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e adornata dei ritratti dello stesso commendator Gaeta, del maresciallo Gennaro Fergola, ultimo difensore di Messina, e dei sovrani e principi reali. C'era, in tutte codeste rievocazioni e recriminazioni retrospettive, costante la fissazione del tradimento di cui ministri e generali si sarebbero resi rei verso l'ultimo Borbone. Il Nuovo Guelfo proponeva, nel 1899, a contrasto del monumento disegnato pei martiri del 1799, una colonna infame con la dedica : « A Liborio RomanoAntonio Spinelli-Giuseppe Salvatore Pianell Alessandro Nunziante-che novelli Giuda Iscariota tradirono il loro re-ed assassinarono la Patria-ad immortalare l'esecrabile loro memoria i Napoletani eressero ».

Schizzavano veleni di sospetti e di calunnie codesti uomini e scrittori borbonici, assillati com'erano dal bisogno di ritrovare la cagione e riversare la colpa delle sventure sof ferte dal loro partito sulla cattiveria di questo e quell'individuo, per non esser costretti a riconoscere che la cagione e la colpa erano nell'intrinseco dello stesso sistema reazionario e retrivo. E perciò, nonostante le proteste di sconfinato amore alla dinastia e a quello che essa aveva rappresentato nella loro diletta patria napoletana, riuscivano fiacchi e incolori, quando dal negativo tentavano di passare al positivo, a commemorare le glorie dell' età borbonica, a descrivere la vita dei tempi belli. La storia, di cui essi parlavano, era, checchè essi dicessero, storia senza gloria e senza bellezza: salvochè nel primo periodo, nel settecento, quando appunto i Borboni di Napoli avevano proceduto d'accordo con la classe intellettuale del paese. Una qualche fantasia e poesia del rimpianto viveva forse nella plebe; e alla plebe, ai marinai di Santa Lucia, si è ispirato un poeta dialettale,

quando ha voluto ritrarre il memore affetto dei napoletani per re Ferdinando II (1).

Quanto a giudizi e concetti politici, quegli scrittori ne mancavano affatto, paghi di vituperare la « bordaglia cosmopolita o reclutata nelle galere » dei garibaldini e liberali, il << famelico Piemonte », il re di Sardegna « vampiro d'Italia», la « massonica falange », e di esaltare, in confronto, la tranquillità e lietezza di cui si godeva quando non c'era istruzione obbligatoria, non c'erano elezioni, non parlamento, non giornali, e si viveva nel « paradiso terrestre », senza << pensare al domani » ; e simili. I più gravi e ponderati condiscendevano ad ammettere, dopo trenta o quarant'anni d'indipendenza e di unità, che l'Italia potesse trovare il suo assetto in una federazione di stati italiani (2). Il buon duca della Regina, con la solita impeccabile cortesia e delicatezza di forme, uscì a dire un giorno a noi giovani, che lo ascoltavamo maravigliando: « Io non so se voi siate d'avviso che l'Italia debba costituirsi con due forti stati, l'uno del settentrione, l'altro del mezzogiorno: per me, penso invece che, tra questi due stati grandi convenga stendere come una broderie di minuti staterelli» (e, nel così dire, trapungeva nell'aria, con la mano inanellata, quel leggiadro ricamo del suo sogno). Del resto, la vacuità degli ideali che il loro partito professava, non rimase celata a molti borbonici, specie dopo il 1900, quando il Nuovo Guelfo prese a discutere del « partito legittimista e della sua riorganizzazione », e l'altro giornale, il Carlo III, disse chiaro che al partito mancava, e

(1) FERDINANDO RUSSO, 'O luciano d' 'o rre, poemetto in ottava rima (Lanciano, Carabba, 1911).

(2) Oltre le scritture dell'Ulloa. si citava con lode dai borbonici un opuscolo, П vero assetto d'Italia, di un cavalier REMER (Ginevra, 1881).

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bisognava dargli, un contenuto, e alla ricerca di un contenuto si mise, com'è naturale, senza trovarlo, chè quelle non sono cose che si cerchino.

Poco si sa, d'altra parte, dei pensieri e sentimenti e propositi che nutrivano i sovrani spodestati nei loro ritiri di Francia e di Baviera, perchè quelli che stavano loro ac. canto hanno serbato il silenzio intorno a questo punto; e, forse, non avevano nulla da raccontare, non potendosi dare informa. zione del nulla. La regina Maria Sofia sembra che fosse, conforme alla sua indole, di volta in volta disposta a folli speranze e non aliena da intrighi; e, certo, quel tale Insogna, biografo di Francesco II, era un suo agente, e venne in Italia nel 1904 con lettere dell'anarchico Malatesta a prendere accordi con anarchici italiani per liberare il Bresci, regicida di Umberto di Savoia, e fu fatto arrestare dal Giolitti, e dipoi espulso, ottenendosi al tempo stesso, per vie diplomatiche, che tanto l'imperatore d'Austria quanto il governo della Repubblica francese ammonissero Maria Sofia di starsene tran. quilla. Nelle lettere che Francesco II scriveva ai suoi amici e fedeli di Napoli si troveranno certamente tracce del suo modo di considerare il presente e l'avvenire; ma non credo che esse possano mai dire più di quanto io ho potuto leggere in quelle da lui scritte al duca di Castellaneta (1), e particolarmente nel carteggio che egli tenne con uno dei più serî e autorevoli di quei personaggi, il conte Guglielmo Ludolf, già ambasciatore suo e di suo padre (2).

