devoli; e saputosi in quel momento che una turba di tumultuanti tentava invadere la sala, i senatori levaronsi, gridando « Viva lo Statuto ! >> e si raccolsero a segreto consiglio. Saputasi tutta la verità, i ministri fautori della guerra si dimettevano, e prendeva il governo dello Stato un nuovo ministero così costituito: De Launay, presidente del consiglio e ministro degli affari esterni; Pinelli, ministro dell'interno; Nigra, delle finanze; Cristiani della grazia e giustizia; Mameli, della istruzione pubblica; il generale Dabormida, della guerra. Il parlalamento mandava in fretta suoi oratori al re: non voler dividere la causa dello Stato da quella della real casa di Savoia; ma essere saldo nel proposito di non assentire a patti che onorevoli non fossero. Il principe rispose : niente farebbe che non fosse consentaneo al bene della nazione: impossibile per allora la guerra; mancare esercito e danari; durissimi i patti imposti dal vincitore; ma adoprerebbe ogni sua possa perchè venissero mitigati. Del nuovo re non ben nota era l'indole, e s'ignoravano gli intenti: sapeasi prode in guerra; il padre sin da fanciullo lo aveva voluto educato alle armi e alle pratiche divote, ma non agli studi e cure dell'uomo di stato: lo avea tenuto con rigida e severa disciplina a sè ubbidiente, nè lo ammetteva ne' suoi consigli. Quindi molte le paure, i sospetti, le diffidenze, immensamente accresciuti dal vedersi i nemici vincitori quasi alle porte della capitale, e a loro aperta Alessandria, ch'è il presidio maggiore di quello Stato, ed il più saldo propugnacolo della forte Liguria. V'eran molti, che parlavano di sforzi supremi per salvare l'indipendenza del Piemonte e dell'Italia; ma il popolo era scorato, confuso, abbattuto, non disposto a magnanimi sacrifizi, che pareano senza speranza. Durando queste angosciose incertezze, pubblicavasi un bando del duca di Genova, nel quale erano notevoli queste parole: « Stringiamoci intorno il nuovo re, de. gno emulatore delle virtù paterne nelle battaglie, ed integro custode delle franchigie costituzionali sancite dall'augusto genitore ». L'indomani, che fu il dì 27, leggevasi un proclama di Vittorio Emanuele del tenore seguente: « Cittadini! Fatali avvenimenti e la volontà del veneratissimo mio genitore mi chiamano assai prima del tempo al trono de' miei avi. Le circostanze, fra le quali io prendo le redini del governo, sono tali che senza il più efficace concorso di tutti, difficilmente io potrei compiere all'unico mio voto, la salute della patria comune. I destini delle nazioni si maturano nei disegni di Dio: l'uomo vi debbe tutta la sua opera; a questo debito noi non abbiamo, fallito. Ora la nostra impresa debb'essere di mantenere salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le nostre istituzioni costituzionali. A questa impresa scongiuro tutti i miei popoli; io mi appresto a darne solenne giuramento, ed attendo dalla nazione in ricambio aiuto, affetto e fiducia ». Nel giorno stesso raccoglievasi il parlamento, ed e. rano inviati oratori a Cario Alberto, coll'incarico di raggiungerlo in qualunque loco si trovasse, e recargli manifestazioni di ringraziamento, ammirazione e gratitu dine eterna. Poco dopo giungevano nella camera dei deputati i nuovi ministri. Il presidente domandò loro chi fossero e che volessero; ed allora ad un tratto da ogni parte furono a loro dirette interpellazioni con disdegnose parole su' casi della guerra, i patti dell'armistizio, lo stato dell'esercito, le nuove condizioni del Piemonte. I ministri confusi non sapeano che rispondere: il solo Nigra si levò a dichiarare: che, ove allo statuto venisse recata offesa, egli ritornerebbe incontanente alla vita privata; il che valse a conciliargli la pubblica benevolenza. Riaperta la seduta nella sera, il ministro Pinelli lesse i capitoli dello armistizio, che furono accolti con fragorosi segni di disapprovazione. La camera dichiarò l'armistizio incostituzionale; il ministero non poterlo mandare ad esecuzione senza violare lo Statuto. Di poi prese queste deliberazioni: rimanere in permanenza; invitare il governo a portare tutte le forze disponibili ad Alessandria, e, dichiarata la patria in pericolo, convocare a Genova tutti gli uomini attialle armi; se il ministero permettesse l'introduzione di forze austriache nella cittadella di Alessandria, o richiamasse il naviglio dall' Adriatico, prima che l'armistizio venisse approvato dal Parlamento, sarebbe dichiarato reo di alto tradimento. Tutte queste proposte, ed altre meno notevoli, andavano a