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chiamò, i resultati a cui giunse furono naturalmente troppo negativi, e il residuo storico, dopo la sua opera d'eliminazione critica, così piccolo, che la ricerca di codesto elemento mitico più recente parve piuttosto che il mezzo il resultato delle sue ricerche. Quello che mancò allo Strauss è, invece, il punto di partenza necessario ad ogni opera critica oggi, per risalire vicino alla figura storica di Gesù. Conviene, cioè, tener presente che cosa doveva esser Gesù pei suoi discepoli, secondo l'ideale messianico che essi credevano avverato in lui, e nel racconto evangelico discernere quello che è dovuto all'efficacia di codesto presupposto della loro coscienza religiosa e della tradizione del loro popolo, da quello che il loro maestro veramente fu e dovè essere. Pei discepoli primi e pei primi apostoli, nati e cresciuti in quell'ordine d'idee, e, come tutti i loro connazionali contemporanei, con vivo nell'animo il tipo profetico e rabbinico del Messia tradizionale, è naturale che Gesù di Nazareth, come Messia, dovesse avere vissuto, parlato, operato secondochè era richiesto da quell'ideale; e tutto quello che nella sua vita e nell'opera sua non vi si accordava o anche vi contradiceva, e che perciò alla critica moderna apparisce come tanto più autentico e storico, doveva in qualche modo venir conciliato con questo. Così rispetto alla morte di Gesù, poichè pei giudei e per tutti coloro che, anche divenuti cristiani, si mantenevano fedeli al giudaismo, la morte della croce era uno scandalo, come confessa Paolo (I, Cor., 1. 22), doveva sorgere quella speranza d'un prossimo ritorno di lui quale re e giudice sulle nubi del cielo per adempiere l'aspettata restaurazione d'Israele invano sperata da lui vivente, che si mantiene poi viva per tanto tempo nella Chiesa nascente. Oltre a ciò, si doveva annunciare il Cristo venuto nelle comunità cristiane composte da prima in gran parte di giudei convertiti, i quali aderivano tenacemente allo

spirito, alle tradizioni e talora anche al rituale giudaico, e credevano che il cristianesimo non fosse se non la continuazione e l'adempimento del giudaismo, e l'evangelio una conferma non una abrogazione della legge mosaica. Era quindi quasi una necessità il conformare, quanto più era possibile, pei fini della predicazione, l'imagine e l'opera del Messia cristiano alle esigenze e ai pregiudizi giudaici del Messia; anche se non si vuol tener conto o ridurre al minimo l'azione che il tempo doveva avere sulle menti e sugli animi; sia alterando a poco a poco i tratti primitivi della persona o dell'insegnamento del loro maestro; sia facendone come penetrare altri suggeriti spontaneamente dallo svolgersi della vita religiosa; sia infine lasciando cadere quelli che più non rispondevano ai bisogni nuovi della fede e della Chiesa.

Ora chi s'accinge a questo lavoro critico d' eliminazione e di riduzione, ai particolari del quale non ci è nemmeno possibile accennar qui, tanto più luminoso ed evidente scorge il contrasto fra l'ideale del regno di Dio che rifulge in alcuni detti e in alcuni tratti più originari e più vivi della figura di Gesù, e tutto quell'insieme di elementi giudaici con cui è talora complicato nella narrazione evangelica; tanto più intende come la sovranità dello spirito di lui dominasse e stupefacesse non solo i suoi oppositori, ma coloro anche che lo seguivano e ne raccoglievano il verbo salutare. Non è solo la sua opposizione tenace e inflessibile al formalismo farisaico, ma è quell'esitanza che più volte si può sorprendere nei suoi discepoli nel riconoscere in lui il Messia aspettato, quella facilità con cui talora lo sconfessano, quello sgomento che li assale a sentir da lui l'annunzio della sua fine imminente, quella loro dispersione dopo la morte di lui, che ci fa sentire quanta resistenza e quanta diffidenza lo circondasse. Non soltanto il popolo lo crede o Elia, o Giovanni

risuscitato, o un profeta, non solo gli scribi e i dotti della legge, ma spesso anche i suoi più fidi di Galilea lo fraintendono in un modo grossolano; così quando egli parla per parabole ed imagini, come, e molto più, quando si leva colla sua parola alle supreme altezze ideali, e ragiona del regno dei cieli, di quel cibo che sazia, di quel l'acqua che disseta in eterno. Veri poveri di spirito costoro, non entra nelle loro menti che il regno di Dio annunziato da lui non sia qualche cosa di sensibile e di mondano, nè comprendono il significato intimo e spirituale: che, cioè, il vero tempio di lui non sia quello di Gerusalemme o di Garizim, ma s'edifichi nell' intimo delle coscienze rinnovate dalla sua parola, dove il Dio s'adora in spirito e verità. Nè questa incapacità loro apparisce solo sul principio dell' insegnamento del maestro, ma ritorna poi sempre e persiste anche dopo la morte di lui. « Noi speravamo, dicono con accorato rammarico i due discepoli d' Emaus, che egli fosse colui che avesse a redimere Israele » (Luc. 24, 21); e fino quando egli apparisce in mezzo ad essi risorto in Gerusalemme, i discepoli gli chiedono con desiderio appassionato: « Signore, sarà egli in questo tempo che restaurerai il regno d'Israele? » (Act. I, 6). La poca penetrazione di questi animi naturalmente semplici, e tutto il sistema giudaico rabbinico di cui le loro menti sono imbevute, impedisce loro di cogliere il pensiero. del maestro. Ora, poichè la critica moderna, soprattutto dopo le recenti ricerche del Weber e dello Schurer, è in grado di conoscere assai bene quel sistema dottrinale delle antiche sinagoghe, così è anche in grado di intendere quale fosse lo stato dell' animo e della mente di coloro che circondano il maestro di Nazareth, e tanto più facilmente misurare, quindi, la distanza ideale che li separava da lui, e scuoprire quel che c'era di più vivo, di più originale, di più personale nella sua predicazione.

