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a guerreggiar con riottosi draghi;

o come generoso

lion, spoppato appena, che divaghi
dal sen di fulva madre; al prato erboso
la cavriuola intenta

il mira, e già ne le tremanti viscere
fitto il dente novel le par che senta:
de l'Alpi rezie a pié tal vider Druso
portar mortifer' armi

i Vindelici immani....,;

e Sirio Caperle:

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Quale l'augello guardian del fulmine,

che il re de' Numi su i vaghi aligeri

re fece premiando il fedele
rapitor di Ganimede biondo,

gioventú e forza paterna cacciano
prima dal nido di rischi inconscio,
poi, scioltisi i nembi temuti,
primavera con l'aure a più audaci

voli trasporta, già vivid'impeto
in guerra contro gli ovili suscita,
ed ecco su i draghi pugnaci
brama incalza di pasto e di lotta;

o qual camozza, se a' lieti pascoli
un lioncello fisi da l'ubero
de la fulvia madre svezzato
vede sé da 'l novo dente morta;

tal di là d'Alpe Reti e Vindelici
condur la guerra Druso mirarono

Basterebbe quest'esempio per mostrare la diversità di mezzi dei due traduttori, la diversità dei loro gusti ed intenti; ma non faccia a noi troppa maraviglia questa notevole distanza: solo pensiamo che fra l'età del poeta di Siracusa e questa, nostra, del Caperle, corrono molti e molti anni, e che fra le loro generazioni sorse, regnò e diede leggi Giosue Carducci. La raccolta di liriche del Venosino è una collana mirabile di splendide gemme: facile quindi e ricca sarebbe la messe delle utili citazioni; ma noi pensiamo che sia davvero superflua una lunga serie

di raffronti, che, senza nulla togliere al Gargallo, valentuomo che appartiene ormai alla storia, cospirerebbero al medesimo fine. Non rechiamo dunque vasi a Samo, ma poniamo fine a questa breve notizia riferendo una delle più belle strofe del carme secolare, che tanti atleti (compreso il Giorgini) ha stimolati sett'anni or sono, quando si volle salutare l'aurora del secolo nostro. Quanta freschezza e quanto vigor di poesia, in tanta carità di patria!

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Con buona pace di Fr. Pastonchi (nel Corr. della Sera del 15 gennaio 1907), che incontentabile e qui può aver ragione. ed irrequieto cerca il pelo nell'uovo e sottilizza per il desiderio utopistico di una perfezione inconseguibile, noi non troviamo assai brutta com' egli dice questa strofa per le ragioni che adduce: il P. condanna il primo verso per quelle tre sillabe sol che col; ma santo cielo!..... Il P. sa bene come si devono leggere i versi e quindi come sia tanto diverso l'accento che posa sul monosillabo sol da quello che posa su col. Ora, leggendo con dirittura ritmica, quale cacofonia egli può affermare in questo luogo? E se anche di tali minutissime mende (se pur sono mende) noi sorprendessimo sparso il volumetto del C., chi vorrebbe fargliene grave colpa? Quanti difetti, cosí giudicando, non si possono sorprendere anche nei libri più belli e pregevoli, anche nelle opere ormai consacrate alla gloria?

Ma vorrà di ciò persuadersi il severo critico? No di certo: ma intanto neppur lui saprebbe conseguire quell'eccellenza, a cui mostra tendere lo sguardo e le mani.

CESARE CIMEgotto.

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P. MOLMENTI.

La Storia di Venezia nella vita privata, dalle origini alla caduta della Repubblica. Parte II: Lo Splendore (Bergamo, Ist. ital. d'arti Grafiche, 1906. Un vol. di pagg. 656 in 4°.)

