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dell'universo, che pur nella sua artificiosa costruzione, nella sua vasta armonia farebbe pensare a un'intima finalità. Qui insomma non c'è affermazione di verità obbiettiva; sibbene manifestazione della situazione personale del L.: situazione che sarà perfettamente espressa quando il L. ci dirà tutta la risonanza che questo suo ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il dubbio sulla validità di tale concetto ha nell'anima sua; quando da questo suo perpetuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà ispirato al Canto notturno di un pastore errante per l'Asia (1829-30), che il Gatti reca a confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno il L. dice con la pienezza della commossa fantasia quello che nelle note fugaci del diario era malamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.

E quando miro in ciel arder le stelle,
Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so.

Qui veramente c'è l'anima del L., tormentata dal dubbio che non ci sia un fine nel mondo; e che non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe nell'anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l'infinità dell'aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande commozione, com'è noto, per il L.), e l'immensità della solitudine attorno alla propria persona non dimenticata (ed io che sono?) né dimenticabile, perché palpitante; ecc. Qui c'è, non piú il germe d'una filosofia, ma l'uomo Leopardi, intero, con l'ansia e il terrore che gli desta lo spettacolo dell'infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si sente dentro smarrito. C'è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico:

semplice dubbio (« qualche bene o contento avrà fors' altri... Forse s'avess'io l'ale... piú felice sarei, o forse erra dal vero il mio pensiero. Forse in qual forma... è funesto a chi nasce il dì natale); ma come elemento o momento di questa poesia grandiosa.

La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una grave indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi, e che non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio delle sue intenzioni e del valore da lui attribuito a questo diario. Ognuno che scriva e stampi, stampa soltanto quello che gli par compiuto secondo il fine a cui si mira, consapevolmente o inconsapevolmente, quando si scrive. Un poeta non stampa le tracce e gli abbozzi delle sue poesie. Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, egli ha un certo pudore geloso di mostrarli al pubblico: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua personale; laddove quello che ei crede arte, gli par bene che appartenga o possa appartenere a tutti gli spiriti. Certo, l'interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d'intendere le opere del genio, mediante la conoscenza quanto piú larga sia possibile dell'anima del genio, bastano a giustificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degli epistolarj intimi, che svelano, senza riguardi, i piú gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce col credere che appartengano al pubblico piú che a se stesse. Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisorj del filosofo sono antecedenti spesso superati e rifiutati dalla sua filosofia. E ad ogni modo non si dovrà mai pretendere d'attribuir loro altro valore che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresentano la conclusione definitiva del poeta e del filosofo.

Tutto questo, si potrebbe osservare, è un bel discorso; ma troppo generale ed astratto. Bisogna vedere ai fatti, se il Leopardi, dopo gli studj del dott. Gatti, ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme poeta e filosofo: richiedendosi alla poesia un'attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi costantemente mirabilissimo esempio dell'energia, onde è capace lo spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel sentimento d'un' anima singolarmente potente il sistema piú intellettualisticamente universale ed astratto che la storia della filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre

perfetta d'un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che sono pure astratti concetti: unità che non si finisce e forse non si finirà mai di studiare nella Divina Commedia.1 E preferisco perciò una risposta particolare e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale io l'ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo aver letto attentamente il saggio del Gatti. Libro, che non è certo inutile, perché molti schiarimenti particolari a concetti del L. da uno studio cosí attento e minuzioso dei Pensieri si hanno; e molti istruttivi raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente istituiti tra pensieri del L. e luoghi di Helvetius, di Rousseau, di Maupertuis e degli altri autori del Poeta: ma insufficiente a dimostrarci la tesi che il Gatti s'era proposta, che nella mente del L. si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato che ci dà dei Pensieri leopardiani con l'intento di cavarne un sistema. Il sistema non c'è. C'è la travagliosa meditazione sui pochi fantasmi del Poeta; ci sono le accorate riflessioni, che gli suggerirono quei problemi che furono il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non piú di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de' suoi canti e nel sorriso amarissimo delle prose.

