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Accenna però rilevarsi il significato di questo colore dal canto XX del Purgatorio di Dante, che io qui riporto, ove Ugo Ciapella (verso 53) dice:

Quando li regi antichi venner meno

Tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi.

Molti commentatori intendono per monaco. Il Muzio si sarà affratellato a qualche ordine religioso, portandone le insegne col vestire bigio, forse colore di quell' ordine, a cui si sarà ascritto per divozione, come fanno alcune persone del secolo di ambidue i sessi e come le pizzocchere, e quelle donne, che si chiamano qui in Istria volgarmente chietine (').

Egli non cessò di pubblicare nuove e interessanti opere, cioè in Roma nel 1569 il Cavaliero, e nel seguente 1570 in Venezia il Coro pontificale, e l'Istoria sacra. Con quest' opera fu il primo fra tutti gl' Italiani che intraprendesse a confutare le Centuric magdeburgensi, il cui autore principale, come ho detto, fu Malleo Flacio da Albona, il più celebre teologo luterano di quel tempo. È singolare però l' osservazione che il primo che si oppose a questo celebre istriano fu appunto un altro celebre istriano.

Nel 1571 si ritrovò in Venezia più mesi per dare alle stampe varie sue opere, e da quella città sono scritte varie sue lettere. Stampò in esse gli Avvertimenti morali, le Lettere cattoliche, e nel 1572 la Selva odorifera, che contiene undici trattati.

Passava il Muzio in Roma una vita sufficientemente comoda colla pensione pontificia, ma la fortuna, sempre per lui matrigna, cessò di favorirlo, mentre, dopo il corso di sei anni, la di lui prosperità venne improvvisamente troncata per la morte del pontefice Pio V. di lui benefattore, seguita nel 1572, per cui mancando al Muzio il suo protettore e la sua pensione, sospesa dal successore Gregorio XIII, ricadde nuovamente in quella povertà, dalla quale non s'era potuto sottrarre al servigio di tanti principi. A questo proposito dice lo Zeno (Note al Fontanini T. 1. p. 191) che verso un letterato così benemerito e dotto a tutt' altro doveasi aver riguardo da quel pontefice, che ad un meschino risparmio, levando la provvisione al Muzio, la quale era il di lui onesto e principale sostentamento.

Nel 1573 (Lett. p. 206) scrisse al duca di Savoja Emanuele Filiberto (2) dicendogli di avere altre volte, ma inutilmente, cercato di andare a'servizî di quella Corte, ed ora ne faceva nuove istanze, e diceva che aveva preparate varie cose per lo stabilimento di S. Lazzaro, e che in meno di tre mesi gli darebbe ogni cosa in ordine da andare alle stampe quantunque così vecchio e fiacco egli fosse; e gli rappresentava che la sua età di 77 anni aveva bisogno di molte comodità, e richiedeva maggiori soccorsi; incominciando la lettera col dire: «Gran disgrazia è stata la mia in cin«quantaquattro anni di servitù non aver potuto acquistar cinquantaquattro quattrini «di entrata ferma.»

(1) Leggi cetine.

(E.)

(2) Emanuele Filiberto (1523-1580) detto Testa di ferro, fu principe valoroso, splendido, popolarissimo. É riputato il nuovo fondatore della monarchia di Savoja. S' illustrò all'assedio di Metz (1552), vinse la battaglia di S. Quintino contro i Francesi (1557). Str. c Tr.

(E.)

Sembra però ch' egli non ottenesse il suo intento, mentre troviamo datate da Roma moltissime sue lettere dell' anno 1574, e pare che in quella capitale allora avesse qualche servizio presso il cardinale Ferdinando dei Medici (').

Frattanto questo benemerito vecchio, questo celebre letterato, questo campione della chiesa, questo fedele servitore di tanti principi lo vediamo abbandonato dai letterati, dai principi, dalla chiesa, e gemente nella povertà, e nelle angoscie, lo vediamo costretto a gettarsi in seno dell' amicizia, ricovrandosi presso il suo cordiale amico Lodovico Capponi alla Paneretta, villa posta in Val d' Usa tre miglia distante da Firenze verso Siena, (2) colà onorevolmente invitato dal medesimo; ed infatti dalla Paneretta abbiamo più lettere segnate nei mesi di novembre e decembre 1574 al duca di Bracciano, al gran duca di Toscana, e ad altri illustri personaggi.

