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bilmente le veci. La lontananza o per causa di tempo o di luogo, e, in generale, tutto ciò che sottrae le cose all' aspro controllo dei nostri sensi, favorisce e seconda questa brama ardente del nostro pensiero di riformare e correggere l'Universo. Tra le vaghe indefinite nebbie del passato e dell'avvenire e nelle regioni lontane e remote noi possiamo più facilmente vedere incarnate le visioni piú care al nostro pensiero. E la mente del Petrarca, nelle angoscie della passione, contempla Laura, da una parte, glorificata tra una pioggia di fiori, e, dall'altra, mentre torna per uso al luogo della sua tomba, e, sospirando amorosamente e volgendo al cielo lo sguardo lacrimoso, gli impetra mercede. E, quando s'aggira solo e pensoso, lontano dalla sua donna; guardando verso il paese di lei, egli ripete a sé stesso: Forse in quella parte

or di tua lontananza si sospira.

Ed in questo pensiero, l'anima del Poeta si conforta e riposa.

Oh non son bugiarde, come altri crede, quelle parole che, nelle città della morte, ci narrano le mirabili virtú dei defunti e la brama di ritrovarli e di riviver con loro! Essi ri

spondono a un'innata necessità dell'anima nostra, assetata d'ideale, e paga e lieta di poterlo incarnare in chi è sí lontano e si presso. E, se i morti non sempre son meritevoli delle lodi che loro vengon tributate, a noi che importa, una volta che possiamo udire il sospiro profondamente sincero d' un' anima? Condanniamo piuttosto quelle immagini fotografiche che non di rado si sogliono preporre alle parole dolorose, quasi a loro giustificazione, quelle immagini che mettono a contrasto il meschino ricordo d' un momento della vita con la sublime maestà della morte, il miserabile errore dell' individuo con l'infinita perfezione dell'ideale. Non inceppate, non distruggete col crudo aspetto della realtà la celeste visione della fantasia.

Ma né la morte, né la lontananza, né il sogno stesso avrebbero cotesta loro magica forza nella trasformazione della materia riluttante, se non fossero spinti ed animati costantemente da un' altra forza, a tutte superiore, compagna indivisibile dell'arte e d'ogni opera bella e immortale, ministra di vita; e questa forza è l'amore.

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Giornale d

tad. III-IV.

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La città di Dite, le Furie, Medusa e i Versi strani

I.

Il nome di città di Dite comprende tutt' e quattro gli ultimi cerchi dell'Inferno, o designa il solo sesto cerchio? Degl' interpetri, i piú accolgono senza esitare la prima ipotesi; altri evitano scaltramente di discuterne; e solo qualcuno (« un chiosatore moderno », scrive il Poletto, senza dirne il nome) sostiene la seconda delle due ipotesi accennate. Senza dubbio, questo « chiosatore moderno »>< ha ragione.

Innanzi tutto, la città di Dite non può esser altra cosa dalla città del fuoco del v. 22 del Canto X, né dalla città roggia del v. 73 del Canto XI dell' Inferno. Ora, potrebbe aver Dante chiamati città del fuoco e città roggia tutt' e quattro i cerchi del basso Inferno, nell' ultimo de' quali, per tacer d'altro, la pena è appunto l'opposto del fuoco e del rosso, cioè il gelo? È vero che nel citato v. 73 del Canto XI Dante scrive, a proposito degl'incontinenti,

perché non entro della città roggia
son ei puniti ? ;

il che parrebbe avvalorare l'opinione de' piú, sembrando che in quel verso la città roggia si contrapponga a tutto l'Inferno superiore, cioè a tutt' e cinque i primi cerchi ; ma ciò sembra, non è; ché quell' entro può benissimo, anzi deve interpetrarsi per di là; o, meglio, tenuto conto della forma dell' Inferno dantesco, per sotto; né piú né meno del dentro che troviamo nel v. 16 dello stesso Canto XI:

Figliuol mio, dentro da cotesti sassi, incominciommi a dir, son tre cerchietti ;

data la quale interpetrazione, la città di Dite o città roggia, ossia il sesto cerchio, chiude i

cerchi inferiori, in quanto sovrasta ad essi; allo stesso modo che li chiudono i sassi o l'alta ripa dello stesso sesto cerchio, presso ai quali era il grande avello d'Anastasio.