Il materialismo della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l'eudemonismo pessimistico della sua etica sono nei pensieri inediti come in tutti gli altri scritti già noti i motivi costanti del breve filosofare leopardiano: ma sono spunti filosofici, anzi che principj -d'un pensiero sistematico; sono credenze d'uno spirito addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell'osservazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedeva le cose Giacomo Leopardi.

In lui non trovi neanche una critica della ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni assai contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e principj di deduzioni pessimistiche. Passione vera per la speculazione il L. non ebbe mai. Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e studioso dei classici, non si sforzò mai d'intendere il pen

1 Alla quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza grandiosissima, altro che il Faust: dove l'unità dell'opera, come arte e come filosofia, rimase lungi dall'esser raggiunta.

siero di Platone e di Aristotile. La sua storia della filosofia antica è tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio Evo non studiò nulla. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conobbe neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva nel sec. XVIII. Di Leibnitz sorrise come Voltaire, non sospettando menomamente la profondità del suo pensiero. Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l'avevano allora tutti i letterati; ebbe qualche velleità di filosofo; ma la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è l'indole poetica, persuasi che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre.

Non posso entrare nei particolari della esposizione del Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica edificatrice, che egli, con lo Zumbini, giustamente mette in rilievo di contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha niente. che vedere coll'odierna filosofia prammatistica, a cui egli studiosamente la raccosta, per dimostrare cosí la modernità del pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la natura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale, che, appunto perciò, non contraddice allo scetticismo fondamentale. Il Leopardi ricorre all'immaginazione e a un certo qual senso dell'animo, che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è punto sviluppato. Certo esso non giova nulla a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore del James e degli altri prammatisti d'oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono nell'attività pratica un surrogato dell'attività teoretica: ma unificano le due attività, e immedesimano la verità con l'utile, in modo che quel che giova credere, sia esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere, secondo L., sarebbe né piú né meno che un'illusione. La differenza tra L. e James è la differenza profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente dommatica e positiva.

GIOVANNI GENTILE.

COMUNICAZIONI.

L'ABATE CASTI E UN'EDIZIONE CLANDESTINA
DEL POEMA TARTARO,.

La lettera di G. B. Casti, dalla quale si attinge la notizia dell'edizione clandestina che voleva farsi in Livorno del suo Poema tartaro, è tutta di pugno del poeta nella filza di Lettere Civili, Gennaio-Maggio 1790, conservata nell' Archivio Livornese da me diretto; e segue a quella indirizzata dal marchese Lorenzo Corsini all' Auditore del Buon Governo in Livorno. È notevole il giudizio che l'A. stesso ci da del suo Poema tartaro che, ora dimenticato, levò in quegli anni un certo rumore; e che intorno ai propositi ed alle imprese di Caterina II, soprannominata Turacchina dal Casti, giudica in modo che ha trovato conferma, in gran parte, nei resultati ai quali, relativamente al regno di quella rinomata imperatrice, giunsero coi loro dotti studj il Brücker e il Walencki, a temperar l'entusiasmo adulatorio onde ne parlarono il Grimm, il Diderot, il Voltaire (Cfr. ERNESTO MASI, Il Romanzo d'una Imperatrice, in Nuova Antologia, 15 Ottobre 1893, p. 594-99).

L'allegro Abate di Montefiascone non vuol solamente che si divieti l'edizione clandestina del Poema, ma procura nella stessa lettera d'impegnar il Governo toscano a vigilare perché non se ne faccia una, ugualmente furtiva, delle famose Novelle. Quanto si legge ci conferma che parecchie di queste, e forse tra le piú obbrobriose per le offese al buon costume, non siano di lui, che tuttavia non può andare immune dal biasimo che è dovuto a chi fa malo uso della sua penna: biasimo che trovò forse troppo forte espressione nei versi dell'intemerato Parini, il quale lo disse

Prete brutto vecchio e puzzolente,
Ma che per bizzarria dell'accidente
Dal nome del casato è detto Casto.

Certi accenni a cose contemporanee saranno chiaramente intesi da tutti, e perciò non abbiamo creduto opportuno di apporvi alcuna nota. Ma è tempo di metter sotto gli occhi del lettore i nostri documenti.

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