Nè si ritenga che questa ospitalità dell' amico Capponi fosse una semplice generosità, o commiserazione, come ha creduto il Fontanini; chè anzi fu dessa una personale riconoscenza, mentre in uno spinosissimo ed implicato affare, che si agitava ai tribunali di Roma e di Firenze, ed in cui il Capponi era in pericolo di perdere la libertà, la riputazione, e forse la vita, il Muzio col consiglio, e colle scritture ne prese la difesa, ed operò in maniera che l'amico ne riuscì con salvezza ed onore, come dice lo Zeno (Let., 877) rilevarsi da più lettere del Muzio inedite. Di questa circostanza parla egli stesso nella dedica al Capponi delle di lui Lettere in data 24 ottobre 1575 dalla Paneretta, le quali furono stampate dopo la di lui morte in Firenze nel 1590.

Nello stesso anno 1575 pubblicò in Venezia il Gentiluomo, ultimo suo scritto dato alla luce in vita, mentre le altre di lui opere furono in parte stampate dopo la di lui morte, ed in parte rimasero inedite, delle quali parlerò nell' annesso catalogo.

La sfortuna di questo benemerito vecchio non stanca a perseguitarlo l'intiero corso di sua vita, circuendolo colla povertà e colle angustie, volle eziandio amareggiarne la vecchiezza; ed acerbamente inseguirlo negli ultimi suoi giorni, e condurlo alla tomba; mentre lo Zeno ci racconta (Lett. 825), che il cardinale Ferdinando dei Medici, il quale fu poscia granduca, scrisse ai 28 decembre 1575 al Muzio, già ottuagenario una lettera, ch'è inedita, con termini cosi forti, per non dir fieri ed offensivi, che ne rimase mortalmente trafitto, e per passione condotto a morte, seguita nell' anno 1576 alla Paneretta in età di anni ottantauno, ed ebbe onorevole sepoltura nella chiesa di San Ruffiniano con l'epitafio recitato dal canonico Salvini (Fontanini Bibl. T. 1. p. 45 ediz. di Parma 1803).

La morte del Muzio, (Lett. 832) fu generalmente compianta in Italia, e fra gli altri Girolamo Catena gli fece un epigramma: In obitum Hieron. Mutii Justinopolitani, stampato nelle di lui opere latine pag. 35 in Pavia 1577. Di lui fanno onorevole menzione il Domenichi nel Ragionamento intorno le Imprese; ed Ortensio Landi, milanese, nel panegirico della Marchesana di Gonzaga. Il Dome

(1) Ferdinando I dei Medici (1549-1609) svesti la porpora e sposò Maria di Lorena. Fu fondatore della felicità di Livorno, protesse le arti, le scienze, prosciugò paludi e rimise in vigore le leggi poste in oblio. Str. e Tr. (E.) (2) La Paneretta, S. Ruffiniano, dove il Muzio fu sepolto, e Ceperello sono luoghi fra loro vicini. Vedi L' Unione cr. cap. VII, 1. (E.)

nichi ha introdotto il Muzio a ragionare ne' suoi Dialoghi, ed in quelli di Lucio Paolo Rosello tiene il primo luogo, come pure Lodovico Agostini, gentiluomo pesarese, lo ha introdotto nelle sue Giornate soriane, opera inedita, ma degna di essere pubblicata (Zeno Lett. 828). Finalmente il pontefice Benedetto XIV nel breve 22 decembre 1753 diretto al senatore Flaminio Corner (Eccles. Venet. T. XVIII) ne fa cenno con lode. Ippolito Chizzuola, bresciano, per le insinuazioni del Muzio rinunziò all'apostasia, e confutó poscia gli errori, che prima aveva professato.

Per continuare ad esporre qual opinione avessero i più celebri scrittori del nostro Muzio, dirò: Il Varchi (Muz. Battagl. p. 35), quantunque fosse in guerra letteraria con lui per la lingua italiana, pure, lui vivente, ne fa onorata menzione, dicendo: «lo ho il Muzio per huomo non solamente dotto et eloquente, ma leale, <«che appresso me molto maggiormente importa: e credo, che egli dicesse tutto <quello, che egli credeva sinceramente,»

Lo Zeno (Lett. 816) dice che dal 1550 sino alla sua morte la occupazione del Muzio non fu che la pietà, e la religione, che servi varii principi, ed a tutti parlð da cristiano, e non mori da cortigiano; che i suoi libri, e le sue lettere sono irrefragabili testimonî.

Il Tiraboschi (Lett. Ital. lib. II. cap. 1. num. XXXIV) dice che il Muzio cortigiano insieme e teologo fu uno degli uomini più laboriosi che al suo secolo fiorissero, ma poco felice nel ritrarre da' suoi studî quel frutto, che parea loro doversi: ed al n.o xxxv che co' suoi opuscoli contro gli eretici veniva a scoprire gl'inganni e le frodi con cui i novatori seducevano gl' incauti, e confermava con ciò i cattolici nella fede; e che nelle sue opere non era un profondo teologo, ma un robusto ed accorto guerriero, che sapeva usare saggiamente quelle armi, che la buona causa gli somministrava, scoprendo le imposture e gl'inganni de' suoi avversarî, gl' inseguiva e gl'incalzava con forza, ed avvalorava le ragioni e gli argomenti coll'eloquenza e che non poco giovarono cotali libri a prevenire singolarmente il rozzo ed incauto volgo, da non si lasciar sedurre dal fascino delle nuove opinioni.

