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<... .. questo cielo

di me s'imprenta com'io fei di lui; Ché piú non arse la figlia di Belo, noiando ed a Sicheo ed a Creusa,

di me, in fin che si convenne al pelo? »

L'aver per avventura attinto ad altre fonti non può escludere che Dante abbia conosciuto le biografie; né, conoscendole, doveva attenersi soltanto ed esse; anzi, meno ad esse che alla tradizione e alla opinione comune, e, sovra tutto, al proprio sentimento e alle ragioni dell'arte. Le quali naturalmente suggerivano di mettere i poeti d'amore nella settima cornice del Purgatorio o nel terzo cielo; e, accanto a Guido Guinizelli, il « miglior fabbro del parlar materno», e, tra Cunizza da Romano e la meretrice di Gerico, il trovatore e arcivescovo Folchetto.

Una notizia che Dante non avrebbe potuto attingere dalle biografie provenzali è quella della morte violenta di Sordello. Ma la falsa notizia di tale morte non fu forse posteriore all'episodio dantesco e suggerita dall'episodio medesimo, ritenendo che Sordello appartenesse alla schiera de' morti per forza? Io non intendo di occuparmi della questione se il posto di Sordello è fra i príncipi della valletta, come crede il Parodi, o tra i morti per forza, come opina il Torraca. Constato che Dante non lo mette propriamente né con gli uni, né con gli altri, e colloca a sé la figura solitaria e sdegnosa del trovator mantovano; e il Poeta obbedisce a una necessità o a un consiglio dell'arte, quando assegna a Sordello da Goito l'officio di guidar Virgilio e Dante nella valletta, quasi li introducesse, esso il trovatore, nella corte de' prín cipi.

Tutto ciò che, in accordo o in disaccordó con le biografie provenzali, leggiamo nella Divina Commedia non può provare che Dante le conoscesse o no; soprattutto perché non par ragionevole subordinare le esigenze dell'arte a coteste fonti pseudo-storiche. Il Poeta si li mita ad accenni generici e tradizionali, pe' quali non aveva bisogno di servirsi di determinate fonti scritte e saremmo sempre tratti in inganno quando avessimo la pretesa di scovarle. Del resto, su quelle notizie tradizionali, il Poeta crea, secondo il proprio sentimento e la propria idea artistica, le figure di Bertran de Born, di Sordello da Goito, di Arnaldo Daniello, di Folchetto da Marsiglia, che, per essere crea

zioni poetiche, non hanno quasi piú niente di comune con la personalità storica di detti trovatori.

Altra cosa ha da essere per ciò che Dante dice nel De Vulgari Eloquentia, che è un'opera di dottrina. E fermiamoci su due punti: 1.o Dante cita fra i più antichi trovatori Pietro d'Alvernia, ma non nomina nessuno degli altri << antiquiores doctores»; 2.° dice spagnuolo il trovatore Aimeric de Belenoi, il quale « si fo de Bordels, d'un castel que a nom Le

sparra ».

Che Pietro d'Alvernia fosse stato uno de' piú antichi trovatori, Dante poteva dedurlo proprio dalla biografia scritta da Uc di Saint Circ: << fo lo premiers bon trobaire que fo outra mon et aquel que fetz los melhors sons de vers que anc fosson faich ». Ma Dante cita « alii antiquiores doctores », quiores doctores », e si trova in contraddizione col biografo, se attribuiamo alla parola << doctor >> un significato di eccellenza, come si ha, per esempio, nel « doctor de trobar » usato da Alfonso X. Se non che la parola « doctor >> non ha pure un significato e nel latino medievale e nella lingua provenzale, dove già si trova nel Boecis (« de sapiencia l'apellaven doctor »). Dante, nel De Vulgari Eloquentia, l'usa nel senso che ha il vocabolo « dicitore » nella Vita Nuova e nel Convivio. Può darsi che alla parola « doctor » usata con significato cosí particolare nel De Vulgari Eloquentia sia annessa l'idea d'un certo grado di eccellenza, per una specie di contaminazione col « doctor » proven. zale; ma osserviamo che Dante, quando vuol proprio parlare degli eccellenti poeti, dice <<< illustres doctores » (De Vulg. Eloq., I, XV, XIX). E doveva pensare anche scrivendo il De Vulgari Eloquentia che, fra gli « antiquiores doctores », molti avevano avuto fama di saper dire, perché erano stati quasi « li primi ». Ond'è che la frase dantesca « ut puta Petrus de Alvernia, et alii antiquiores doctores» non è poi tanto in disaccordo col biografo, perocché il fatto stesso di nominar Pietro d'Alvernia, e soltanto lui, prova che Dante lo stimava appunto il migliore fra gli antichi. E che altri l'avessero preceduto dice i biografo stesso, affermando che Pietro << fetz los melhors sons de vers que anc fosson faich ».

