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Altra cosa sono peró i fatti fonetici, o che possono credersi tali. L'amanuense ha scritto avessir, avagli per uguagli, occeano, ecc.: noi non abbiamo il diritto di mutarvi nulla, poichè non volle mutarvi nulla il Petrarca. Solo in un'edizione critica potrà venire innanzi il problema, se avessir e simili sieno proprio da considerarsi come forme volute o almeno accettate anche dal Petrarca, benchè non le correggesse. E così dovrà affacciarsi la questione sull'uso delle doppie. Nondimeno, anche in una riproduzione come quella del Salvo, non sarebbe inutile avvertire il lettore che certi fatti sembrano avere certe determinate spiegazioni. Per esempio, anida, atrista, rinova ecc., con la scempia, par proprio si debbano alla tendenza fra ortografica ed etimologica a non raddoppiare dopo un prefisso. Ma non lasciamoci tentare dal desiderio di parlare della lingua del Petrarca, ch'è pur uno de' piú curiosi e più importanti fenomeni della nostra storia letteraria.

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del Petrarca,

Studiando l'ortografia e anche la lingua bisognerà tenere ben distinte le parti trascritte da lui e quelle trascritte dall' amanuense. Per quanto raffinato osservatore e calcolatore di tutti i piú minuti particolari stilistici sia stato il Petrarca, e per quanto sia stato un accurato correttore delle poesie trascritte dal suo amanuense, basta esaminare un po' quelle trascritte da lui medesimo perchè nasca in noi la persuasione che non si prefisse di raggiungere una perfetta omogeneità. Non vogliamo ora accennare alle conseguenze che da questa osservazione si possono trarre rispetto all' arte sua o, come dicono, alla sua tecnica, che non si regge affatto sulle minuzie; ma noteremo solo che non bisogna attribuire neppure al Petrarca concetti o scrupoli modernissimi, e che neppure rispetto alla lingua si può asserire ch'egli fosse così perfettamente conscio del proprio uso, da non ammettere oscillazioni o da impaurirsi quanto faremmo noi di qualche forma dialettale del copista. Ripetiamo che si deve tenere per schiettamente petrarchesco ció che è autografo; ma tutto ciò ch'è trascritto dall'amanuense? Quell'avessir che abbiamo ricordato, si deve all' amanuense o no? Al Salvo, editore d'un codice singolo, questa questione non interessa, come abbiamo già detto, poiché va riserbata a chi tenti un'edizione critica. Ma si deve dividere il chenterrompendo del componimento CCXIV, v. 32, o il lenencrebbe del CCXLII, scritti di mano del Petrarca, in ch' enterrompendo, le n'encrebbe, come il Salvo fa, oppure in che 'nterrompendo, le ne 'ncrebbe, come preferirei dividere io? Se si tenga conto soltanto delle abitudini dell'amanuense, è lecito rimanere in dubbio; poichè lenvio, lo in

vio VI, lenfiamma la inf. XXIII 105, lenvoglia la inv. XXIX, 18, lenchiostro LXXIV, lenvita la inv. CXXIX, 7, lengordo CXXXV, 41, non pare si possano dividere altrimenti che l'envio, ecc. E c'è anche l' unghie endura CIII. Ma nessun caso consimile si trova nella parte autografa, cosicchè noi non dobbiamo attribuire al Petrarca degli en che non volle, e divideremo senza titubanza, col vantaggio anche di seguir l'uso piú comune del tempo, che 'nterrompendo, le ne 'ncrebbe. Poi, raffermati nella nostra presunzione << a priori da queste osservazioni « a posteriori », ci guarderemo anche dall'introdurre nella parte non autografa un numero soerchio di en, e, pur lasciando luogo a qualche dubbio, muteremo i non pochi ch' encontro V, n'engombra X, ch'encende XIX, n'encrebbe XXIII, 7, t'empromette XXVIII, 99, l'enfiammate rote L, 15, chi l'entendesse LXXIII, 84, s'endonna CXXVII, 25, ch'endura e serra CXXVIII, 12, s'enfra CXXIX. 5, n'ensegna CXL, tal ch' enfiammar CXLIII, del testo del Salvo, in che 'ncontro, ne 'ngombra, che 'ncende, te 'mpromette, le 'nfiammate rote, chi le 'ntendesse, se 'nfra, ecc. Nessun dubbio neppure che encontra CXXVIII, 36, « ma 'l desir cieco encontra 'l suo ben fermo », deve esser corretto e 'ncontra, come hanno le altre edizioni.