I maggiori artisti veneziani del secolo XVI quando vollero allegoricamente rendere immagine della loro città natale, la rappresentarono quasi sempre in figura di donna, dalle forme opulenti, munita di scettro, in veste di broccato e ermellino, il capo adorno di corona gemmata. Né si può dire che vana alterigia ispirasse la simbolica figurazione. Mentre infatti l'Italia era corsa, spogliata e quasi dilaniata dalle armi straniere, Venezia sola godeva ancora una florida indipendenza e appariva in tutto degna degli inni encomiastici che una legione di poeti, dai più umili ai più celebrati, innalzavano in sua lode.

È vero che i germi della corruzione e del decadimento andavano manifestandosi in modo sempre più inquietante: le statistiche apprendono che le industrie e i traffici lentamente declinavano, i costumi mutavano in peggio, la popolazione decresceva, le calamità e le dolorose conseguenze delle guerre si facevan sentire più che per l'innanzi, gravose. Pur tuttavia ai visitatori che d'ogni parte annualmente affluivano alle lagune Venezia sempre appariva, per usare l'espressione di Bernardo Tasso, "l'ornamento e lo splendore della italiana dignità

Qual fosse l'aspetto esteriore che aveva la città a questo tempo lo vediamo nella pianta di Venezia attribuita al De Barbari e in quella di Andrea Vavassore e di Benedetto Bordone. Le vie interne si andavano arricchendo di nuove bellezze monumentali, la piazza S. Marco, in qualche parte ingombra di alberi e bruttata da botteguccie, veniva ripulita e sgombrata, si riattavano cadenti edifici e altri magnifici, quali la Libreria e la Zecca, se ne costruivano di sana pianta. Rialto era anche allora il centro della vita popolana, il ritrovo delle genti d'affari, l'emporio di ogni traffico. Intorno al gran ponte di legno s'inalzava il Fondaco dei Tedeschi, che Tiziano e Giorgione avevano adorno colla magia de' colori, il palazzo dei Camerlenghi, le Fabbriche Vecchie e quelle Nuove del Sansovino.

Talora all'alba, dalla finestra della sua casa di contro all'Erberia, messer Pietro Aretino, si compiaceva a mirare lungo le Fondamenta il brulichio della gente affaccendata e le barche ricolme di erbaggi e di frutti, mentre in lontananza nel porto e sulla laguna galleggiavano le sparvierate galere co' loro immensi fanali.

Ben altra fisionomia assumeva la città nei giorni di festa, quando si trattava di ricevere principi o ambasciatori delle più grandi nazioni, celebrare ricorrenze religiose, commemorare glorie nazionali o solennizzare nozze di illustri personaggi. I dipinti dell'epoca e le numerose stampe conservate ed egregiamente riprodotte in questo secondo volume del Molmenti, servono a darci un'idea del lusso e della magnificenza di tali cerimonie. Basti qui ricordare qual tripudio tenesse dietro alla notizia della vittoria di Lepanto, quando si videro i portici di Rialto adorni di panni multicolori e trofei di spoglie turchesche, in mezzo ai quali si ammiravano dipinti di Giambellino, di Giorgione, di Tiziano e del Pordenone.

Sarebbe impossibile accennare qui, anche brevemente, a tutti quegli artefici, i quali nacquero quando Venezia toccava il culmine della gloria esteriore e impressero alla loro età un'orma non cancellabile. Chi abbia lette le lettere dell' Aretino può dire di averli quasi tutti conosciuti nell' intimità della vita; a chi poi non sia digiuno di nozioni d'arte i loro nomi rievocano una folla di capolavori a dovizia sparsi in Venezia stessa con rara liberalità, o conservati nei musei d'Italia e d'oltralpe. Inutile dire come Tiziano Vecellio, a dir del Vasari, "il più bello e maggiore imitatore della natura,, domini questa gloriosa schiera di artisti e impersoni, per cosi dire, l'arte di tutto il secolo. Accanto poi ai maggiori abbiamo tutta una fioritura di artefici minori, intagliatori, fabbri, falegnami ed orafi che per la strada modesta dell'industria riescono a raggiungere le maggiori cime. E qui, nota giustamente il Molmenti, come tutte le arti fossero unite da una naturale solidarietà rivelando nella unità della impronta quell'istinto di bellezza vivo e comune a tutti.