In secondo luogo, l'ottavo cerchio ha un proprio nome, Malebolge; un proprio nome ha forse il nono, Cocito, come parrebbe potersi desumere dal non aver mai Dante chiamato l'ultimo cerchio in altro modo, se non ricordando il nome di questo fiume 1, che formando un lago gelato, abbraccia tutto quel cerchio; e proprii nomi han certamente le quattro zone concentriche dello stesso nono cerchio, Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca. Sicché, se città di Dite si chiamasse tutto il basso Inferno; certo l'ottavo cerchio e le quattro zone del nono, e probabilmente anche lo stesso nono cerchio avrebbero due nomi: sarebbe, insomma, un lusso di nomi, veramente un po' troppo e vano.

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Inoltre, l'idea del nome di città di Dite venne certamente a Dante, più assai che da Ovidio e da Virgilio, dalla civitas Babylonis di sant'Agostino, che è l'antitesi della civitas Dei: ma questa è o l'eterna beatitudine o la vita temporale secondo la fede'; dunque la città di Babilonia è o l'eterna dannazione o la vita temporale contro la fede. Se, nel crear la frase città di Dite, Dante avesse tenuta presente la prima di queste due interpetrazioni, cioè l'eterna dannazione, egli avrebbe dovuto chiamare città di Dite tutto l'Inferno, non la

1 Cfr. Inf. XXXI, 123; XXXIV, 52; e specialmente XXXIII, 156.

2 Cfr. D'OVIDIO, Studii sulla « Divina Commedia », pp. 230-231.

3 De civ. Dei, I, 1o.

sola parte inferiore di esso; poiché certo non poteva escludere dall'eterna dannazione i cerchi superiori; opponendovisi, per tacer d'altro, i vv. 70-90 del Canto XI dell' Inferno. Bisogna dunque ritener per fermo ch'ei tenesse presente la seconda interpetrazione della città di Babilonia, cioè la vita contro la fede; data la quale interpetrazione, ognuno vede come ben convenga al cerchio degli eretici il nome di città di Dite. E tanto più bisogna ritenerlo, in quanto che lo stesso sant'Agostino dichiara - nel Proemio d'avere scritta la sua grand'opera contro gli errori e le bestemmie degli avversarii della fede cristiana, ch' erano allora i Gentili.

Infine, come riferire a tutto il basso Inferno il v. 69 del Canto VIII,

co' gravi cittadin, col grande stuolo?

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Passi il grande stuolo; sebbene mal si comprenderebbe a che servisse la forma di cono rovesciato, data all'Inferno, se ne' cerchi inferiori avesse a stiparsi piú grande stuolo di dannati, che non ne' cerchi superiori; ma interpetrare i gravi cittadini per dannati « gravi di colpa e di pena », come interpetrano lo Scartazzini, il Casini, il Torraca, il Vandelli ecc.; questo, in verità, non è interpetrare, è rifare. Qualcuno intese per i cittadini i diavoli; per lo stuolo, i dannati. Benissimo proprio gravi quei demonii della quinta bolgia; quei Malebranche che Dante stesso paragona a guatteri, a cani ed a gatte; che han nomi cosí bizzarri; che si lasciano menar per il naso da un dannato; che s'azzuffano tra loro; che cacciano la lingua, e di cui uno suona perfino una cosí diversa cennamella! Invece, conviene perfettamente agli

Scrive il Poletto, nel suo Commento (n. al verso di cui discutiamo): « Il Carducci, a quel passo della V. N., ¿ XXXII,

Dannomi angoscia li sospiri forti, quando il pensiero nella mente grave mi reca quella che m'ha il cor diviso,

spiega penosa, dolorosa; e a rincalzo cita il presente luogo dell' Inferno ». Ma il Carducci non è Dante.