La giusta divisione delle parole è sempre stata uno de' piú pericolosi scogli degli editori, da tempo immemorabile. Tutti scrivono, XXIII, 31, « La vita el fin, e 'l dí loda la sera »; il Salvo preferisce el di: non mi persuade, ma non c'è modo di dimostrare che abbia torto. Ecco dunque però, in questo stesso verso un el indubitabile: ci dà esso pieno diritto di leggere anche XIX, « Lasso, el mio loco è 'n questa ultima schera »? Alcuno forse potrebbe voler dividere e 'l, con un e enfatico. Non insisteremo su ch' e' mora di LXXXVII, che potrebbe invece anch'essere che mora; nè su sollevar la ponno di LIII 19, che potrebbe rimaner congiunto com'è nel codice, sollevarla; certo però entra le mura CV, 65, dev'esser corretto entr'a le mura. Bene anche sarebbe stato conservare disgiunto qual che qualche, LXX, 17, CVIII, ecc. ecc., com'è sempre disgiunto nel codice; poiché soltanto cosí riesce chiaro il plurale qua' che, « adormentato in qua' che verdi boschi », di CCXXXVII, 32 (autogr.).

Un altro terribile scoglio è l'interpunzione, ma il Salvo le ha dato nuove e utili cure, e non merita che lode. Confesso peró che resto sempre pochissimo persuaso che nella canzone Nel dolce tempo, i vv. 79-80 sieno da interpungere o interpretare, comc anch'egli vuole, « fecemi, oimè lasso, D'un quasi vivo et sbigottito sasso», d'un, cioè d'uomo (che ero)'. Io crede che il Poeta

abbia soltanto osato un'applicazione sintattica un po' larga della frase: fecemi di sasso ». O se no, sarà da correggere d'uom? 1

Sia quello che si vuole di queste e delle precedenti osservazioni, e posto pure che sieno tutte giuste, rimane sempre che si tratta di leggere mende, le quali sparirebbero colla maggiore facilità in una seconda edizione; e rimane soprattutto che il lavoro del Salvo è di grandissima utilità, e dev'essere d'ora innanzi, insieme col volume del Modigliani, compagno inseparabile d'ogni studioso del Petrarca. Quanto a quelli che non fanno professione di studiosi ma amano la poesia, il Modigliani non è per loro, ma il Salvo s'è adoperato quanto poteva per rendere anche a loro ottimi servigi e per meritarne la gratitudine. E. G. PARODI.

DOMENICO SANTORO. Della Vita e delle Opere di Mario Equicola. Chieti, pei tipi di Nicola Jecco, 1906 (8°, pp. 303).

Da piú anni il dott. Santoro aveva preso a studiare il suo conterraneo Mario Equicola e già aveva dato qualche pregevole saggio de' suoi studj con un bel manipolo d'appunti, specialmente bibliografici, pubblicati fin dal 1890 nel Giornale storico, e con un articoletto del Fanfulla domenicale. Ora infine egli ha messo fuori la vagheggiata monografia, che illustra biograficamente e letterariamente la figura dell' Alvitano.

Nato verso il 1470, forse figliuolo illegittimo di Giampaolo Cantelmo, signore della sua terra, l'Equicola (cosí nominatosi probabilmente dalla provincia natale ebbe gioventú avventurosa; ché si trovò avvolto nelle tempeste politiche e guerresche onde il Reame e in particolare i ducati di Sora e d'Alvito furono funestati negli ultimi decenni del secolo XV; per i Cantelmo portò con valore le armi, e dopo il 1497, morto in battaglia un dei figliuoli di Giampaolo, col quale stava, pare raggiungesse

1 Non ho fatto espressamente confronti tra l'edizione del Salvo e quella del Modigliani, nè tanto meno mi sono servito dell'edizione fototipica. Ma mi sembra che il Modigliani e il Salvo sieno in genere perfettamente d'accordo; il che fa onore all' uno e all' altro. Qualche discrepanza soltanto m'è caduta sott'occhio: per es., nel Salvo oceano XXVIII, 38, occeano M.; fattezze XLIV, con un solo M.; redduto XLIX, ēdduto M. (civė, meglio renduto); altri LVII 14 (ma è certo errore di stampa per altro); pregioniero LXXVI, -nero M ; di su la gomfiata vela LXXX, 22 (certo, errore di stampa per di su da la g. v.); disdeynosa CXII, sisdegnosa M.; con Amore CXVI, cu A M.; dicessette CXXII (errore stampa per dicesette, come si vede dall'apparato); facendo CCXXXIX, 9, faccendo M., ecc. Nella Canz Mui non vo' più cantar, al v. 30, il cominciare del cod. è ridotto, per non oltrepassar la misura, a cominciar: ma allora si perde la rimalmezzo. Iufine, di miei LVI, 28, sarà di miei, cioè 'dei',

gli altri due, Sigismondo e Giulio Cesare, a Ferrara, dove fu dapprima segretario di Margherita, moglie del primo. La sua educazione aveva fatta, presumibilmente prima del 1494, a Napoli nella consuetudine del Pontano, del Sannazzaro e d'altri socj dell'Accademia, a Roma sotto Pomponio Leto, a Firenze alla scuola di Giovanni Lascaris. Nella città degli Estensi, donde s'allontanò nel 1503 per seguire Sigismondo nella spedizione contro gli Spagnuoli finita col disastro del Garigliano, entrò nelle grazie della corte; dal cardinale Ippolito e dal duca Alfonso ebbe incarico d'onorevoli ambascerie al re di Francia (1505) e a Ferdinando il Cattolico venuto a Napoli nel 1506; e facile occasione gli si presentò di farsi conoscere ed apprezzare da Isabella Gonzaga, la quale lo volle suo precettore. Cosí nel 1508 l'Equicola pose stanza a Mantova e d'allora in poi, fino alla sua morte, che fu nel 1525, prestò i suoi servigj alla Casa dei Gonzaga, ambasciatore a Roma, a Urbino, a Napoli, compagno d'Isabella nei viaggi di lei, segretario della marchesa e del giovine principe Federico, dopo la morte di Benedetto Capilupi.