Il Ginguenè (Stor. della Letterat. Ital. T. xI, XII) dice, che il Muzio fu al suo tempo assai stimato ed autorevole, scrittore fecondo, poeta, filologo, moralista, teologo, zelante controversista; che il suo ingegno era acconcio ad ogni maniera di dottrina, «e di studj (p. 112): «che vedevasi per ogni dove in Italia, in Allemagna, in Francia <<prendere parte ai negozj politici, militari, religiosi, pubblici e privati, e per tal modo «menò sempre una vita operosa ed inquieta, trovandosi, come dice egli stesso, sempre <a cavallo e che ad onta del suo ingegno, della sua attività, e de' suoi servigi non «potè mai uscire dalla miseria . . . . il che torna a gran vergogna de' suoi protettori, «ed è un grand' esempio per quelli che ambiscono siffatte protezioni (pagina 113). «E reca stupore che fra tante distrazioni e tanti bisogni abbia potuto proseguire «negli studj, e dare alla luce un si gran numero di scritture tutte di genere si diChe però in alcuni suoi dettati scusò il Duello, e portò questo spirito <cavalleresco nelle controversie teologiche, ed anche nelle discussioni letterarie <<(p. 114): che i suoi costumi non erano altrettanto severi, quanto le sue conclusioni morali:» e che se al Belli apostata, che aveva preso moglie, a' suoi compagni fossero arrivati quei versi nei quali giustifica il concubinato (Lett. poet. lib. I. pag. 109) l'avrebbero potuto ribattere co' suoi stessi principî (p. 116).

<verso

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È ben singolare che i compilatori del Dizionario Universale Biografico, che si stampa a Parigi, abbiano ommesso di nominare questo grande istriano, che non potevano ignorare, trovandosi nel Dizionario dell' Advocat, edizione di Bassano 1766 un breve ma succoso articolo, ed avendone digià parlato a lungo il Ginguenè nella sua opera, che si stampò recentemente a Parigi, e perchè inoltre il Muzio al suo tempo fu celebratissimo in Francia. Aggiungerò in fine, ciò che osserva lo Zeno alle note del Fontanini, il grave abbaglio preso dai compilatori del Catalogo della biblioteca del re di Francia, ove il Muzio invece del Betti è annoverato tra gli scrittori eretici (Zeno, Note al Font. T. 1. p. 487) (').

TULLIA D'ARAGONA
ISPIRATRICE DEL MUZIO

Con giudizio più pacato scrive oggi cosi il signor Edoardo Magliani di questa celebre donna, di fervido sangue meridionale, nella sua pubblicazione: Letteratura femminile del mezzodi d'Italia:

Dopo Maria d'Aragona, ispiratrice di Luigi Tansillo. . . . Tullia d'Aragona, la quale forse, non fu nemmeno una discendente di questa casa.

Nacque da Pietro Tagliavia d' Aragona, arcivescovo di Palermo, e da una tal Giulia, detta la più bella donna di Ferrara; ed alcuni vogliono che sua patria sia stata Napoli, altri Roma, ed altri ancora Palermo. Poetessa e scrittrice non mediocre del suo tempo, e però non quella che i suoi contemporanei decantarono come il sole della poesia, come la vera erede del nome e dell' eloquenza di Tullia, ecc., dovette la sua fama sopratutto alle grazie ed alle seduzioni irresistibili della sua bellezza, alla sua vita intessuta di strane avventure. Come un'etèra antica affascinava con gli sguardi, come col canto e col suono, in cui spesso improvvisava poesie ed era valentissima: donde, al dire dello Zilioli, quello sciame infinito di adoratori che, a guisa di veltri affamati, la seguitavano a colpi di sonetti e di canzoni . .

Tullia d'Aragona fu ambiziosa oltremodo e preferi la corte dei più insigni uomini del tempo, ai quali, non chiedendo essa altra mercede de' suoi favori che la fama, fu primo e gradito obbligo levar alle stelle pregi e difetti suoi, virtù che non aveva e colpe diventate in lei virtù.

Volgeva quell'epoca, decimo quinto e decimo sesto secolo, in cui ferveva l'apoteosi femminile e tutta Italia fu piena di ampollosi e strani elogiatori del bel sesso, i quali, però, con le loro lodi enfatiche e cortigianesche non hanno potuto interamente oscurare le vere glorie dell'ingegno femminile!

