ricostruire, prendendo le mosse da accenni a fatti e a persone di quel tempo, l'ambiente del Settecento italiano, mettere in relazione insomma l'anima dello scrittore con l'anima del suo secolo. Intento non nuovo, ma sempre lodevole.

A questo metodo d'illustrazione il B. si presta, dice il Piccioni,« piú forse che ogni altro scrittore della sua età» (p. X). Ma egli dimentica il Gozzi, il Goldoni, specialmente il Parini, che sono quanto il Baretti, e piú, uomini rappresentativi della loro età.

Il Piccioni ha, com'è naturale, molto affetto pel suo autore, che vorrebbe accolto degnamente nelle nostre scuole medie superiori, e letto e commentato con profitto dai nostri giovani, i quali, secondo lui, potrebbero acquistare conoscenza de' maggiori

scrittori de' passati secoli nei manuali e nelle antologie, e dovrebbero invece far lettura e commento di quelli scrittori che, pur appartenendo al passato della nostra storia letteraria, hanno ancora, e per le idee e per la forma con cui le espressero, tanti punti di contatto con le idee e con la forma che sono dei nostri giorni » (p. VIII). Uno di questi, a suo giudizio, è il Baretti, << il coraggioso banditore di verità e di teoriche innovatrici che il tempo fece trionfare », « lo scrittore che giovò tra i primi al rinnovamento della nostra prosa» (p. XVI).

Ora, seguire nella scelta degli scrittori da leggere nelle scuole il criterio della modernità del contenuto, mi pare alquanto fallace. Commuovere il sentimento, ricreare la fantasia, formare e affinare il gusto, fortificare la mente: questi i fini della lettura. Al raggiungimento de' quali occorre la conoscenza dei nostri massimi scrittori: Dante, il Petrarca, il Boccaccio; il Machiavelli, l'Ariosto, il Tasso; il Goldoni, il Parini, l'Alfieri; il Foscolo, il Leopardi, il Manzoni. In questi dodici gloriosi nomi, in queste triadi letterarie, si riassume la storia delle nostre lettere; questi sono gli scrittori che debbon essere studiati nelle nostre scuole; questi i padri nostri; questi infine i poeti italiani le cui opere appartengono alla storia del pensiero umano e dell'arte universale.

Ma è proprio il Baretti uno scrittore moderno? un banditore d'idee innovatrici? Non pare. Dei due meriti che il Piccioni dà al Baretti, il secondo è innegabile. Primo l'Ugoni disse che il suo stile disinvolto « inizia la prosa moderna ». Ma, quanto alle idee, il Baretti fu un reazionario bello e buono, e non intese il suo tempo. Ebbe il merito di adoperarsi alla diffusione delle letterature straniere, massime della inglese e della francese; ma combatté fieramente ogni novità francese (si rammenti la sua avversione al Caffè); fu conservatore in politica, in filosofia, in religione, perfino in letteratura. Non intese il suo tempo, che fu di generale rinnovamento; e nel quinto dei discorsi contro il Bonafede lo chiamò secolo tenebroso. Con che ironia parla del secolo della libertà! « Ognuno può e deve in oggi farsi una lingua a suo capriccio, al modo che tanti e tanti si fanno una politica, una morale, anzi pure una religione a loro dosso » (p. 412 di questo volume).

Sé stesso chiama filosofo: ma chi riuscirebbe a esporre con qualche ordine le sue idee filosofiche? E le sue idee sociali? Lo si loda di aver propugnato l'istruzione della donna; ma chi non sa che questo interessamento per la cultura femminile è uno dei luoghi comuni della galanteria del secolo XVIII? Avversò la

nobiltà inerte e corrotta, ma parlò con troppo dispregio della plebe per poter essere giudicato uno scrittore di spiriti democratici. Ma infine, mi si dirà, il Baretti è soprattutto un critico letterario; e tu devi giudicare il critico letterario. Non confondo l'estetica e la teoria della critica letteraria con la critica in atto; ma ni pare che il critico debba movere da un concetto costante dell'arte e della letteratura, da un complesso, se non proprio da un sistema, d'idee critiche. Ora faceva cosí il Baretti? Neppure per sogno. Ecco un saggio delle sue idee critiche. « Quella de' ducati guadagnati dagli stampatori è la prova piú grande, del gran merito d'un autore che aver si possa » (p. 35).1 Egli augura all'Italia due poeti che possano rivaleggiare con Cornelio e Molière: « ma lo scarso numero de' Mecenati, che incoraggiano gl'Italiani, forse è la principale, anzi l'unica (!) cagione che non si vedono ancora questi tali poeti che io desidero; ché, se i Mecenati si trovassero, la nazione italiana diventerebbe presto presto superiore, non che alla francese, a tutte le altre nazioni e nelle scienze ed in ogni bell'arte, non che nel teatro, come lo fu ne' felici antichi tempi de' Romani, e ne' piú felici moderni ancora di Leon Decimo d'immortalissima memoria » (p. 43). E quando uno di questi poeti venne, lo bistrattò. Il nimico delle accademie e della retorica non comprese la gloria di C. Goldoni, pittore e figlio della natura. Egli era un geniale dilettante, un orecchiante della poesia: suo idolo, il Metastasio; amava la poesia rimata, facile semplice naturale, soprattutto morale; portava nella letteratura il suo puritanismo di Lovanglia. Gli mancava il senso storico, epperò male giudicò gli antichi, e non comprese l'utilità degli studj archeologici. Piú che un critico, fu un arguto e mordace pamphlétaire, uno Sbarbaro piú equilibrato e piú agile scrittore, un polemista insuperabile, un terribile sgominatore dei paladini del calamajo, un giustiziere inesorabile dei versiscioltaj, dei raccoltaj, degli eruditi senza spina dorsale, degli arcadi impotenti. Non gli mancò il coraggio: non scrisse davvero secondo le regole della odierna prudenza, cioè secondo le regole della moderna vigliaccheria » (Frusta, n.°