2 Ponta, cit. dal Poletto, loc. cit. Questa ipotesi è accolta senza discussione dall'Andreoli; « piace assai » a Brunone Bianchi; e lo stesso mons. Poletto le fa buon viso.

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Qual è il simbolo che « s' asconde » nelle Furie, apparse a Dante nel cerchio degli eretici? Ben più di quindici son le ipotesi messe innanzi fino ad ora; possono però ridursi a queste che le Furie simboleggino « o furiose passioni d'iracondia, di superbia » e d' invidia,« nelle tre forme del pensiero, della voce e dell'azione; o altri peccati puniti fuori e dentro la città» di Dite; «o i rimorsi, che traggon l'uomo alla disperazione, col terrore dell'ira divina » 3; o la mala coscienza. Non farò una vera e propria confutazione di queste ipotesi: mi basterà dire che, se le Furie simboleggiano alcune passioni, o, per parlare piú propriamente, alcuni dei peccati ex passione

1 Cfr. Tocco, L'eresia nel Medio Evo; e specialmente l'introduzione.

2 Data la debita parte alla ragione artistica, crearsi, cioè, l'occasione all'episodio di Farinata; la ragione morale, per cui Dante si fa mostrare da Virgilio, simbolo dell' intelletto, i soli Epicurei, è la seguente la dottrina d' Epicuro consiste, secondo che lo stesso Dante scrive nel Convivio (IV, 6), nel sostenere che fine dell' uomo sia « voluptate; non dico voluntate, ma scrivola per p, cioè diletto senza dolore »; nel Poema poi (Inf., X, 14-15) aggiunge, che consiste nel negare l' immortalità dell' anima; e certo, << il motivo del filosofare d'Epicuro e della sua opposizione alla religione dominante sta nel proposito di liberarsi dalle paure d'oltre tomba e dar libero sfogo al suo talento» (Tocco, op. cit., p. 205). Ora, poiché anche l'eresie sono utili a qualche cosa, « dum scilicet constantia fidelium comprobatur.... et ut excutiamus pigritiam, divinas scripturas solicitius intuentes » (SAN TOMMASO, Summae theol., II, II, 11, 3o); Virgilio, simbolo dell' intelletto, mostra a Dante quell'eresia, la cui vista, nell' Inferno, meglio possa valere a confermar l'alunno nella fede: guarda, sembra dire, vogliono che l'anima muoia col corpo; ed eccole qui le loro ànime: quale miglior dimostrazione della falsità della loro dottrina?

3 Cfr. FORNACIARI, Studi su Dante (Milano, Trevisini, 1883), p. 53.

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puniti fuori della città di Dite, non si comprende perché abbiano a simboleggiarne alcuni soltanto, non tutti; e se simboleggiano i peccati puniti dentro, non si comprende ugualmente perché tutti non sieno in esse simboleggiati. Né meno arbitrario è il ravvisare in queste tre Furie le tre forme di peccato, di pensiero, di parola e d'opera: « Venga Medusa, sí il farem di smalto, Gridavan tutte ». Quanto poi ai rimorsi, è questo un simbolo, a cui, anche per Minosse, già s'appigliarono i commentatori; se non che, per Minosse parlano di rimorsi nel dannato; per le Furie, dell'uomo che da essi vien tratto alla disperazione. Cosí nell' uno, come nell'altro caso non danno nel segno. Rimorso è riconoscimento della colpa, con dolore e pentimento: or il dannato non si pente, poiché la sua perversa volontà è avversa dalla divina giustizia: egli ama pur nell' Inferno la sua colpa; e se dolore ne sente, non è già perché la odii ; ma solo perché per essa è punito. È chiaro dunque che non si può parlar di rimorso del dannato; onde non può Minosse simboleggiarlo. Né possono le Furie simboleggiare i rimorsi che traggono l'uomo alla disperazione; perché, se rimorso è pentimento, pentimento e disperazione non si conciliano: mentre al pentimento coopera, con l'altre virtú teologali, la speranza, in quanto è con la speranza del perdono che si fa proposito d'emendarsi; la disperazione, invece, s'oppone alla speranza, poiché consiste nel disperare della divina bontà. Infine, quanto all'ultima ipotesi, che le Furie simboleggino la mala coscienza; come lo Scartazzini, che la propose, non la dimostrò, cosí io potrei pure dispensarmi dal confutarla; ma poiché la vedo accolta in uno de' migliori Commenti moderni, diró che, cum conscientia sit quodammodo dictamen rationis»; si potrà parlare di « ratione vel conscientia errante », come infatti s'esprime san Tommaso; ma non di mala coscienza. Ciò premesso, se della coscienza errante intendeva lo Scartazzini di parlare, vede ognuno che le Furie non possono simboleg