La fama di Pietro d'Alvernia non era consacrata soltanto dalla biografia e aveva a essere assai divulgata in Italia come in Provenza.

Peire d'Alvernhe a tal votz quel chant cum granolh'en potz, e lauza's trop a tota gen; pero maistres es de totz,

ab qu'un pauc esclarzis sos motz, qu'a penas nulhs hom los enten.

Col suo nome cominciavano i canzonieri provenzali, prima che cotesto onore avesse a toccare a Giraut de Bornelh e, qualche volta, a Folchetto da Marsiglia. E se Dante lo cita come esempio d'antico trovatore per dimostrare che i « vulgares eloquentes primitus poetati sunt » in lingua d'oc, dobbiamo pensare che non aveva notizie cronologiche troppo precise intorno ai trovatori, e che forse non faceva altro se non seguire una opinione divulgata intorno all'antichità di Peire d'Alvernhe. Il Petrarca, nel Trionfo d'Amore (III), ricorda Bernardo di Ventadorn (altri legge Bertrando) e Giaufré Rudel, ma innanzi ha citato il « vecchio Pier d'Alvernia ». E forse il Petrarca ricorda Dante, quando assegna il primo posto fra i trovatori ad Arnaldo Daniello; ma piú difficile è supporre che a dare l'appellativo di «< vecchio » a Pietro d'Alvernia, e ad anteporlo a Jaufré Rudel, abbia potuto indurlo il passo dantesco del De Vulgari Eloquentia.

Per ciò che riguarda Aimeric de Belenoi conviene ricordare le parole di Dante (De Vulg. Eloq. II, XII) : « quaedam stantia est quae solis endecasyllabis gaudet esse contexta, ut illa Guidonis de Florentia :

Donna mi prega, perch' io voglia dire.

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realtà Dante aveva detto (De Vulg. Eloq. I, VIII): << Totum autem quod in Europa restat ab istis tertium tenuit idioma, licet nunc trifarium videatur. Nam alii oc, alii oil, alii sí, affirmando loquuntur; ut puta Hispani, Franci et Latini ». Certo qui, sotto il nome di Hispani, sono compresi anche i Provinciales; e non si tratta d'un artifizio usato da Dante per far corrispondere i tre volgari alle tre regioni d'Europa che gli restavano da nominare; ma sí d'una divisione e nominazione che a Dante e agli altri aveva a parere giustificata e legit tima. Le relazioni etniche, politiche e culturali fra le regioni di qua e di là dai Pirenei erano tali che poteva bene il nome storico di Hispani estendersi ai Provenzali. La Provenza, per secoli, fino alla crociata bandita da Innocenzo III contro gli Albigesi, era stata assai piú strettamente unita alla Spagna che non alla Gallia settentrionale. E in quella crociata era morto, in difesa della Provenza, il buon re Pietro di Aragona, che « fo si malamen e nafratz e ferutz que per meia la terra s'es lo sancs espandutz ». Né, dopo, i vincoli tra Provenzali e Spagnuoli si sciolsero del tutto. Morto il «< reis n'Anfos » e «< sos bels fils plazens, cortes e bos » e il reis Peire, de cui fou Aragos» ed « en Diegos, qu'era savis e pros », la Spagna ebbe altri protettori della poesia provenzale ; un altro Alfonso di Castiglia, alla cui corte trovava ospitalità anche il genovese Bonifazio Calvi; e un altro Pietro d'Aragona, che forse dava asilo a un altro trovatore italiano, se tal nome merita il pistoiese Paolo Lanfranchi. Giraut Riquier, che fu anch'esso, intorno al 1283, alla corte di Pietro III d'Aragona, cantava nel 1270:

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Giornale dantesco, anno XXVI, quad. I.

