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che raccoglie la messe biondeggiante e matura; è il mercante che va in cerca di belle perle; è il signore che chiama al banchetto i convitati o dà ai suoi servi i talenti da far fruttificare, o chiama gli operai alla sua vigna; è lo sposo che è atteso dalle vergini lampadofere. L'opera sua, o il regno dei cieli, è il lievito deposto nella farina perchè fermenti; è il granel di senapa, il più piccolo seme che diviene poi la più alta pianta dell'orto; è la rete gittata al mare che raccoglie tutto ciò in cui s'imbatte '. In un passò sublime del I dei Re (19, 11-13), dove si descrive la visione di Elia sull'Horeb, al passaggio di Jahveh precede un vento impetuoso che fende le montagne e dirompe le rocce; ma l'eterno non era in quel vento. Poi venne un terremoto, ma l'eterno non era nel terremoto. Poi venne un fuoco divoratore e l'eterno non era in quel fuoco. Ma dopo il fuoco, venne un soffio sottile e sommesso; e in quello passava l'eterno. » Ora la rude violenza della parola di Giovanni ci fa pensare a quel vento, a quel terremoto, a quel fuoco. Paolo stesso ha rassomigliato Gesù a questo soffio soave che « spira nei cuori e grida: Abba, (padre) » (Galat. 4, 6). Anch' egli invita a penitenza; ma in modo ben diverso da Giovanni. Non importa cingersi i lombi di pelli, digiunare, ritirarsi nel deserto. La penitenza a cui chiama è dolce e soave, e tutta si comprende in queste parole: << o voi che siete aggravati e stanchi venite a me ed io vi ristorerò »; poichè « il mio giogo è soave. » Per ottener la salute, basta il pentimento e la fede; e il figliuol prodigo trova grazia presso il padre più del figlio irreprensibile. E mentre Giovanni tuona con acerba rampogna contro Erode che vive in concubinato, Gesù ha per l'adultera, per la Samaritana, per Maria di Magdala,

1 Non cito i luoghi che sono ben noti e facili a ritrovarsi da ognuno.

delle parole dolci di perdono. Gli Stoici dicevano, e lo pensavano i Farisei che Giuseppe Flavio ravvicinava a quelli: chi ha una virtù, le ha tutte, chi ha un vizio, li ha tutti; fra la virtù e il vizio non è possibile mediazione o gradazione alcuna. Con la dottrina di Gesù entrano invece due parole nuove nel mondo, pentimento e perdono. Il regno di Dio che è preparato dalla chiamata alla penitenza, si manifesta nel perdono; movente intimo e comune del pentimento e del perdono, l'amore. Un giorno che i discepoli di Giovanni, insieme coi Farisei, gli si accostarono chiedendogli, perchè, mentre essi digiunavano non digiunassero i suoi discepoli, Gesù rispose: perchè dovrebbero digiunare i compagni dello sposo, mentre lo sposo è con loro? Ma i giorni verranno che lo sposo sarà loro tolto, ed allora digiuneranno (Marc. 2, 18. Matt., 9, 14. Luc. 5, 33). Ognuno che lo segue, dunque, appartiene a un corteggio di nozze, e il regno di Dio è come una festa nuziale dei Santi. Egli che è lo sposo, vuole intorno a sè il giubilo e la letizia; quella letizia spirituale che, tanti secoli dopo, raccomanderà ai suoi seguaci la grande anima di Francesco d'Assisi.

Quanta distanza fosse fra le nature dei due profeti, lo dimostra un tratto che il Didon ha dimenticato di spiegare. Poco prima di morire, Giovanni, dalla sua carcere del Macheronte, udite le opere di Gesù, manda due dei suoi discepoli a chiedergli: « sei tu colui che ha da venire, oppure ne aspetteremo un altro? » (Matt., II, 2). Uno spirito animato, com'era il suo, dall' ideale giudaico del Messia, non sapeva comprendere l'opera spirituale di Gesù. E questi lo fa sentire, quando, risposto che ha a quella domanda, soggiunge ai suqi : « in verità, fra quanti sono nati di donna nessuno sorse maggiore di Giovanni: ma il minimo nel regno dei cieli, è maggiore di lui» (Matt., II, 11). E nondimeno se Giovanni non aveva colto il pensiero.

del Galileo, nessuno ne aveva come lui definita, con tanta evidenza, la natura, in quel momento solenne in cui, mentre Gesù passava, compreso di riverenza, lo aveva additato a due suoi discepoli, dicendo: ecco l'agnello di Dio (Joan., I, 36).

Codesta espressione, che è per lo meno molto antica poichè si trova già nell'Apocalisse, accennava ad un altro motivo della coscienza religiosa di Gesù, il quale più addentro ancora contrastava al messianismo giudaico; l'idea, suggerita sempre più chiara dal suo squisito presentimento, della necessità della sua passione e della sua morte. Motivo nuovo, che insinuandosi nell'animo suo non turba la serenità della sua parola, a quel modo che all'idea del peccato e della penitenza sa bene associare la letizia e la festa del regno di Dio. Nè pare si possa dubitare che questo tratto risalga a lui; poichè all' annunzio che egli ne fa, i discepoli si mostrano sorpresi e sgomenti, come quello che contrastava alla idea tradizionale del Messia; ed anche più tardi per la Chiesa la passione del Messia cristiano rimase come un difficile problema. Non che mancassero nell' Antico Testamento gli elementi di questo motivo. Vi erano anche nei due celebri capitoli del secondo Isaia (52, 53), che già in uno dei più antichi scritti rabbinici venivano riferiti al Messia. Ma i così detti « dolori del Messia >> annunziati nell' Apocalittica giudaica, significavano i segni precursori della sua venuta, e quindi s' attribuivano al popolo piuttosto che a lui, e solo riflessamente a lui, come apparisce anche dai luoghi così diligentemente raccolti dall' Edersheim (II, pag. 212 ss.). L'impulso ad introdurre nell'idea messianica questo ele