Furono queste varie manifestazioni dell'arte che favorirono il capriccio signorile e raffinarono il gusto. Lo vediamo anche nel taglio e nella distribuzione delle case, male adatte alla intimità della famiglia, ma destinate ai banchetti, ai balli e ai ricevimenti. Le linee severe dell'architettura si ingentiliscono, ogni durezza si smorza in questa progressiva trasformazione del gusto verso le grazie del Rinascimento.

Né minore era lo sfarzo nell' incessante avvicendarsi delle fogge maschili e femminili, anzi, forse in nessuna regione, la instabilità della moda apparve più manifesta. Solo a scorrere gli "Habiti,, del Franco, il " Ballarino, del Caroso, o le "Gratie d'Amore„ del Negri si prova un senso di vivo stupore dinanzi alla dovizia delle confezioni e alla ricchezza e varietà delle acconciature.

Ma ecco, come sempre succede, insieme alla civiltà, raffinata, il decadimento e la corruzione del costume che getta un' ombra sini

stra sulle arti fiorenti e le feste liete di Venezia; ecco a pavoneggiarsi nella piazza e nella piazzetta quei profumati e melliflui zerbini, simili a "Daini di Soría,, che troveranno il tipo compiuto nel secolo delle incipriature e delle maschere.

Non meno notevole di ciò che si riferisce alla storia dell'arte e del costume, è ciò che in questo volume s' attiene alla storia della cultura.

Già in quella l'autore ha opportunamente innestato notizie che importano anche allo studioso delle lettere. Ad es., parlando del Carpaccio, il Molmenti tocca della rimatrice quattrocentista Girolama Corsi Ramos e dello Strazzola; a proposito di Giorgione, accenna alla nota leggenda che ha dato argomento a molte poesie e a un dramma di Pietro Cossa; studiando "l'arte nella vita degli artisti,, parla delle veglie della famosa cortigiana poetessa Veronica Franco e dell'amicizia di Sebastiano del Piombo e dell'architetto Michele Sammicheli coll' Aretino; trattando dell'alchimia e della magia, ricorda la Chrisopeia dell' Augurelli e riporta tratti di poesie popolari.

Ma vi sono capitoli del volume nei quali si parla di proposito della poesia e della satira a Venezia, delle scuole di Venezia stessa e dello Studio di Padova, della stampa, delle biblioteche, delle accademie, delle rappresentazioni sceniche. Anzi, a tutto il "movimento scientifico,, della sua città ne' secoli del Rinascimento il Molmenti rivolge la sua attenzione, e tratta anche del Sanudo, del Ramusio, del Paruta, del Sarpi, degli storiografi ufficiali della Repubblica Veneta. Veramente, là dove egli dà conto "di tutta una fioritura, più o meno eletta, di studiosi nati in Venezia che incoraggiarono col consiglio, con l'opera, con la munifica protezione le arti e le lettere,, (pp. 253 sgg), l'enumerazione è un po' scarna e disordinata, né vi è tenuto conto di lavori recenti (ad es., di quelli del Ferracina su Cornelio Castaldi, del Vitaliani su Antonio Brocardo, della Greggio sul Molin, ecc.); e là dove l'A. accenna al fatto che i veri poeti di Venezia furono i suoi pittori (pp. 257-8), non sarebbe stato inopportuno accennare alle tante e tante poesie a cui Venezia dette argomento ne' secoli XV e XVI, e su cui ha scritto recentemente il Medin un ampio lavoro, che in quest'opera del Molmenti appare troppo scarsamente utilizzato.

Ma queste ed alcune altre ommissioni non tolgono valore alla parte letteraria del volume di cui parliamo, ove sono anche notizie nuove, desunte da codici della Marciana e da stampe rare. Importante è quello che il Molmenti ha raccolto, in principio del cap. IX, sull'insegnamento a Venezia e sui principj pedagogici adottati

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