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che, come gli Italiani o Latini (ha citato innanzi Guido Cavalcanti e sé stesso), cosí anche gli Hispani usarono stanze di tutti endecasillabi e se negli Hispani non comprendesse i Provenzali, verrebbe a escludere costoro da un siffatto uso, o a tacere, contro ogni ragione, di essi, per dire invece solo degli Spagnuoli che avevano poetato in lingua d'oc. Ma il citare come esempio Aimeric de Belenoi, e non un vero catalano, anzi che permetterci un'accusa d'ignoranza o d'errore, è una prova del significato che Dante aveva dato, e conserva anche in questo luogo, al nome Hispani.

E veniamo alle razos.

Il Rajna volle derivato il disegno della Vita Nova dalle razos provenzali, e, « in particolar modo, dalla biografia florilegio di Bertran de Born »; non solo perché gli potesse parere « un esempio piú significativo di razos e poesie legate da un filo unico »; ma perché ivi, come nella Vita Nova, le poesie sono riportate interamente. Ma le razos contenute ne' mss. F, I, K non costituiscono una narrazione continuata e non hanno neppure un ordinamento cronologico; raccontano di discordie e di guerre, e non d'amore, e si riferiscono alle poesie de' due Bertran de Born. Il solo legame che unisca queste razos è qualche richiamo alle cose narrate precedentemente e ciò dà forse l'illusione d'una certa continuità e testimonia che, se non

tutte, quasi tutte le razos sono opera d' un me desimo autore.

Vi sono dunque profonde discordanze tra la Vita Nova e la razos di B. de Born, e il Rajna è andato troppo oltre, asserendo che proprio queste razos poterono servire di modello a Dante. È un fatto però che, tra quante ne possediamo, esse si avvicinano di piú nel loro complesso, e per certi caratteri, al disegno del libello dan tesco, permettendo di supporre: 1° che non era impossibile trovar delle razos composte da un solo autore intorno a un gruppo di poesie, in modo da dare alla narrazione una certa continuità o un'apparenza di continuità; 2° che non sempre si riportava soltanto il capoverso o la prima strofe delle poesie.

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NEGLI ULTIMI ANNI DI DANTE

Il recente studio di G. Biscaro, sebbene intitolato Dante a Ravenna, è una storia, ricca d' informazioni, di tutte quelle vicende in mezzo alle quali il Poeta si trovò, più o meno direttamente travolto, dal 1317 in poi. Punto di partenza di tutto il lavoro è una vaga ipotesi del Cipolla. «È un fatto che desta meraviglia

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scriveva il compianto storico il vedere che nei suoi ultimi anni l'Alighieri preferisce la corte del da Polenta a quella degli Scaligeri. Se l'operetta De aqua et terra è autentica, di sfuggita ritornò Dante a Verona nel 1320, ma non trovò presso colui di cui furono mirabili le opere in guerra, i conforti di un tempo. Può chiedersi se la fierezza ghibellina dell'atteggiamento assunto dallo Scaligero abbia provocato il disgusto dello sdegnoso poeta ». 2-Ma il Biscaro, dopo aver ricostruito con severa conoscenza di dati e diligente esplorazione di fonti, la storia dei processi con cui Giovanni XXII intese punire Matteo Visconti, Cangrande della Scala, e Passarino dei Bonacolsi, che osavano ancora arrogarsi i titoli di vicari imperiali, malgrado che Innocenzo III avesse sancito che, morto l'imperatore, potestatem et iurisdictionem talem exercet, dignitate vacante, ille a quo istud habebat, cioè il pontefice; avanza vaga ipotesi. È da principio cosí concorde l'atteggiamento dei tre signori al cospetto delle minacce papali e dei legati pontifici, da far pensare ad un comune ordine d' idee << sviluppate da alcuni personaggi, fiduciarî di Cangrande e di Passarino » (pag. 10). E poiché le