1 Questa, del resto, che il B. significa in due righe, è diventata l'idea madre d'un re cente libro d'un francese, che con la statistica de' libraj si fa iniziatore (nientemeno!) d'una nuova critica scientifica (G. Rageot, Le succès Auteurs et public Essai de critique scientifique, Paris, Alcan, 1906).

XVII); e poté dare a sé la superba lode: «Io sono Aristarco Scannabue, e voglio adoperare il mio giudizio, e voglio col mio giudizio giudicare anche il giudizio degli altri, e giudicarlo severamente, senza curarmi un fico dell'autorità di chicchessia, quando non si tratterà d'altro che di cose letterarie» (Frusta, n.° VII). Ma le sue vittorie furono facili: si chiamò Scannabue. Scannar buoi è più agevole che tarpare il volo alle aquile. In fondo. egli prese di mira i piccoli; quando toccò i grandi, pescò granchi solenni. Il Goldoni e il Parini informino.

Può sembrare che il libro del Piccioni mi sia pretesto per una tirata contro uno scrittore che ammiro e amo, memore che proprio con l'assidua lettura della Frusta si manifestò la prima volta il mio amore agli studj letterarj. Ma amare il Baretti non significa voler fare di lui ciò ch'egli non sognò mai di essere. Egli stesso, in una delle lettere (pubblicate dal Morandi) che diresse a C. Zampieri, si ritrasse con grande sincerità, cosí: <....un amator miracoloso degli amici, anzi un uomo collerico, che per poco va in bestia e mette mano alla spada; un uomo che parla diversi dialetti d'Italia assai piacevolmente; che canta canzoni italiane e ariette in musica, con accento francese; che alcuna volta farebbe ridere i sassi; piacevole e pieghevolissimo con le dame, senza complimenti e cerimonie con gli uomini; di poche lettere, ma sa quel che cinguetta; disprezzator dei tristi e degl'ignoranti, quantunque siano grandi, e tanto mordace e satirico con quelli, quanto sincero e cordiale e generoso e largo quanto può con quei che tristi e ignoranti non sono ».

Per le ragioni esposte, non so se questo volume sarà accolto letto e commentato, come l'A. desidera, nelle scuole medie superiori, dove tra gli scrittori del Settecento è giusto preferire il Gozzi il Parini il Goldoni l'Alfieri. Ma, con tutto ciò, ripeto, il libro è degnissimo di lode, e renderà utili servizj alla cultura italiana.

GIULIO NATALI.

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ODDONE ZENATTI. - Il poemetto di Pietro de' Natali sulla pace di Venezia tra Alessandro III e Federico Barbarossa. Estratto dal Bull. dell'Istituto Stor. Italiano n. 26. Roma, Forzani e C., 1905, 8. pag. 98.

Pietro de' Natali, oltre che per il poemetto volgare ora finalmente venuto in luce e per il Catalogus Sanctorum, ebbe fama per il fatto che egli, vescovo di Jesolo e suffraganeo del patriarca di Grado, già sulla cinquantina, nel 1382 si fece rinchiudere in un cofano per poter entrare di nascosto in un monastero di monache: accusato dal patriarca al papa di questo suo eccesso amoroso, andò a Roma per iscolparsi, pigliando l'offensiva contro il suo accusatore. Donnaiuolo, violator di luoghi sacri e calunniatore, dunque, questo dotto vescovo veneziano: cui forse, crede lo Zenatti, procurarono favore presso la sua città e il papa il Catalogo dei Santi e, assai piú, la composizione del poemetto << dedicato a un parente del doge Contarini ed esaltante ad un tempo la repubblica di Venezia ed il papa ».

Quest'operetta fu nota allo Zeno, che la lesse in un codice del secolo XV appartenuto a Bernardo Trevisan, mancante dei due primi capitoli, migrato poi in Inghilterra, dove solo poco dopo la pubblicazione dello Zenatti fu rinvenuto dal dott. C. Foligno nella biblioteca del sig. Fairfax Murray. Ma la redazione del codice Trevisan, parafrasi, come informa il prof. Monticolo che se ne occuperà quanto prima, del noto poema latino di Castellano bassanese, è del tutto diversa da quella, mancante della fine, contenuta nel codice Casanatense 276, già di Giusto Fontanini, ora riprodotta in questa edizione.

Dopo lo Zeno e il Trevisan nessuno piú s'era curato di questo poemetto del de'Natali: ai tempi nostri gli studiosi della storia e della poesia di Venezia, dopo il suo ritrovamento nella biblioteca romana, vi fermarono la loro attenzione; specialmente per il fatto, che è il più antico poema storico veneziano scritto in volgare a noi noto. Di questo fin dal 1898 l'Istituto storico italiano aveva annunziato la pubblicazione, che fu ritardata di tanto, perché l'editore, O. Zenatti, il quale si era proposto di ricercare e studiare la formazione e lo svolgimento della leggenda della battaglia di Salvore e la fortuna di essa nella poesia volgare e

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