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Applicando ora questa misura all'analisi della narrazione evangelica, noi possiamo accostarci più sicuramente alla figura di Gesù, e coglierne i tratti più rilevanti e più distintivi. Certo, anche qui occorre quel tatto fine, quell' intuito delicato capace di penetrare nel fondo sostanziale della narrazione, e sorprendervi le parti più antiche. Ma codesta incomunicabile attitudine è poi aiutata da un criterio positivo. Quanto maggiore apparisce la resistenza, quanto più vivi sono i dubbi, le sorprese, le esitanze che la parola del Maestro suscita via via negli animi dei suoi seguaci, tanto maggiore è il titolo di credibilità e di autenticità che in quei punti presenta la narrazione evangelica, perchè meno conforme a quell'ideale messianico in cui costoro credevano ed erano disposti e desiderosi di ritrovare avverato in lui. È stato giustamente osservato che fra gli evangeli e gli Atti degli apostoli vi è uno stacco profondo. La parola luminosa e creatrice del Maestro impallidisce sulla bocca dei suoi successori. I discorsi di Pietro, di Stefano, di Filippo, non hanno quella altissima idealità, quella potenza di vita, quella trasparenza d'imagini, quell'impronta d'eternità che regna nelle parole di Gesù. Ora se gli evangeli uscirono dalla generazione degli apostoli, o piuttosto da quella successiva, è naturale il credere che ciò che essi contengono di più vivo, di più spirituale, di più incomparabile collo spirito dell' età loro, fluisca dalla sorgente primitiva, e sia quindi fedele testimonianza e come un'eco della parola originale del Maestro. Come, dunque, la critica dello Strauss riuscì ad illustrare il processo di elaborazione del tipo e della dottrina di Gesù.

1 Se si nega ogni possibilità di discernere il primitivo dal recente, come fa il WEISS, Das Leben Iesu, I, 1888, p. 11, pur nel senso tradizionalista, si offre, mi pare, il fianco alle negazioni critiche dello Strauss, e si toglie ogni fondamento a quella valutazione comparativa degli evangeli nel rispetto storico, che pure il WEISS fa con tanta larghezza.

nella coscienza cristiana dell' età successiva, così è lecito oggi alla critica, con un processo inverso, risalire alla sorgente prima e sovrana di codesto lavoro. Ora una tale opera di ricostruzione deve premettere alla analisi interna della storia evangelica, una critica dei documenti e delle fonti considerate nel loro respettivo valore come testimonianze, nei loro rapporti e nella loro formazione storica. Opera questa, iniziata dal Baure dalla antica scuola di Tubinga, e continuata oggi con maggior fervore, e coll'aiuto di nuove scoperte guidata a nuovi risultati. E anche su questo punto noi ci dovremo qui limitare naturalmente a delineare i criteri più generalmente accettati in queste ardue e complicate ricerche, e i resultati più consentiti nello stato presente della critica biblica del Nuovo Testamento. Il che è possibile ed utile, perchè dopo tanto e spesso così discorde lavoro, oggi la critica sembra sempre più convenire in alcuni resultati fondamentali, che giova raccogliere tanto più perchè fra noi siffatte ricerche sono malamente neglette non meno dai laici che dagli uomini di chiesa.

Dei quattro attuali biografi di Gesù, solo il Delff ha voluto e saputo giovarsi assai liberamente e largamente di tutto quel vasto lavoro di critica che ferve specialmente nel suo paese, da quasi un secolo. Invece lo storico di Oxford, sebbene lo consentissero, e quasi lo richiedessero, le vaste proporzioni della sua opera, così preziosa per largo uso che vi è fatto della letteratura talmudica e rabbinica, si è contentato d'un rapido cenno sulla questione degli evangeli (I p. 53). Ma anche da questo apparisce almeno che la sua ortodossia anglicana non gli ha tolto di riconoscere lo spirito ellenistico. ed alessandrino del quarto evangelio, che egli però, contro la scuola di Tubinga, riferisce a Giovanni; nè soprattutto di riconoscere la priorità storica dell' evangelio di Marco. Nè meno sinceramente riconosce « la

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