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vaggia, che ben si poteva scatenare contro gli avversari' in certe crisi, ma che non forni va elementi di governo. Un uomo accorto e spregiudicato, un don Liborio Romano, bastò, nel 1860, a tenerla in freno, valendosi dello stesso plebeo istituto della camorra. Un partito era quello cattolico, che, se anche combattuto e represso, si riprometteva una ripresa di fortuna nell'avvenire, e possedeva capacità di adattamento e di trasformazione, come poi s'è visto. Ma i superstiti borbonici, quelli di essi che non si convertirono a poco a poco alla nuova Italia, dovevano perdersi in querimonie e in vani atteggiamenti, e in ultimo confluire nei partiti clericali e reazionarî, senza mantenere, o senz' aver mai formato, un proprio e distinto carattere.

E, per questa ragione, dell' ultimo borbonismo di Napoli non è dato far la storia come di un movimento che ebbe un principio e una fine, che si prefisse uno scopo e adoperò certi mezzi, che percorse un suo processo di svolgimento ed esercitò una sua propria efficacia nella vita politica italiana. La storia qui cede spontaneamente il luogo all'aneddotica, che piace talvolta richiamare, sia perchè quegli sparsi aneddoti lumeggiano certi aspetti minuti delle cose e certe tradizioni del passato, sia, più spesso, perchè si legano ai nostri ricordi personali.

Li ho conosciuti anch'io, quei borbonici, e anzi fin da fanciullo mi erano consueti quasi tutti i più cospicui loro personaggi, nel collegio cattolico del quale ero alunno, dove, nei giorni del parlatorio, quei patrizî si affollavano a visitare i figliuoli e i nepoti; e rivedo, tra gli altri, ora che scrivo, il vecchio principe di Torella Nicola Caracciolo, dall'alta statura e dal severo contegno. E ricordo che un giorno fu introdotto nella nostra classe di ginnasio un esile e pallido giovinetto, e il sacerdote insegnante, udito il nome del

nuovo alunno, fece un atto come di compassionc e di riverenza era il figliuolo del colonnello Migy, ucciso in una delle sortite da Gaeta. Tra i nostri compagni e amici si trovavano i due Ferrari, il cui padre, il generale Ferrari, istitutore di Francesco II, si era spento dentro le mura di Gaeta; e i Carbonelli, figliuoli di ministri e agenti dell'ex-re; e tanti e tanti altri. E m'imbattevo un po' dappertutto in antichi ufficiali borbonici, o in qualche sergente di Sicilia, di Capua e di Gaeta, che mi faceva pensare al « Rataplan, sono un vecchio sergente », della canzone del Parzanese, imparata a mente nelle scuole elementari; e conversavo coi cocchieri e domestici di casa, tutti rapiti o teneri adoratori di Ferdinando e di « Franceschiello ». Più tardi, rivoltomi a indagini sto riche, mi accadde di affacciarmi a vecchie case borboniche, come a quella dei Baccher, dei famosi sanfedisti del 1799, dove in una grande stanza, adorna dei ritratti del generale Camillo Baccher e del venerabile don Placido, un loro discendente, dai capelli e dal pizzo brizzolati, lavorava chino sopra una tavoletta da ingegnere, ed era stato colonnello di artiglieria, e aveva combattuto a Messina nel 1848 e sul Garigliano nel 1860, decorato più volte, un mite e modesto uomo. E anche frequentai allora il più stilizzato borbonico di Napoli, ministro dell' ex-re e suo principale rappresentante, il duca della Regina don Carlo Capece Galeota, eletto e colto gentiluomo, di cui si vedeva nel salotto, a riscontro dell' originale, il ritratto in abito di gentiluomo di corte e con la fascia dell'ordine di San Gennaro, dipinto dal Mancinelli, e che tutti riverivano e corteggiavano con la delicatezza che si usa verso una dama, perchè egli era, in verità, quanto inflessibile nei suoi concetti, altrettanto cortesissimo di presenza, di atti e di parole. E per le vie di Napoli mi fu additato, oggetto di particolare stima e ammi

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razione, la fiera e marinaresca figura dell'ammiraglio barone Roberto Pasca, il solo dei comandanti della marina borbonica che nel 1860 condusse, a viva forza e domando la tentata rivolta degli ufficiali, la sua nave, la Partenope, al suo re a Gaeta. Qualche volta, accadevano bizzarri incontri o scontri. Nel 1886, in un albergo di Torre del Greco, nel quale io passavo le vacanze, venne a vedermi Silvio Spaventa; e, quando scese con me nella sala da pranzo, il vecchio duca di Caianiello, che era a una delle tavole, si fece tutto rosso in viso e confisse gli occhi nel piatto. Venticinque anni innanzi, lo Spaventa, direttore di polizia della luogotenenza, lo aveva fatto mettere in carcere sotto l'accusa di cospirazione.