(1) Notizie riguardanti il Muzio si leggono pure nell'Unione cron. cap. an. VI, e sono del prof. Arturo Pasdera di Capodistria.

(E.)

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Furono corteggiatori, amanti e poeti di Tullia di Aragona il Molza ('), il Varchi (2): il cardinale de' Medici (3), il Camillo, il Bentivoglio (1), l'Arrighi, il Benucci, Filippo Strozzi (5) e principalmente Girolamo Muzio, Bernardo Tasso ("), che la conobbe a Venezia e per lei prolungò la sua dimora in questa città, e Pietro Mannelli: tra i quali tutti, malgrado l'avvicendarsi delle fortune e delle preferenze, essa, con mirabile sagacia, sapeva mantenere la più perfetta con ordia. Sicchè mai un cartello di sfida od uno scandalo qualsiasi occorse fra quella gente pacifica; ed anzi Giulio Camillo, forse messo alla porta, chiedeva solo di poter seguire le insegne amorose di Tullia, ed il Muzio, il più fortunato adoratore di Tullia, scriveva nella sua egloga Tirrenia, che ogni pastore, che conosceva quella vaga ninfa, non solo l'amava, ma desiderava che ogni mortale l'amasse . . . Gran bontà di quei pastori!

Il suo carattere di scrittrice, come il suo carattere di donna, offre qualche lato curioso; essa menava una vita scapigliata e le doleva di vedere che molti libri, i quali allettavano le donne, fossero pieni di oscenità; si proponeva di scrivere con Guerrino il Meschino quasi un sacro poema e se ne pentiva subito, nel canto X., narrando gli amori di Pacifero.

Contraddizioni queste nel carattere, che rivelano certe contraddizioni intime nell'animo stesso e nella vita; contraddizioni che potrebbero spiegare, perchè, mentre muore, cortigiana, a Roma essa dona gran parte del suo avere ad un convento di suore.

Tullia d'Aragona visse, sempre corteggiata, anche a Firenze, a Venezia ed a Roma, dove non potè sfuggire alla satira di Pasquino, il quale compose su di lei un capitolo satirico intitolato :

Passione d'amor di maestro Pasquino per la partita della signora Tullia, e martello grande delle povere cortigiane di Roma con le allegrezze delle bolognesi. Mori Tullia prima di giugnere alla vecchiezza, ma non in tempo per- non vedersi abbandonata dagli amici e dalla fortuna.

(1) Molza Franc. Maria (1489-1544) modenese. Pocta petrarchesco, compose eleganti elegic, novelle e capitoli berneschi. Fu grande amico di Annibal Caro. Str. e Tr. (E.) (3) Medici Ippolito di Urbino, cardinale (1511 - 1535), bastardo di Medici Giuliano duca di Nemours. Fu l'anima delle congiure tramate contro suo cugino Alessandro de' Medici duca di Firenze (1510-1537), il quale lo fece avvelenare. Lasciò una lodata traduzione in versi sciolti dell'Eneide, e protesse i letterati. Id. (E.)

(2) Varchi Benedetto (1502-1565) fiorentino. Nemico acerrimo dei Medici fu esiliato; ma si lasciò vincere dalle offerte benevole di Cosimo I, che avendolo in molta estimazione lo incaricò di scrivere la Storia di Firenze, nella quale si mostra parziale ai Medici, perchè veramente costretto dalle loro minaccie. Oltre la Storia di Firenze, lasciò l'Ercolano dialogo sulle lingue una commedia La suocera, poi lezioni, orazioni, poesie e traduzioni. Id. (E.) (4) Bentivoglio Ercole (1506-1573) bolognese, visse alla corte di Ferrara. Compose commedie, sonetti, egloghe e satire, emulando in quest'ultime l'Ariosto. Id. (E.) (5) Strozzi Filippo Giov. Batt. (1488-1538) fiorentino. Avversò il dispotismo, e benchè non amante del governo popolare, si associò agli sforzi dei patriotti che ristabilirono la repubblica in Firenze nel 1527 Fece professione di buone lettere, specialmente delle greche e latine. Mori in carcere, lasciando scritto sulla parete: Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor. V. Vita di Filippo Strozzi nella tragedia omonima di G. B. Niccolini. Firenze, F. Le Monnier, 1844. (E.) (6) Tasso Bernardo (1493-1569) bergamasco, fu padre di Torquato Tasso (1544-1595). Scrisse un poema in cento canti (L'Amadigi), un altro in diecinove (Floridante), e poi rime, egloghe, elegie, selve, inni, odi ecc. Str. e Tr. (E.)

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