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trent'ore, con poco cibo e con punto sonno. Ciò non ostante, se gagliardo ed impetuoso fu l'assalto, non fu men valida ed ostinata la difesa. Bisognò che i soldati espugnassero ad una ad una le case dei dintorni, i cui abitatori difendevansi con disperato coraggio. Costò anco molto sangue a'regii l'occupazione di una batteria di mor. tai, ch'era in quel luogo, ed ove e'collocarono quattro obici per battere le mura del monastero, da dove furono per ben tre volte respinti. Quando l'assalto allenava, ai soldati stracchi e sgomentati era detto: « Colà è Messina». Se questo fu l'ordine del re, o tratto del generale Filangieri non so; ma di certo, avvegnachè scelleratissima cosa, era proporzionata alla natura ed indole di ambidue. I soldati non guardavano ad altro: ferite, sangue, morte, tutto contrappesava la cupidigia della preda. Alla fine fu aperta la breccia nelle mura del monistero, e gli Svizzeri, assicurati che la seconda divisione era già entrata in città montarono all'assalto seguiti da'Napolitani. Seguì dentro una mischia confusa, sanguinosa ed orribile: ne'corridoi, negli anditi, nelle celle si combattea: sani con feriti, moribondi con boccheggianti si azzuffano in ogni strana attitudine ed immagine di morte. Si vedean monaci combattere con la carabina e le coltella contro a'regii soldati: ⚫ cinque giovani, cinti da' nemici in una corte, anzicchè arrendersi, si gittarono a capo fitto in un pozzo, e vi affogarono. Dal monistero i vincitori passarono in chiesa, e tentarono di quivi afforzarsi. Di ciò accortosi l'intrepido abate Krimy, con una mano di audacissimi e due cannoni, si caccia anch'egli in chiesa da un'altra porta e fa fuoco. Volano in pezzi tabernacoli, statue ed altari: il fumo ed il polverone eran tali che non più amici da nemici si distinguevano: il sangue scorrea fuori a gorellini. Dopo poco tutto fu in fiamme. I Messinesi si ritiravano di casa

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in casa sino alla piazza dell'ospedale, ove, trovato qualche cannone abbandonato, lo puntan contro a' nemici, e li costringono a soffermarsi alquanto, non ostante che le due divisioni, fatta la loro congiunzione, avessero già in loro potere le porte e le alture della città. Allora i regii appiccan fuoco all'ospedale, e vi ardon dentro malati e feriti non pochi. Gli artiglieri della batteria di San Giacomo, circondati da ogni parte, con l'aiuto del popolo e con sforzi mirabilissimi, trascinano qualcuno deʼloro grossissimi cannoni sino alla piazza del Duomo, e continuano a far fuoco. La batteria de' Pizzillari è pigliata alle spalle; Rosa Donato che quivi era, gitta la miccia accesa sulle casse delle munizioni: queste esplodono ed uccidono parecchi soldati, mentre l' intrepida donna a colpi di baionetta è lanciata giù dalle mura della città; e non morì, avvegnachè le mura fosser alte ed ella coperta di ferite. I regii non si avanzavano che preceduti dagl'incendi, seguiti da saccheggi, dagli assassinamenti, dagli stupri, da tutti gli orrori insomma di una invasione barbarica. Da porta Imperiale sino alla chiesa di San Niccola, da porta Nuova sino alla piazza delle Anime del Purgatorio, da Terranova sino al Duomo, più di mezza la città disfatta, arsa, saccheggiata; l'altra guasta e quasi rovinata. Le batterie siciliane già tacevano; qualche colpo di cannone traevasi ancora da borgo San Leone: era il Lanzetta, che come fu il primo artigliere nel gennaio voll'essere l'ultimo nel settembre. I regii, per l'ora tarda, si soffermavano ne'luoghi in cui trovavansi, e frattanto la cittadella ed il Santo Salvadore non cessavano di bombardare una città disfatta, anco col rischio di uccidere i vincitori.