Su questa trama il S. tesse, nella prima parte del libro, la biografia dell' Equicola. A diradare in qualche punto l'oscurità del giovanile periodo meridionale, gli giovano notiziole accuratamente raccolte qua e là e plausibili congetture; a lumeggiare con ragguagli svariati il periodo ferrarese-mantovano, i documenti dell' Archivio di Modena, con prodigalità soverchia pubblicati nell' Appendice, e alcune delle preziose monografie isabelliane del Luzio e del Renier, massime quella sulle relazioni letterarie della marchesa. Una passata ai documenti mantovani, che i due benemeriti eruditi indicarono ma non riferirono, forse non sarebbe riuscita infruttuosa; e per esempio qualcuna delle lettere con cui l'Equicola tenne informato il giovane Federico di tutte le vicende del viaggio d'Isabella in Provenza, si sarebbe letta piú volentieri d'altre, insipidette, di provenienza modenese, sia perché i confronti coll'opuscolo latino di messer Mario stesso Dominac Isabellae Estensis Iter in Narbonensem Galliam non sarebbero stati inutili al giusto apprezzamento di questo, e sia perché di qualche aneddoto pittoresco se ne sarebbe probabilmente avvantaggiata la storia dei costumi. Ho sott'occhio un opuscolo del mio povero amico Giovanni Girelli, dove da una lettera dell'Equicola, data di Casale 28 aprile 1517, è

1

LUZIO-RENIEB, Cultura e Relazioni, p. 72.

2 Rime e Lettere inedite di Galeotto del Carretto e Lettere d'Isabella d'Este Gonzaga, Torino, 1886, pag. 30 seg.

trascritta la descrizione dell' incontro d'Isabella, appunto in viaggio per Francia, con Maria di Monferrato, fanciulla di otto anni promessa sposa al principe Federico Gonzaga, e con la minore sorellina di lei; una descrizioncella ch'è un amore. È sfuggito altresí al S. un Breve pontificio del 29 gennaio 1515 (l'Equicola era allora a Roma, reduce con Isabella da un viaggio a Napoli), che riserva all'Alvitano « unam ex portionibus collegio praesidentium annonae almae Urbis noviter additis secundo vacaturam, eo quod praefatus Marius pretium dictae portionis iam liberaliter solvit ». Col quale beneficio piuttosto che col soggiorno dell'Equicola a Roma come discepolo di Pomponio Leto (p. 26), sarà da mettere in relazione il suo possesso d'una casa in quella città, attestato, par bene, da un documento del 1520.

La bibliografia delle numerose e in parte rarissime opere ed operette dell' Equicola era già stata dal S. diligentemente esposta nel ricordato articolo del Giornale storico, né qui riceve ampliamenti degni di nota. Vi si dovrebbe aggiungere che, se dice il vero il catalogo della Marciana, nella miscellanea 2698 di quella Biblioteca si conservano tutte e tre le Suasoriae de bello Turcis inferendo, delle quali il S. reputa perduta la seconda e conosce la terza da un esemplare mutilo di proprietà privata (p. 142). Né andava trascurata una lettera del 15 ottobre 1519, di Alessandro Guarini all'Equicola,' onde ha conferma la notizia che in quell'anno i primi quattro libri della Cronaca di Mantova erano finiti (p. 68 n.). Ma le sono inezie, che non scemano lode alla seconda parte del libro del S., dove gli scritti dell' Equicola sono analizzati ad uno ad uno, l'Equicola stesso è raffigurato nella sua complessiva attività di prosatore latino e volgare, e le scarse poesiole di lui, latine tutte, sono radunate e tradotte. Compiuta, per quanto io so, questa piccola silloge; buona quella figurazione; accurata e sobria quell'analisi; troppo sobria anzi e troppo aliena dalla comparazione, poiché nel discorrere d'opere moraleggianti o d'erudizione, quali sono quelle dell'Equicola, poteva bene il S. volger talvolta piú intento il suo sguardo all'intorno; e, come giudicare meno sommariamente del Nuovo Cortegiano in rapporto con altre scritture di simile argomento, cosí indugiarsi un po' a dir delle fonti, specialmente neolatine, del Libro de Natura de Amore.

Nella storia dell'arte l'Equicola non ha luogo, né mi pare

1 HERGENROETHER, Leonis X Regesta, Freiburg, 1884, II, 19, n. 13891. Pubbl, dal BERTOLOTTI, nel Bibliofilo, VII (1885) n. 1.

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