Sono quasi sempre vaghe parole di speranza e più spesso

(1) Favoritemi dalla famiglia Castellaneta per mezzo dell'amico

avv. Lorenzo de Lorenzo.

(2) Queste lettere, con le altre carte dei Ludolf, furono affidate alla Società napoletana di Storia patria, nella cui biblioteca ora si serbano.

di rassegnazione e di malinconia. « Voi ben dite (scriveva al Ludolf da Parigi, il 3 febbraio dell'87), gli anni passano e noi passiamo con gli anni, senza vedere spuntare all'orizzonte la soluzione che reclamano gl'intricati fatti d'Europa ». << Ho ricevuto la vostra (gli scriveva nello stesso anno), e rilevo con piacere come, malgrado l' imperversar dei tempi e la cattiva sorte che sempre ci assiste, vostri sentimenti rimangano saldi e impavidi come scoglio contro il quale frangonsi tristi marosi ». << Se gli anni si seguono e non si somigliano (ripeteva il 31 decembre del '91), gli è perchè, applicando il detto popolare alla fase storica della presente società, l'anno seguente ha sempre superato il precedente in tristizia e falsità. Constatiamo il fatto senza rimontare alle origini, dove pochi forse potranno trovarsi che non abbiano da confessare una qualche mea culpa da parte loro, me non escluso. Intanto, vi son pur degli anni che si seguono e si somigliano, e voi il provate con la vostra voce amica e devota, che risuona in ogni occasione constantemente alle mie orecchie, come i vostri sentimenti si ripercuotono nel mio cuore ». Il 31 decembre del '93 sospirava: «Che Dio voglia fare uscire dal periodo di scuri trambusti, verso il quale ci avviciniamo, un altro periodo diverso di riparazione e di rettificazione dei torti subiti, accordando a tutti la forza di sopportare il primo e di ben utilizzarsi nel secondo ! ». E, poche settimane prima di morire, da Bad Kreuth, il 12 ottobre del '94: « Mi dite che la pazienza fa martire l'uomo: me lo spero bene per l'anima mia, ma non ci conto troppo, vista la nostra fragilità e delle cose umane cui ci poggiamo ».

Al duca di Castellaneta, il 30 marzo dell'82, aveva già scritto con tristezza, non scevra da un senso di cautela e di responsabilità: « Voi implorate da me un po' di luce per rischiarare le vostre tenebre. Questo è impossibile. Può far

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luce ad altri chi ha nelle mani una lucerna, ed anche a piccolo moccolo, come quelle che un tempo usavansi a Pompei; ma chi è nel buio assoluto, e non si muove per non dar di testa in fitta foresta contro alberi annosi o cespugli intrigati, e non può neppur alzare la sua voce nel solo intendimento di fare scorgere ove rattrovasi, lusingandosi che altri con qualche zolfanello accendesse una lanterna, pel gran timore che lo zolfanello gittato quindi per terra accendesse l'erba secca per primo, e la foresta tutta in séguito, dal che ne seguirebbe lo arrostimento del proprio individuo e dello ipotetico salvatore, deve contentarsi di vegetare nel buio anzicchè spegnersi in un incendio. Voi altri, che siete sulla palestra, una sola luce aver potete in oggi, e questa vi vienc tutta naturale da Chi presso la tomba di san Pietro era profetizzato col motto Lumen de caclo. Quella fiaccola non si spegne, e se anche, come sul finire delle tenebre nei giorni della prossima settimana santa, la candela si nasconde per poco dietro l'altare, non si spegne perciò, ma riappare intatta ». Dieci anni dopo, il 30 marzo del '92, allo stesso duca manifestava la sua sollecitudine pel giornale del partito, anche questo una luce languente: «È perfettamente vero esser mio desiderio che resti acceso, come voi avete felicemente detto, il fioco lumicino della Discussione; e voi, contribuen. dovi, mi renderete desiderato servigio, di che vi sarò immen. samente grato, del pari che a tutti gli altri i quali in qualunque modo si coopereranno allo stesso oggetto. Che sia poi un lumicino e non una fiaccola, pur che non si spenga, è già qualche cosa nella deficienza dei mezzi e nel disagio politico, intellettuale e morale, in che ora ci dibattiamo con piena confusione d'idee e di principi. Non credo, intanto, inopportuno ripetere qui quello che ho fatto sempre incul care ai direttori del detto giornale, che, per farmi cosa grata

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