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1 SAN TOMMASO, Summa theol., 11, 11, 13, 4°. 2 Op. cit., 111, 85, 5o.

3 Op. cit., II, II, 20, 3o.

Op. cit., I, II, 19, 5o.

5 Op. e loc. cit.

giarla; se d'altro, ci basta dover interpetrar Dante, per non sentir l'obbligo d'interpetrare anche i suoi interpetri.

Ed ora, ecco che cosa simboleggiano per me le Furie di Dante. I peccati nell' Inferno dantesco son distinti secondo le cause che li producono; secondo, cioè, le tre categorie teologiche, peccati d'ignoranza, peccati di passione e peccati di malizia: i peccati d'ignoranza son puniti nel vestibolo e nel 1° cerchio; quelli di passione, nel 2o°, nel 3o, nel 4° e nel 5° cerchio; quelli di malizia, ne' tre ultimi, 7o, 8o e 9°. Quanto al 6o cerchio, in cui le Furie appariscono, esso è dato a una classe intermedia, l'eresia, che ha del peccato d'ignoranza, del peccato di passione e di quel di malizia. Or questo cerchio, ove si punisce appunto un peccato in cui tutte e tre le cause di peccato concorrono; a Dante, che, in fondo, scriveva poeticamente un trattato di teologia, ' dové sembrare il luogo meglio opportuno a dissertare, poeticamente ben inteso, su tutte le cause di peccato: dové, inoltre, sembrargli, che i genii del luogo, da assegnare a questo cerchio, appunto tutte le cause di peccato dovessero simboleggiare. E poiché queste si riducono alle passioni disordinate del concu

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1 Cfr. i miei Studii su Dante (Città di Castello, Lapi, 1908), p. 73-102

2 L'eresia « sub infidelitate continetur » (SAN TOMMASO, Summae theol., II, II, 11, 1o); ma « infidelitas in intellectu est » (op. e p. cit., 10, 2o); dunque nell'eresia c'è difetto d'intelletto (ignoranza). « Haeresis et secta idem sunt, et utrumque pertinent ad opera carnis.... ratione causae; quae est vel appetitus finis indebiti, secundum oritur ex superbia vel cupi. ditate.... vel etiam aliqua phantastica illusio, quae est principium errandi.... phantasia autem quodammodo ad carnem pertinet, in quantum actus ejus est cum organo corporali » (op. e parte cit., 11, 1o); dunque nell'eresia c'è anche difetto dell'appetito sensitivo (passione). « Qui in Ecclesia Christi morbidum aliquid pravumve quid sapiant, si correcti ut sanum rectumque sapient, resistunt contumaciter.... haeretici sunt» (SANT'AGOSTINO, Contra Manich., cit. da SAN TOMMASO, op. p. e q. cit., art. 2o, c. ; e cfr. pure ad 3); ma resistere contumaciter è atto espresso della volontà, che « ex seipsa movetur ad malum » (op. cit., I, II, 78, 3°); dunque c'è nell'eresia anche difetto della volontà (malizia).