una

1 G. BISCARO, Dante a Ravenna (Bull. dell'Istituto storico it.. N. 41, pag. 1-142).

2 C. CIPOLLA, Lettere di Giovanni XXII riguardanti Verona e gli Scaligeri, Verona, 1907; vedi anche del CIPOLLA in Giorn. stor. d. lett. it., t. 53, pag. 365.

idee non potevano essere che quelle della Monarchia, chi vieta di pensare che nel novero dei consultori sia stato l'Alighieri, e che il famoso trattato dantesco « sia stato scritto dopo la costituzione del 31 marzo 1317, per offrire a Cangrande e a Passarino, in una breve e chiara sintesi, l'idea madre alla quale avrebbero dovuto ispirarsi nel loro atteggiamento di deciso diniego?» Tutto è possibile pensare e dire; ma troppo solide sono le ragioni di quanti ripor tano la composizione, se non la genesi, del trattato a quegli anni in cui l'animo di Dante vide sorgere, come una promessa radiosa per l'avvenire e come una rivendicazione fatale del passato, l'astro d'Arrigo. La Monarchia è, << nel tempo stesso, la teoria, la profezia, l'utopia dell' impresa imperiale d'Arrigo VII ». 2 Su che cosa basa invece la sua ipotesi il Biscaro? In una probabile concomitanza d'idee, tra gli atti dei vicarî imperiali e gli argomenti della Monarchia. Ma un trattato scritto per convalidare la sovranità di quel signore, da cui essi avevano attinto autorità di vicarî, mentre erano impegnati in una lotta contro un pontefice, il quale ribadiva il motto d' Innocenzo III imperator

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Per un'ampia esposizione della questione rimando una volta per sempre, all'opera di N. VIANELLO. Il trattato della Monarchia di Dante A. Genova, 1921, pag. 1921, pag. 47-51, ove si leggerà anche un'ampia ed esauriente bibliografia.

2 Vedi PARODI, La Monarchia nel Dante (Sua vita, Sue opere, ecc. ecc.) edito dal Treves, pag. 89. Del Parodi oltre gli scritti che verremo espressamente citando, si vedano a tale proposito La data della composizione e le teorie politiche dell'Impero in Poesia e storia nella « Divina Commedia », Napoli, Perrella, 1921, rispettivament e apag. 365 e sgg., 513 e sgg.; ed anche del Concetto dell'Impero in Dante e del suo averroismo, in Bull. d. Soc. dant. italiana, vol. XXVI, f. 4. N. S.

Tale

ab Ecclesia recipit gladii potestatem et imperiales infulas non poteva essere ignorato né da Cangrande, né dagli altri, specialmente quando Dante era ospite dello Scaligero a Verona. In tutti i modi, per rinunciare alle solide ragioni di quanti riportano la composizione della Monarchia all'impresa d'Arrigo VII, è necessario la convinzione di argomenti sicuri, altrettanto fondati, non già la possibilità di una congettura tanto vaga ed incerta. Tuttavia l'ipotesi non è nuova, ma dovrebbe essere come dire? - rinnovata, ringiovanita, ribadita dagli argomenti del B. Fu il Prof. Grauert ad opinare che il trattato iniziato nel 1302, dopo la bolla bonifaziana Unam sanctam, sia stato ripreso e compiuto verso il 1317, in seguito alla bolla In nostram et fratrum di Giovanni XXII. congettura, cui fece buon viso V. Cian, 2 fu portata alle sue estreme conseguenze dal Kraus e da N. Zingarelli, il quale ultimo anzi pensò, addirittura, che il trattato possa essere stato composto dopo il 1318, presso la corte di Cangrande della Scala. « Quando Ludovico il Bavaro si apprestò a discendere in Italia non come messo del Pontefice, ma vindice dell' Impero, allora parole dello Zingarelli! - ci dicono il Boccaccio ed altri, e questi lo potevan sapere, fu letta e discussa e celebrata la Monarchia e con ciò non s'esumava un'opera di altri tempi, inspirata da condizioni differenti, ma si citava l'ultima, la più fresca, scritta appunto quando, eletto Ludovico il Bavaro, era impedito dall'arroganza papale ». Sorge, qui, spontanea una domanda: Poteva considerarsi vecchia un'opera scritta qualche anno prima, durante un'impresa di cui ancora vivo era il ricordo e la dolorosa esperienza, in tutti i ghibellini che sentivano ancora presenti quelle stesse

