vasi genti correre le vie armate senza saper dove; udivansi grida concitate e confuse, imprecazioni, minacce, e suoni di tamburi e campane, come se i nemici fossero alle porte. Era lo sfogo disperato di un dolore profondo, che molti credettero una rivoluzione nè facile egli è l'una dall'altra cosa distinguere, onde non pochi son quelli che rimangono ingannati dalle apparenze e prendono loro disegni su quelle che di poi non riscontrano con la realtà. L'avvocato Didaco Pellegrini, che avea molta autorità nel circolo popolare, propose si affidasse la difesa della città al generale Avezzana, al deputato Costantino Reta e all'avvocato David Morchio. Il popolo applaudi: il municipio, non assentendo, si dimise. In breve i popolani furono padroni della Darsena, non opponendo valida resistenza i pochi fanti che v'erano; non cosi all'arsenale, dove il generale de Asarta aveva radunato il grosso del presidio. Quivi si commise la zuffa fratricida, nella quale fu morto il colonnello Morozzo della Rocca fratello del ministro. L'arsenale fu stretto d'assedio; e il dì 2 di aprile, il generale De Asarta ne patteggiò la resa: uscirebbero tutte le truppe stanziali dalla città e dalle fortezze con gli onori di guerra, e si ritirerebbero oltre gli Appennini. Il patto più notevole era questo: << Genova rimarrà inalterabilmente unita al Piemonte. » E perchè dunque Genova tumultuava? se voleva la repubblica, come alcuni credettero, non doveva rimaner unita al Piemonte monarchico: se la continuazione della guerra, non oppugnare l'esercito: nell'un caso e nell'altro ella tentava opera impossibile, degna di scusa, egli è vero, ma non di lode. Sgombrate le truppe, il comitato trasmutossi in governo provvisorio della Liguria, nome che gli accrebbe nemici, non forza. Invitò la divisione lombarda ad accorrere a Genova per difenderla da' traditori della patria e dagli invasori stranieri; ma niente ottenne; mandò un suo legato al generale Alfonso la Marmora, che con le sue truppe si appressava, perchè si soffermasse, non volendo altro i Genovesi che l'indipendenza della patria comune; ma il la Marmora fece arrestare l'oratore ed entrò in Val di Polcevera. Vedendo la città mal guardata, con due compagnie di bersaglieri sorprese i forti del Belvedere, della Crocetta e della Tenaglia, non che la cinta e le batterie che stanno fra quest'ultimo forte e quello di San Benigno. Il giuramento prestato dal nuovo re, e la persuasione venuta a poco a poco dell'impossibilità di proseguire per allora la guerra, avevano racchetati gli animi di moltissimi; pochi erano quelli che stavano a guardia delle mura, ed alcuni di questi, richiesti dai soldati piemontesi, calavano loro delle funi per aiutarli a montar sù. Nè i capi di quei moti avevano fede che potessero riuscire a qualche cosa di notevole; onde, all'appressarsi del pericolo, si partivano con poco loro onore, e n'erano dal popolo vituperati. Avezzana e pochissimi altri stavan saldi nel proposito di difendere la città: chi più bravate aveva fatto, era più sollecito nella fuga. La Marmora preferi a' pacifici accordi, che giunte le cose a quel punto sarebbero stati facili ed onorevoli, la forza brutale: bramò la gloria delle armi, dimenticando che i nostri padri non concedevano gli onori del trionfo a' vincitori delle guerre cittadine; e non esitò a rivolgere il fuoco de' suoi cannoni e de' suoi mortai contro una città non meno ricca di mirabili monumenti che di gloriose memorie. Genova fu assalita colle armi: soffrì rubamenti, saccheggi, e stupri: Italia intera ne senti ver. gogna, e pianse la perdita di cinquecento suoi figli. Non narro i particolari della mischia fratricida. Il municipio capitolò: un' amnistia fu conceduta, dalla quale furono esclusi l'Avezzana, il Reta, il Morchio, il Pellegrini, ed altri che avean nome di repubblicani. Genova fu sottoposta allo