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di parlare (pag. CXLI)». È vero che nella stampa della tragedia di queste parole è rimasto soltanto un cenno, forse perché il Poeta già si era seco stesso obbligato di rimanere meglio fedele al vero storico; pur tuttavia un'eco vi ha lasciato nella Canzone: Il proclama di Rimini.

Cosa ottima perciò far seguire alla stesura definitiva i varj abbozzi, onde il Poeta maturò via via il proprio pensiero, limò l'opera propria e la licenziò finalmente in pubblico; ottima e sotto il rispetto critico, storico e ben anche didattico. Gli alunni, dietro la scorta del loro insegnante, possono fare in proposito studj proficui; basterebbe, ad es. considerare, in atto il limae labor, che è tanto piú assiduo, sottile e perfetto, quanto piú colui che l'usa ha fior d'ingegno.

Ma a piè di pagina di questi due volumi manzoniani sono, abbiam detto, segnate ancora le varianti tratto tratto delle edizioni precedenti, perché certo metteva conto di rifare per le opere poetiche quel lavoro che già altri ha compiuto pel romanzo ». E lo Scherillo ha ragione; se non che le correzioni ai Promessi Sposi sono ben diversa cosa da esse varianti, anche se ripetono e le une e le altre la loro ragion d'essere dalla << conversione fiorentinesca dello scrittore; com'è diverso il linguaggio della prosa da quello della poesia, né il Manzoni, con la sua dottrina sulla lingua, « mirava - osserva il D' Ovidio alla poesia ». Però tali varianti riguardano piú che altro l'ortografia, eppure anche qui giova davvero considerare gli sforzi che « lo zelante apostolo della fiorentinità della lingua » fa per iscrostare la páttina arcaica, o magari lavare la muffa dell'ortografia stantia», talché in apposita Prefazionc s'indugia lo Scherillo a trattarne.

Insomma, questa edizione minore, per le scuole, dell'opera poetica del gran Lombardo » si raccomanda, a noi pure, da sé, non men che quella leopardiana, perché senza inciampi e senza peso di commenti o che altro, non fa perdere, direbbe il D'Ovidio, « la vista dell'insieme » del nostro Autore, ma ne mostra anzi con chiarezza ed efficacia lodevoli la fisonomia letteraria: i suoi studj profondi, i nobili intenti, l'alta poesia.

G. F. GOBBI.

COMUNICAZIONI.

UNA ANTICA CANZONE POPOLARE.

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sa di

Nella Rivista Modern Philology (vol. IV, n. 2, october 1906) si legge un articolo di Mr. Philip S. Allen sopra la canzonetta popolare italiana che comincia con le parole: "O morte dispietata tu m'hai fatto gran torto, e che si trova pubblicata nella Poesia popolare italiana (Livorno, 1906, 2.* ediz. pag. 96) del nostro A. D'Ancona. Bene osserva il D'Ancona che in quella canzonetta sembrano "accozzati e mal saldati insieme piú frammenti di diverse canzoni,. Quell'avverbio male che precede saldati non gerire Mr. Ph. S. Allen, perché gli pare anzi che il popolo riunendo quei tre frammenti abbia dato prova d'un istinto poetico squisito e sia riuscito a comporre una assai leggiadra poesia. I pregj di questa sarebbero sfuggiti al nostro illustre critico, mentre ben saltarono agli occhi del poeta Wilhelm Müller, che la prese a modello pel suo canto intitolato "Altitalienisches Volkslied. Che la fonte dalla quale attinse il Müller sia la nostra canzonetta, nessuno vorrà revocare in dubbio, però Mr. Ph. S. Allen può essere lieto d'aver scoperto il plagio del poeta tedesco. D'altro non sapremmo lodarlo, perché il suo articolo non ci sembra troppo concludente.

E primamente non si sa perché l' A. intitoli “ A Venetian Folk-Song, una canzone di pretto stampo fiorentino e che per nessun verso può dirsi veneziana. In fine della canzone si legge;

Dove il sotterreremo?

'N Santa Maria del Fiore.

Non vogliamo far torto all'A. sospettando che egli ignori in quale città si trovi il tempio di S. Maria del Fiore! Ben è vero che nella prima nota a pag. 275 l'autore cita il Widter-Wolf (Volkslieder aus Venetien; 1864, n. 139), e noi abbiamo consultato la raccolta senza però trovare la nostra canzonetta. Cí siamo quindi persuasi che la citazione è errata.