3 Cfr. il mio studio L'allegoria fondamentale del Poema di Dante, in Gior. dant., XVII, pp. 247 e 265-266.

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piscibile e dell' irascibile, che si riducono, alla lor volta, alla triplice classificazione di san Giovanni, concupiscenza della carne, piscenza degli occhi e superbia della vita; riducendosi alla concupiscenza della carne e a quella degli occhi le passioni del concupiscibile; alla superbia della vita quelle dell' irascibile; nulla di più naturale che aver Dante simboleggiate nelle tre Furie la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. Infatti, Aletto, che, per essere a destra, deve ritenersi la men cattiva delle tre, simboleggia benissimo la concupiscenza della carne, che, assorbendo la ragione piú che non facciano la concupiscenza degli occhi e la superbia dello vita, dà origine a men gravi peccati: inoltre, Aletto, etimologicamente, significa incessante; e la caratteristica della concupiscenza della carne è l'insaziabilità. Megera, che è a sinistra, è peggiore; e il suo nome significa invidia: essa dunque simboleggia perfettamente la concupiscenza degli occhi, intesa nel senso di concupiscenza di tutte quelle cose in cui si cerca il diletto degli occhi, vale a dire il diletto di qualunque facoltà apprensiva; il qual diletto massimamente si cerca in quei beni che piú sogliono invidiarsi nel prossimo, gli onori, la gloria; onde Aristotile scrisse che quelli, che amano gli onori e la gloria, piú invidiano; e san Gregorio: " «< prima superbiae soboles inanis est gloria, quae dum oppressam mentem corrumpit, mox invidiam gignit; quia dum vani nominis potentiam appetit, ne quis hanc alius adipisci valeat, tabescit » : né occorre ricordare che l'invidia dal vedere ap

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1 SAN TOMMASO, Summae theol., I, II, 77, 5o. * Al passo dell' Epist. I di SAN GIOVANNI (cap. II, 16), ove si assegnano a tutti i peccati queste tre cause, un moderno, espositore della Bibbia, il Martini, annota: «Nissuna di queste tre furie, le quali sconvolgono e cagionano lo sterminio del mondo, nissuna può venir dal padre celeste ». Che questo accenno alle Furie derivi da qualche antico chiosatore della sacra scrittura non ignoto a Dante?

3 SAN TOMMASO, Summae theol., I, II, 77, 5o,

ad. 2.

• Rhetor., II, 10; cit. da SAN TOMMASO, op. cit., II, II, 36, 4°.

5 Moral., XXXI, 17; cit. da SAN TOMMASO, loc. cit.

punto ha il suo nome. Infine, Tesifone simboleggia, perfettamente anch' essa, la superbia della vita, a cui si riducono le passioni dell'irascibile; sí perché essa è nel mezzo, il posto d'onore; e la superbia, da cui prende il nome questa terza categoria di cause del peccato, è regina di tutti i vizii; sí perché il nome Tesifone significa vendetta della morte; e l'ira, da cui prendono il nome le passioni dell' irascibile, che alla superbia della vita si riducono, è appunto definita dai teologi Dante accolse siffatta definizione appetito di vendetta.

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Ancóra qualch'altra considerazione. Queste Furie di Dante hanno naturalmente, come esigevano i loro nomi e la loro storia, membra ed atti femminili: a Dante sarebbe potuto bastare che il lettore lo supponesse; volle, invece, dirlo espressamente e farlo risaltare. Perché? Perché anche queste membra ed atti femminili hanno il loro significato morale: la femmina simboleggia la seduzione, esercitata dai falsi piaceri, come dimostra la femmina balba del Canto XIX del Purgatorio, che, prima guercia e storta, s'abbelliva poi, a mano a mano, sotto lo sguardo di Dante. Inoltre, le chiome delle Furie son fatte di serpenti; e il serpente simboleggia l'inganno; or che i beni mondani ingannino, Dante stesso ce lo dice nel Canto XVI del Purgatorio."

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<< Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; batteansi a palme » ed eran tinte di sangue. Poiché i beni mondani ingannano, essi non fan l'uomo felice di qui questo fendersi il petto con le unghie, questo battersi il petto, questo sangue di cui son tinte le Furie: il fendersi il petto simboleggia benissimo le cure, le ansie che affannano quanti sono schiavi delle passioni disordinate; il battersi a palme e l'esser tinte di sangue simboleggiano non men convenientemente le lotte inevitabili per il conseguimento d'un bene che ha mestieri di divieto di consorto; vale a dire, di tanto si scema, quanti più sono a possederlo.

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