stato d'assedio: disciolta era la guardia nazionale; disarmati venivano i cittadini; sospeso il diritto di riunione ed associazione, mutilata la libertà della stampa; frugate le case; privi dell'ufficio alcuni magistrati; posti in ritiro bravi ufficiali, fra i quali il Sauli colonnello del Genio ed il controammiraglio Mameli. Tutti questi danni e vergogne partorirono l'imprudenza di pochi cittadini e le bravate di un generale. Il dì 22 di maggio, per sentenza di un consiglio di guerra nella piazza d'armi di Torino, fu moschettato il Generale Girolamo Ramorino. Non valsero a salvarlo la eloquenza degli avvocati, nè le preghiere di numerose gentildonne, che in nome della madre ottuagenaria, supplicavano ai piedi della regina. Fu soldato contro Austria nel 1809; combattè sulle coste dell'oceano e in Russia; ebbe gradi militari ed onori da Napoleone Buonaparte. Dopo la giornata di Waterloo niegossi di servire i Borboni e fu fedele alla sventura. Reo per opere di libertà, esulò dal Piemonte nel 1821, dieci anni dopo combattè per la libertà ed indipendenza della Polonia, ed acquistò grande rinomanza. Lo vedemmo quindi prender parte principale all'infelice impresa di Savoia. Mutate le sorti dell'Italia, offrì i suoi servigi a re Carlo Alberto, che dopo molti indugi, accettolli per raccomandazioni della consulta lombarda. Per l'abbandono della Cava fu sottoposto al giudizio; sua colpa non aver ubbidito agli ordini ricevuti, sua discolpa, i termini incerti di questi ordini, l'impossibilità di eseguirli in alcuni particolari, la conoscenza di fatti gravi dal Duce supremo ignorati ( come Storia d'Italia, Vol. IV. 18 a cagione di esempio la presenza dell'esercito austriaco a Pavia) e il desiderio di difendere Alessandria che parea minacciata. Gli nocque presso alcuni la fama di repubblicano; presso altri le accuse delle quali era stato segno dopo l'impresa di Savoia. Si presentò con animo franco a'soldati che dovevano ucciderlo; non volle lasciarsi bendare gli occhi; disse: « Io muoio vittima del mio troppo amore della patria; il tempo e la storia mi giustificheranno. » Comandò il fuoco con ferma voce, e cadde gridando « viva l' Italia! La storia dirà che di Ramorino fu forse chiarita in giudizio l' inobedienza, non di certo il tradimento; e ch'e' fu morto, mentre di simili falli altri assai eran colpevoli, e non furono castigati, anzi alcuni onorati e premiati. CAPITOLO XII. DELLA RISTAURAZIONE DEL PRINCIPATO TOSCANO. 275 Addì 27 di febbraio il governo provvisorio toscano, vedendo crescere la bramosìa della parte democratica per la immediata proclamazione della repubblica ed unione con Roma, pubblicava un proclama del tenore seguente: « Il governo provvisorio ha convocato l'assemblea toscana e i deputati alla costituente italiana, col voto di tutto il popolo toscano, affinchè decidano intorno alle sorti del nostro paese questo fatto, assunto di faccia a tutta la nazione, deve essere e sarà mantenuto. I principj de' componenti il governo attuale sono bastantemente noti, per non rimanere dubbi sopra il partito che essi prenderanno nell'assemblea toscana, e nella costituente italiana. Il governo intende che sia interpellato il voto del popolo, e si deliberi intorno cosa di tanto momento con maturità di consiglio e libertà di scelta. Chiunque presumesse trascinare violentemente la patria, e con manifesta tirannide, fino di ora è considerato traditore della patria, per essere giudicato a norma della legge del 22 febbraio 1849. Al governo fu commessa dal popolo e dall'assemblea toscana la custodia della libertà e la difesa dei diritti popolari: egli intende e vuole governare in benefizio della libertà e del popolo, e combattere la tirannide sotto qualunque aspetto si presenti ». I più impazienti fra' democratici, lette queste parole, fortemente si adirarono, e a voce e a scritto protesta |