Finalmente le lodi tributate dall'A. al Müller come traduttore fedele non sono giustificabili, perché appunto il Müller quando ha trovato nel testo italiano grossolana la saldatura ed evidente lo sforzo d'unire l'un pensiero con l'altro, ha girato intorno alla difficoltà cambiando il costrutto grammaticale e l'idea.

1 V. pag. 275-278.

2 V. pag. 95.

Il testo dice:

La mi tenne la staffa
Ed io montai in arcione.

Il Müller traduce:

Sie hielt mir meinen Bügel,
Wollt'ich zu Rosse steigen.

(La mi tenea la staffa s'io volea montare in arcione).

Apparentemente il poeta tedesco ha alterato poco, ma in realtà quel suo piccolo ritocco cambia tutto l'andamento della canzone, riuscendo a nascondere la saldatura che avvertí appunto il D'Ancona e che avverte chiunque abbia orecchio assuefatto alla lingua e alla poesia italiana.

Ben diverso è il senso di

O morte dispietata

Tu m' hai fatto gran torto

da quello di

O Tod, du mitleidloser

Was tat ich dir zu Leide?

(0 morte dispietata che male t'ho fatto io?);

né si può chiamar fedele il Müller quando fa dire all'amante di Caterina di non aver veduto una donna pari a lei né di notte, né di giorno, né al rosso chiaror dell'aurora (Bei Nacht und auch bei Tage, Beim roten Morgenscheine, Noch nie hab' ich ein Mädchen Gesehn von solchem Preise Wie meine Katharina, Sie, alle meine Freude), mentre nel testo italiano quello che l'amante dice é che Caterina era lo suo conforto

La notte con lo die,

Fino all'alba del giorno.

Concludendo, al D'Ancona non è mancato il criterio estetico e il Müller non ha nulla da insegnargli se pure è giunto a rabberciare e a trasformare in una discreta poesia tedesca una mediocrissima e difettosa canzonetta popolare italiana. Della nostra poesia siamo noi sempre i migliori giudici e gli stranieri che pretendono farla da maestri ai nostri maestri potrebbero cercare di procacciarsi una conoscenza più sicura delle cose nostre, prima di giudicarle e di sputar sentenze suggerite soltanto dalla poca dimestichezza che hanno con la materia.

CARLO FORMICHI.

ANNUNZI BIBLIOGRAFICI.

PÉTRARQUE. Le traité De sui ipsius et multorum ignorantia, publié d'après le manuscrit autographe de la Bibliothèque Vaticane par L. M. Capelli, Paris, libr. Champion éditeur, 1906 (8.o, pp. 120).

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Nel 1904, il compianto Angelo Solerti, nel bello ed utile volume autobiografico, pubblicato come modesto omaggio spirituale alla memoria di Francesco Petrarca nella ricorrenza del sesto centenario dalla nascita portunamente accoglieva anche il trattatello Della sua e dell'altrui ignoranza per lui tradotto con garbo dal prof. L. M. Capelli. Fin d'allora il traduttore annunziava (p. 261) che il testo latino sarebbe stato pubblicato di sull'autografo vaticano 3359 nella Bibliothèque littéraire de la Renaissance. Oggi siamo lieti di additare questo volumetto, che dedicato al Solerti, degnamente forma il sesto tomo della pregevole raccolta, che si viene arricchendo per le cure di Pierre De Nolhac e di Léon Dorez.

Nella introduzione il C. riassume con diligenza le principali notizie intorno al codice Vaticano, la cui autografia e la cui storia furono poste in luce meridiana dal De Nolhac, e intorno alla composizione e al valore del trattatello petrarchesco. Per ciò che riguarda la cronologia e l'occasione di esso gli avrebbe giovato un accenno notevole di Vittorio Rossi, che nel succoso saggio Il Petrarca a Pavia (Pavia, 1904, pp. 35-6 n.) aveva osservato che la prima redazione dello scritto andava assegnata per gran parte al 1367; e a chiarir meglio l'importanza che questa scrittura dal Petrarca ha nella storia del pensiero filosofico italiano, si possono leggere ora le pagine che le consacra il Gentile nel suo volume vallardiano su La Filosofia (pp. 167-76). Ma appunto, considerando bene le condizioni nelle quali sorse quel trattatello, potrà sembrare non del tutto esatta l'espressione usata dal C., là dove (p. 5) scrive che il Petrarca, offeso dal ridicolo giudizio dei quattro giovani veneziani, abbandonò la loro città ospitale centre d'averroistes irreligieux, per ritirarsi a Padova.

