dissuaderlo: pensasse ch'ei provocava una guerra civile ; ascoltasse i consoli di Francia e d'Inghilterra che lo consigliavano anch'essi a non partire; non si lasciasse abbin. dolare da'preti, che voleano tumulti, sconvolgimenti e sangue; mutasse la presa risoluzione, o si apparecchiasse a combattere i cittadini che gli erano stati compagni nella guerra della indipendenza. Latour stette saldo nel suo proposito, ed i consoli altro non poterono ottenere che ventiquattr'ore di tempo per mettere in sicuro le persone e le robe deʼloro connazionali dall'inevitabile conflitto. In quel tempo una petizione sottoscritta da più che diecimila cittadini, era presentata al generale: Bologna e tutte le le città de'dintorni sino ad Ancona si levavano in armi: a Faenza fu incarcerato il colonnello Kaiser: al passo della Cattolica furono mandati fanti e cannoni: il preside d'Ancona chiese ed ottenne dal comandante del naviglio sardo, ancorato in quel porto, un battello a vapore per il trasporto delle truppe ove bisognasse: lungo le strade che conducono a'confini del regno si apparecchiavano impedimenti e difese. La mattina del di 29 il generale partecipò a monsignore Bedini le notizie che avea ricevute; gli dichiarò esser pronto a partire, non ostante che nessuno avesse voluto dargli cavalli e vetture: inevitabile un sanguinoso combattimento in Bologna, pieno di perigli il passaggio per le Romagne e Marche sollevate e apparecchiate a resistere: farebb'egli il suo uffizio di soldato; non risponderebbe dell'esito. Atterrito a quelle parole monsignore Bedini, tanto più che per la loquacità di una donna, in casa della quale era nascosto, cominciavasi a sospettare in Bologna della sua presenza, fuggì travestito dalla città e dallo stato, lasciando due lettere al generale nelle quali gli dicea, che fatta oramai impossibile la partenza de'reggimenti svizzeri, attendesse migliore occasione, ma che frattanto niegasse ubbidienza a'governanti di Roma. Più tardi il pontefice dichiarò in una sua allocuzione, che i reggimenti svizzeri non ubbidirono, « perchè il loro generale tenne una non retta e poco onorata condotta»; ma lo sbugiardò il Latour in una sua scrittura che pubblicò per le stampe. Facevano frattanto ogni sforzo i preti per impedire le elezioni dell' assemblea costituente, e vista l' inefficacia del monitorio pontificio, ordivan congiure. Il generale Zucchi avea radunato a Pontecorvo poche compagnie di Svizzeri e di Napolitani, e presso Ceperano, passata furtivamente la frontiera, si tenea nascosto fra' monti per esser pronto a dar calore all'attesa sollevazione. Lo seguivano frati zelanti, abbondevolmente provveduti di rosarii, scapolari e medaglie benedette dal papa: avevano per vessillo un'immagine di non so qual Madonna miracolosa. In Albano s'era ordita una congiura, che dovea scoppiare nel dì delle elezioni: i congiurati quasi tutti preti, frati e feccia di volgo, dicono, avessero depositi d'armi nel convento de' gesuiti a Galloro e nel palazzo del papa in Castel Gandolfo: il loro grido: « Viva la Madonna ed il papa, morte a' liberali! » Il governo ne ebbe notizia il dì 19, e la sera di quel medesimo giorno cinquanta soldati del presidio di Roma, usciti in armi da'loro alloggiamenti, gridando: « fuori il generale Zamboni », tentarono trascinare nella sedizione i dragoni; e non riuscendo nel loro intento, scaricarono contro di loro le armi. Risposero i dragoni: sbrancarono e fuggirono i sollevati; ma furono quasi tutti presi e sottoposti a giudizio. Un solo fu condannato a morte; gli altri a minor pena: il governo fu largo di grazie a tutti, mutando e scemando le condanne. Risaputo questo i congiurati di Albano si spaurirono: alcuni fuggirono: il governo non volle se ne facesse inquisizione. In Corneto e Montefiascone i curati niegavansi di aprire i libri battesimali, necessarii alla compilazione delle liste elettorali. In Orvieto i confessori e predicatori incitavano il popolo minuto contro alla guardia civica; onde nascevan tumulti dalle armi cittadine repressi. Lo stesso accadeva ad Onano, per le furibonde predicazioni di un Alfonsi vicario foraneo. Il cardinale De Angelis a Fermo, il vescovo cappuccino frà Giusto a Sinigaglia, un frate minore in Belforte, si fecero a bandire la papale scomunica; ma dappertutto la popolazione si sollevò contro di loro, ed e' non dovettero la vita che alla magnanimità del governo, e alla efficace intervenzione della guardia civica. A porto di Fermo i preti niegavano i sagramenti a quanti fossero concorsi alle elezioni, e ricusavan fino di benedire i loro matrimonii: a Subiaco