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1 HERMAN GRAUERT, Dante und die Idee des Weltfriedens, München, 1909. Per questa, come per l'opera del KAMPERS, Dantes Kaisertraum, Breslau, R. P. Aderholz Buchhandlung, 1908, vedi le sagaci osservazioni del PARODI nell'articolo Sulla data del de Monarchia e contro l'identificazione del Veltro (Bull. d. Soc. Dant. Ital. N. S., vol. XVI, pag. 285296). Vedi anche A. D'ANCONA, Sulla data di composizione del De Mon.' in Scritti Danteschi, Firenze, Sansoni, pag. 360.

2 Bull. soc. dant. V, 136.

3 N. ZINGARELLI, Dante, Milano, Vallardi, pag. 421 e sgg. (Storia d. lett.). Vedi anche, dello stesso, Compendio della Vita di Dante, Milano, Vallardi, 1905, pag. 236.

condizioni ideali, quella stessa temperie di odi, di difficoltà, quello stesso peso d'argomenti branditi dalle autorità pontificali nei primi tre lustri del secolo?

E poi non ha ora dimostrato il Biscaro, nel suo diligente lavoro, che gli argomenti con cui Giovanni XXII cercava di annientare le pretese dei vicarî imperiali erano quelli stessi addotti dai suoi predecessori, che, come Bonifazio VIII e Clemente V, avevano agitato la stessa questione: indizio, quindi, d' identiche condizioni spirituali, che confermavano direi con una brutta parola l'attualità del trattato dantesco? Ma non è questo il solo argomento di N. Zingarelli. Egli, a pag. 426, cosí ribatte la data tradizionale: « Secondo il Boccaccio la Monarchia fu scritta proprio nella venuta di Enrico VII; ma non è possibile prima dell'estate 1312, perché sarebbe stato un metter legna al fuoco discutere di un conflitto o inesistente o che non voleva parere; né è un'opera improvvisata, ma di lunga e profonda meditazione, oltre a ricerche e studi e citazioni continue di autori ». I problemi trattati nella Monarchia, però, non erano scaturiti dall'impresa d'Arrigo: erano vivi nelle coscienze, prima ancora che Uberto da Milano cosí avesse apostrofato Federigo Barbarossa : « Tua voluntas jus est.... Quod principi placuit, legis habet vigorem »; prima ancora che Bartolo da Sassoferrato avesse chiamato ancora peccatore, anzi eretico, chiunque osi contrapporsi alla vo lontà d'un imperatore. Era l'antica questione delle supremazie ecclesiastiche ed imperiali, cui s'erano abbandonati decretalisti e giuristi nel medioevo, e che s'era audacemente affermata, oltre che nelle asserzioni di Gregorio ed Innocenzo, nella dialettica di Egidio romano, che aveva scritto: « totum spectat ad Ecclesiam tam jus utile quam potestativum: tamen quod ad jus potestativum, quod est judicium sanguinis, numquam exercebit Ecclesia per se ipsam, sed per laicam personam ». 1

Tali problemi, oltre che dagli avvenimenti, come vedremo, gli venivano suscitati nella mente e precisati da una letteratura anteriore, che, certo, Dante non avrà ignorata. Nessun dubbio ch'egli abbia conosciuto il De regimine principum di S. Tommaso, e l'opera affine di

1 Vedi Tocco, De Ecclesiastica potestate di E. Colonna. « Bull. dant., » XVII, 104.

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