Infatti, a farlo apposta, Padova era sin d'allora un centro ben più importante di averroismo, che non fosse Venezia; cosicché il Petrarca sarebbe caduto dalla padella nella brace!

1 L'autobiografia, il a Secreto », e « Dell' ignoranza sua e d'altrui» di messer Francesco Petrarca col & Fioretto» de' Rimedi dell'una e dell'altra fortuna a cura di ANGELO SOLERTI, F1renze, Sansoni editore, MCMIV. Il prof. Cap. aveva già avuto occasione di occuparsi della produzione latina del Petrarca, pubblicando in unione col prof. R. Bessone una Antologia latina tratta dalle opere latine di Fr. Petrarca, Torino, Paravia, 1906, sulla cui utilità pratica per la Scuola dovrei ripetere le riserve fatte già da altri.

Mi permetta poi il C. di osservargli che poteva risparmiarsi una durezza immeritata verso un Maestro, al quale tanto devono gli studj italiani; dire, com' egli fa (p. 9), che Adolfo Bartoli fu" toujours risqué dans ses jugements,, è pronunciarne un giudizio, piú che arrischiato, ingiusto.

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Il testo, che l'Edit. assicura d'avere riprodotto, anche nelle particolarità grafiche, attenendosi scrupolosamente alle norme del Novati e del Sensi, dovrebbe esser tale da soddisfare almeno nel suo complesso, anche perchè mi consta che esso fu ripetutamente collazionato su l'autografo per l'opera cortese di valenti studiosi. Bene ha fatto il C. a preporgli la lettera dedicatoria all'Albanzani, di sul cod. VI, D. 16 dell' Estense, della quale aveva data la versione del volume piú sopra menzionato.

Accurato e non inutile riesce anche il saggio finale di note, inteso ad illustrare il trattatello petrarchesco, additando fonti e riscontri di singoli passi. Un saggio, dico; ché anche al C. sarebbe riuscito agevole il moltiplicarle. In ogni modo, non avrei tralasciato, fra i riscontri, uno calzantissimo, al "te nunc plexis anime genibus supplex oro, (p. 28) col noto verso della canzone alla Vergine. dove pure il Poeta ritrae se stesso: con le ginocchia della mente inchine V. CI.

Venezia, Ist. Ve

LIONELLO VENTURI. Le Origini della Pittura Veneziana. neto di Arti Grafiche, 1904. (Un vol. in 4.o di pp. 423).

Dal giorno in cui Cavalcaselle e Crowe dettero alla luce la loro monumentale Storia della Pittura in Italia con serietà di intenti, non era ancora stato tentato uno studio complessivo su l'arte che fiorí e si irradiò dal territorio delle lagune. Ma intanto le congetture geniali del Berenson e le ricerche fortunate del Molmenti, del Paoletti e del Ludwig, per tacere di altri, avevano accumulato un nuovo importante materiale che attendeva di essere con profitto coordinato e discusso.

All'ampio lavoro, tale da recar sgomento per la vastità sua, si è accinto con giovanile entusiasmo Lionello Venturi, il quale ci offre adesso il frutto delle sue ricerche. Il metodo da lui seguito è quale si conveniva alla dignità del soggetto. Alieno da ogni retorica, da ogni vacua artificiosità, il ragionamento fila serrato dalla prima all'ultima pagina, sorretto da dottrina non comune, da fino criterio estetico. L'a., e ciò è degno di nota, in reiterati viaggi in Italia e Oltralpe ha esaminate pressoché tutte le opere d'arte delle quali parla, e ci comunica le sue fresche impressioni, spesso originali, senza lasciarsi suggestionare da opinioni espresse da altri.

Importa poi notare come il Venturi si sia attenuto strettamente al suo tema, rinunziando con giusto criterio a rimpinzare il quadro con tinte com plementari prese a prestito dalla storia della letteratura e del costume. Con

1 Le non molte mende che vi rilevò P. Meyer nella Romania, XXXV, fasc. 140, p. 163, e qualche altra men grave potranno facilmente sparire in una ristampa, che auguriamo non lontanaa.

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