1 Così facevano, come pare, i Giudei all'età di Giustino il Martire, Dialog. cum Tryph., 90 (ed. De Otto). Cfr. del resto su questo punto CASTELLI, Il Messia degli Ebrei, Firenze 1873. VERNES, Hist. d. idees Messianiq. 1874. STANTON, The Jewish Messiah 1886 p. 1-100. BALDENSPERGER, op. cit. p. 119 ss. SCHÜRER, op. cit. p. 496, 1898, e il mio scritto Le idee mill. dei Cristiani, Napoli, 18.88.

mento passionale veniva dalle esperienze dolorose del popolo giudaico. Ma il Messia doveva appunto porre fine ad esse; e se Israele aveva sofferto, aveva però insieme sperata una ricompensa o una vendetta. D'altra parte, come oggi è provato, questo lavoro di proiezione delle condizioni reali del popolo sull'ideale del Messia avvenne solo dopo la distruzione di Gerusalemme. Nel giudaismo del tempo di Gesù non ve n'era alcun segno, ed è proprio e originale di lui l'aver così trasfigurato l'ideale messianico. Fu, certo, in lui un presentimento via via più chiaro della sua fine che dovė suggerirgli il pensiero della necessità sua interiore e divina; e nella narrazione sinottica, dopo il momento solenne e decisivo deila testimonianza che Pietro rende a lui come Messia, ogni atto, ogni parola sua è come mossa da codesto pensiero durante tutto il dramma finale. È stato anzi giustamente notato dai critici, che il primo annunzio della sua passione e della sua morte, negli evangeli, cade nello stesso momento

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1 Già lo Strauss, e poi il Keim, lo Schenkl (Charakterbild Jesu, 1864, p. 137), l' Holtzmann, il Bandensperger, Weiss, Rville, il Beyschlag, il Gilbert, ed altri.

L'ipotesi del VOLKMAR, Jesus Nazarenus, 1882, p. 117 s.), rappresentante della critica estrema, che le predizioni della morte sieno come vaticinia ex eventu introdotte più tardi nella narrazione evangelica, è contraria anche ad ogni verosimiglianza psicologica. difatti più naturale il presentimento della sua fine in Gesù, che il contrario. Basterebbe a provarlo il continuo divieto che fa Gesù a coloro che ha risanati, di non spargere voci sulla sua natura messianica. Marc. 1, 24, 25, 34, 41; 3, 11, 12; 5, 43. E se talora Gesù accenna all'opposto desiderio come in Marc. 5, 19, ciò forse avviene perchè nella Decapoli le speranze messianiche eran meno vive. Ora questo proposito di Gesù deriva evidentemente dall'idea da lui altrove espressa, che egli, coma profeta, deve morire in Gerusalemme e non altrove, e non prima che egli abbia compiuta la missione sua. Solo possiamo dire che la meraviglia e lo sgomento dei discepoli a quell'annunzio solenne della sua fine, dimostra l'impossibilità delle predizioni precedenti a quel momento, come s'incontrano nella narrazione evangelica, e molto più poi di predizioni così determinate come in Matt. 12, 40. Manifestamente la narrazione dei Sinottici non segue uno stretto ordine cronologico; ed anche qui la psicologia può giovare a ristabilire approssimativamente la cronologia.

in cui egli provoca, sulla via di Cesarea, la risoluta testimonianza di Pietro che lo riconosce come il Cristo aspettato (Marc., 8, 1. Matt., 16, 21). Ora questo è psicologicamente naturale, e quasi logico. Se il regno dei cieli si prepara colla penitenza, il primo e grande esempio di penitenza deve darlo il re. Ma, quello che più monta, codesto momento segna anche il passaggio solenne dal giudaismo al cristianesimo. Non soltanto è Gesù che, per la prima volta, annunzia come il Messia deve soffrire e morire, ma questo stesso pensiero eleva ad un significato altissimo e ben lontano anche da quello che prevalse poi nel giudaismo talmudico. Il Messia giudaico soffre col suo popolo. Il Messia cristiano soffre pei suoi seguaci, e per opera del suo popolo. Il popolo giudaico non vede in quei dolori che un male da cui aspira ad esser liberato; i cristiani nella croce vedono la liberazione, nella passione di lui il prezzo del riscatto. Ora che il « figliuol dell' uomo » non sia più il giudice o il vincitore ma il martire, e che redima col suo sangue, era una parola nuova ed inaudita; e doveva poi esser seme che fruttò il rinnovamento morale e sociale di tutto il mondo antico. Dall'idea politica del regno messianico al concetto spirituale del regno di Dio; da questo alla idea del martirio come. vera sanzione di quel regno, ecco i due grandi passi che già prima di Paolo fa il cristianesimo fuori del giudaismo.

Ora, sorta che è quella idea del sacrificio nella coscienza, per un momento una leggera ombra di dolore si stende sulla luminosa e sovrana figura del maestro di Galilea e la serenità del suo animo si vela d'una mestizia soave. Ma questa, salvo forse nel Gethsemane e sul Golgota, non arriva in lui allo sconforto, poichè sente e sa che l'opera messianiaca diviene, per lui, opera infinita di amore e di bene, che durerà quanto il moto lontana. Nella notte dell' ultima cena,

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