gli stessi scandali: poco dissimili in altri luoghi: dovunque però senza frutto e con pericolo de'sommovitori. Nè questo bastava: misteriose lettere scritte dagli angeli e scese dal cielo neʼrozzi abitatori delle campagne si divulgavano: immagini di madonne, di crocifissi e di santi stralunassero gli occhi e si atteggiassero a sdegno e a dolore si affermava. Due parrochi di San Benedetto annunziavano la trasfigurazione repentina dell'effigie di San Francesco. I frati agostiniani di Tolentino ed i parrochi di altre chiese marchigiane, famosi inventori di miracoli, la loro antica operosità ravvivavano. In Fermo piangeva una Madonna de' dolori; ed i preti dicevano empio chi non vedea le sue lagrime, e chi delle loro scede rideva o s'indignava. In Roma alcuni furbi imbeccarono a una fanciulla una visione della Vergine e del fuggitivo pontefice, che sostenea sugli omeri il mondo. Un cancelliere vescovile dispensava in Orvieto la profezia di un tedesco, ch'egli affermava santo, ed il cui testo dicea: « Nel mezzo del secolo XIX si conturberanno i popoli, ed i re fuggiranno. Il sommo ponte. fice, divelto dalla cattedra di Pietro, peregrinerà in esilio. Si combatterà negli accampamenti; ma sorretto da divino aiuto un re aquilonare, venuto in Italia, le italiane repubbliche abbatterà, a' principi le loro regali sedi restituirà; ed il vicario di Cristo trionfatore Roma vedrà. » Tutto questo era in latino, come ad una profezia si conviene. Non è però da credere che tutti gli ecclesiastici in siffatte scelleratezze si affaticassero; che anzi i più, specialmente nel basso clero, abborrivanle, e v'era chi teneva condotta contraria a'sanfedisti. Monsignor vescovo di Acquapendente scrisse una lettera al ministro dell'interno, nella quale diceva: « Quei consigli che suggerivo nelle popolari dimostrazioni egualmente fatte per le disposizioni governative, emesse nel passato sotto il regnante Pio IX, continuo a dare a' chierici, di non immischiarsi, cioè, ne'negozi secolareschi; di badare all'adempimento de' doveri religiosi, proprii dello stato chericale; di non suscitare discordie, nè immischiarsi nelle fazioni e ne' partiti; e di vivere in modo da non potersi la loro condotta censurare in qualunque luogo o sotto qualunque forma di governo si trovassero. » Il vescovo di Ascoli ammoni i parrochi della sua diocesi a non fare opera alcuna per impedire le elezioni; quello di Rieti andò in persona, seguito da molti preti e frati, ad aprire la votazione, e poco dopo si morì per gastigo di Dio, disser i sanfedisti, per vendetta de' sanfedisti il popolo sospetto. Nelle città popolose e civili dello stato i vescovi (e parecchi erano cardinali) non disser parola, i parrochi non s'ingerirono, i confessori non disturbarono le coscienze, e gli squittinii si compirono con ordine, calma e giubilo universale; e se togli pochissimi, quasi tutti gli eletti furono uomini per onestà, senno e amore di patria ragguardevoli. Addi 5 di febbraio i deputati dello stato romano, radunatisi al Campidoglio, di là traevano al palazzo della Cancelleria, luogo assegnato alle loro tornate: Roma tutta in festa ed in gioia, in voti ed augurii prorompe, e non si sazia di applaudire alla costituente, onde spera salute e libertà. L'Armellini salito in ringhiera, apre l'assemblea con lungo discorso, nel quale narra per sommi capi l'istoria del regno di Pio IX, i casi occorsi dopo la fuga del pontefice, gl'intenti e le opere del nuovo governo, e pon termine alla sua orazione con queste parole: « Il nostro popolo, primo in Italia che s'è trovato libero, vi ha chiamato in Campidoglio ad inaugurare una nuova era alla patria, a sottrarla dal giogo interno e straniero e ricostituirla in una nazione, a purificarla dalla gravità dell'antica tirannide e delle recenti menzogne costituzionali. Voi sedete, o cittadini, fra i sepolcri di due grandi epoche. Dall'una parte vi stanno le rovine dell'Italia dei Cesari, dall'altra le rovine dell' Italia dei Papi: a voi tocca elevare un edificio, che possa posare su quelle macerie, e l'opera della vita non sembri minore di quella della morte, e possa fiammeggiare degnamente sul terreno, ove dorme il fulmine dell'aquila romana e del Vaticano, la bandiera dell'Italia del popolo. Dopo ciò noi inauguriamo i vostri immortali lavori sotto gl'auspici di queste due santissime parole: Italia e Popolo ! » Cessati gli altissimi applausi che accompagnarono questo discorso, il principe di Canino rispondendo all'appello nominale, gridò: « Viva la repubblica! » Il Garibaldi, ch'era fraʼrappresentanti del popolo, rizzatosi risolutamente ag. |