Ma questi scontri ostili, questi moti di avversione e di rancore, ormai si facevano sempre più rari. Dapprima, nella buona società, si era mantenuta una certa separazione tra le case che si aprivano agli uomini della nuova Italia, come quelle dei Cassano-Serra e dei Pignatelli di Strongoli (che avevano avuto vittime nel 1799), e le altre fedeli ai Borboni, tra le quali quella del principe di Bisignano Sanseverino, ove si raccoglieva un circoletto dei più neri e fanatici, che passavano la serata nelle feroci maldicenze e insieme nel giuoco dello scopone e in altri simili sollievi intellettuali. Ma la separazione non poteva durare; e a poco a poco si venne transigendo per non rinunziare a convegni e spassi del bel mondo. Il tracollo fu dato dalla dimora in Napoli del principe ereditario, Vittorio Emanuele, al comando del corpo d'armata; perchè allora i giovani delle antiche famiglie borboniche si videro innanzi il dilemma: o farsi presentare al principe o rimanere esclusi da gran parte della vita della buona società; e i più, dopo qualche ondeggiamento, si risolsero pel primo partito, col consenso dei padri,

che, sebbene si tenessero in disparte, pure, per effetto di quella condiscendenza a cui erano stati indotti, in certa misura si sentirono disarmati e sempre più confinati a una negazione di pura forma. Similmente, in altri circoli e ritrovi, vecchi e giovani dell'una e dell'altra provenienza si mescolavano e legavano relazioni di dimestichezza e amicizia: come nella Società napoletana di storia patria, che aveva a capo un ex-garibaldino, il professor de Blasiis, e pur v'intervenivano molti borbonici, tra i quali il loro principale pubblicista e polemista, il duca di Castellaneta Francesco de Mari (1). E tra letterati e giornalisti d'ogni partito s'intratteneva e conversava il duca di Maddaloni Francesco Proto, che era romanziere e drammaturgo, ma soprattutto pungentissimo epigrammatico, e continuava a scoccare i suoi strali, intinti nel fiele del disprezzo, contro la nuova Italia e i suoi uomini. Quando un Andrea Guardati, un poetastro, diè fuori una rapsodia epica sulla storia della unificazione d'Italia, col titolo Da Novara al Quirinale, egli, con un sol dardo, infilzò il poetastro e la materia da lui scelta:

L'itala rivoltura, or triste or lieta,

canta in ottava rima Andrea Guardati:
ed a tanta epopea tanto poeta.

Molti di noi hanno, se non partecipato, assistito alle scenette di bonarî punzecchiamenti e motti di spirito tra tenaci ma non intrattabili borbonici e i loro amici di diversa e

(1) Autore, tra l'altro, dei seguenti opuscoli e volumi: Un défenseur de Gaëte (Paris, Dentu, 1861); Foglie d'autunno (Napoli, 1881); Lettere bavaresi (ivi, 1884); Il sogno della conciliazione (ivi, 1887). Altri suoi scritti sono inseriti nella rivista il Galiani (1872-84), e nel giornale l'Italia reale (1880-83).

più moderna fede, con reciproci rinfacci e arrabbiature, e con comuni cordiali risate.

Erano i naturali effetti della libertà, che, lasciando che ognuno dicesse quel che voleva dire, discioglieva e dissipava, con la disputa, con l' indifferenza e col riso, le cose che non possedevano intrinseca resistenza е virtù. La stessa libertà consentiva che si pubblicassero giornali apertamente legittimistici e borbonici, che gli affezionati leggevano, sebbene non leggessero solo quelli, e gli altri non leggevano, e solo per caso si avvedevano della loro esistenza. Per molti anni si ebbe la Discussione (credo, dal 1875 per circa un trentennio), e dal 1880 al 1883 l'Italia reale, diretta dal duca di Castellaneta, che aveva gran parte anche nel primo giornale, e il Vero Guelfo, dal 1885 fino al 1898, quando cangiò il titolo in Nuovo Guelfo, diretto prima da un avvocato Menzione e poi dal commendator Luigi Erasmo Gaeta, già ufficiale che aveva preso parte nel 1861 alla difesa di Messina col generale Fergola; più tardi, l' Indipendenza, e il Guelfo dell' Indipendenza del mezzogiorno, che era diretto dal commendator Montalto e si pubblicava ancora nel 1914: nel 1903, il Lacaldano fondò, e pubblicò per qualche anno, il Carlo III.

In questi giornali si può vedere in quali modi si attuasse l'opera, se opera si vuol chiamare, di quel partito, se partito si vuol chiamarlo. La principale fatica era la compilazione d' indirizzi al re e alla regina, in occasione dei loro onomastici e compleanni e in altre ricorrenze. Per esempio, nel 1892, per il cinquantesimosesto compleanno di Francesco II, il Vero Guelfo (1) pubblicava il ritratto del sovrano, coll'epigrafe: « Drappello quest'oggi, saremo legioni Doman, nelle pugne del Giusto

(1) A. VII, n. 12, 16-7 gennaio 1892.

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