partito fra una confusione indicibile di proteste contro i ministri, di accuse contro i traditori e contro gli inetti, di lodi grandissime e di compianti per Carlo Alberto. Il popolo che ingombrava le logge alle parole de' deputati applaudiva, a' ministri imprecava. Vane loquacità di tribuna, sforzi inefficaci, rumore puerilė. Tutti sapevano che oramai la guerra era resa impossibile, che il ministero nulla avrebbe fatto di quanto la camera deliberava. Poneasi in pericolo lo Statuto, e l' indipendenza non si salvava: nè all'onore si provvedeva, svelando la propria impotenza. Il generale Dabormida e il Cristiani non consentivano a far parte del nuovo ministero; ed erano eletti invece il generale Enrico Morozzo della Rocca ed il barone Luigi Demargherita: Gian-Filippo Galvagno assumeva il ministero de' lavori pubblici, del commercio e dell'agricoltura. il Gioberti faceva anch'esso parte del consiglio dei ministri, ma di nome soltanto, imperocchè andava legato a Parigi: ad alcuni ed a lui stesso parve quello un onorevole e coperto esiglio: i più molto maravigliaronsi di vedergli accettare quell'ufficio in quelle congiunture, e parve il nuovo dispetto contro ai colleghi valesse in lui più dell'antico rancore contro gli avversari. Il re presto solenne giuramento di osservare e mantenere lo statuto; un'ora dopo il ministero sciolse la camera dei deputati e prorogò il parlamento. Rimasero costernati e confusi gli amici della italiana indipendenza, ripresero animo tutti quelli che desideravano vedere il fine di quella guerra. Casi gravissimi, nel medesimo tempo in Genova seguivano. Sommo quivi era stato il pubblico dolore per lo sventurato esito di quella guerra; ed il grandissimo disastro di Novara, come sempre accade, era parso inesplicabile senza un grandissimo tradimento. Nè i capitoli dell'armistizio eran tali da spegner questo sospetto; nè i nomi de' nuovi ministri assicuravano: sì che temevasi perduta, non solo l'Indipendenza dell'Italia, ma anco la libertà dello stato; e già già credeasi ristaurata la monarchia assoluta, risorta la patrizia e chericale prepotenza, rinnovata la rovina dell'anno ventuno, con tutto il sèguito consueto di giudizi militari, proscrizioni, esili, patiboli, interna ed esterna servitù. E mentre gli animi eran così agitati e commossi, nella sera del 27 di marzo divulgossi la voce, gli Austriaci uniti a' Piemontesi, essere giunti a Pontedecimo, e proseguire ostilmente alla volta di Genova: onde si levò un rumore grandissimo, e furono battuti i tamburi della guardia nazionale e suonate le campane a stormo. Fu anco in quel momento intercettata una lettera del generale Giacomo de Asarta comandante la divisione di Genova, diretta al Generale Alfonso la Marmora, perchè fretto. losamente accorresse a difendere quella città da' nemici esterni, e a sicurarla dalle interne sedizioni. Il popolo insospettito montò in furore, e cominciò a chieder con grande istanza le armi, la consegna delle fortezze e lo immediato allontanamento delle milizie stanziali. Giuseppe Avezzana, uomo prode, esule del 1821, ritornato in Italia per partecipare alla guerra del quarantanove, accolto con molte dimostrazioni di onore dal ministero democratico, e quindi eletto contro sua voglia capo dello Stato Maggiore delle milizie cittadine di Genova, invitò i militi a raccogliersi senz' armi la mattina seguente al palazzo Tursi; e quivi arringatili con generose parole, li esortava alla concordia, all'unione, alla confidenza in lui, pregando gli designassero consiglieri adatti a quelle congiunture. Nella medesima sentenza parlavano l'intendente generale Farcito de Vinea ed Antonio Profumo capo del municipio; ma il popolo non volle udir ragioni, se prima non gli furono consegnati i forti lo Sperone ed il Begato, ritenendo in ostaggio sino al compimento delle promesse l' intendente ed il generale Ferretti comandante della piazza. Fu anco disciolto e con altri uomini ricomposto lo stato maggiore della guardia nazionale, ed il municipio spedi un messaggio al parlamento esortandolo a trasferirsi a Genova e dir al giovine re: « Chel'umiliazione del paese l'umilia; che il nemico tante volte da lui affrontato in campo sarà il suo tiranno ed il suo carnefice se viene ad imporgli patti ignominiosi e a staccarlo dalla causa del popolo. » Grande era la confusione e lo scompiglio, i consigli variavano e che farsi non si sapeva. Qui gridavasi governo provvisorio; là, autorità illimitata nel municipio: i nomi di repubblica e di principato costituzionale erano acclamati a vicenda. Vede |