Gran numero di famiglie cercarono asilo sui legni da guerra inglesi e francesi, che trovavansi in rada; ma ben presto e' furono colmi. Allora il popolo intero, uomini e donne, d'ogni condizione ed età, uscì da Messina, senza robe, senza mezzi di trasporto, e prese la via de' monti. Udivansi e vedevansi fanciulli piangenti chiedere con alte strida i loro genitori, o morti o fug. giti per altre vie; madri disperate andare in cerca dei loro figliuoli; mogli prive de' mariti; mariti e fratelli gridare e chiamare con grida affannose le mogli e le so relle; gentildonne, co' teneri fanciulli in braccio, coi lattanti al petto, pavide, piangenti, scarmigliate, o incinte nascondersi nelle macchie, e quivi sgravarsi senza aiuti e senza conforti, e non avere un cencio per ravvolgere questi nati nel dolore. Nè mancavano lunghe schiere di monache, fuggite dall'arso o minacciato convento, che or si trovavano per la prima volta in aperta campagna, e non sapeano ove volgersi, ove andare. Sì salda era nell'animo de' Messinesi la fede di non potere esser vinti, che nessuno erasi apparecchiato alla partenza, sì che tutti or fuggivano, sprovveduti di ogni bisognevole, come colpiti da inattesa catastrofe. E per colmo di sventura la notte; e per colmo di dolore la vista della patria che ardeva! A quando a quando questo popolo errante si soffermava per volgere uno sguardo a Messina, che consumavasi in vortici di fumo e di fiamme, sotto un cielo che parea di sangue, su di un mare del colore del sangue, rimpetto le grandi moli ancor fumanti della cittadella e del Santo Salvadore. A pie' de' poggi, immobili e quasi celati nelle ombre, stavano i vascelli di Francia e d'Inghilterra: i riflessi delle fiamme schizzavano sulle loro bandiere e parea vi stampassero delle macchie indelebili di sangue. Allora i pianti, i lamenti, i sospiri, le imprecazioni si confondevano tutti in uno di quei gridi, pe' quali la natura freme e l'istoria inorridisce.

Quali atrocità commettessero i vincitori narrerò non colle mie parole, ma con quelle di uomini estranei o avversi alla rivoluzione siciliana. Addi 2 di febbraio del 1849, lord Lansdowen dicea nella camera alta d'Inghilterra: « I nostri ufficiali videro in Messina soldati uccisi, fortezze distrutte, case demolite; ma e' videro ancora zoppi, malati, paralitici strappati dagli ospedali ed uccisi. Donne, che aveano cercato un rifugio nelle chiese, furono nelle medesime chiese violate ed ammazzate; gente presa nelle campagne fu macellata sulle pubbliche vie o sul lido del mare ». Un corrispondente del Times, giornale il più favorevole al re di Napoli, scrivea da Messina addi 13 di ottobre: « Io credea poter smentire, venendo in Messina, tutto ciò che i giornali hanno raccontato della barbarie napolitana e de' danni immensi sofferti dalla città. Ahimė! io ho dovuto convincermi co' miei propri occhi, che quanto si è detto è molto al dissotto del vero. Gli incendi, che distrussero gran parte della città di Messina, non furono già tutti effetti delle bombe; ma il fuoco era principalmente appiccato a mano da' soldati napolitani con certe materie combustibili, che erano uno degli strumenti di guerra adoperati dal generale Filangieri... Il comandante napolitano ordinò a' soldati, che, avanzandosi nelle vie, appiccassero il fuoco a tutti gli edifici d'ambo i lati. A questo oggetto e' li forni di fiasche di latta, piene di liquido infiammabile, col quale, sfregando sopra uno stecchino fosforico, all'istante mettevano in fiamme ogni cosa..... Le ville, altravolta orgoglio di Messina, sono oggi un mucchio di rovine; i giardini, che ne faceano il più bello ornamento, non esistono più. Per due miglia, non solamente dentro, ma anco fuori le mura, tutto è rovina. Neppure le chiese furono salve ». Il Débats, giornale fieramente ostile ai Siciliani, sulla fede di un suo corrispondente, andato appositamente a Messina per contraddire a' racconti che se n'erano divulgati, pubblicava addì 21 di settembre: « Questa città, che la sua bellezza dovea fare rispettare, oggi è distrutta; non esiste una casa che non sia in rovina». Tre mesi dopo lord Temple scrivea al visconte Palmerston: « L'ammiraglio francese Baudin mi ha riferito, ch'egli era andato personalmente per vedere la città di Messina ed i suoi dintorni e per convincersi della verità de' fatti, e ch'era per lui evidente, che la principale distruzione delle vite e delle proprietà non ebbe luogo per legittimo oggetto di guerra, ma nello intento di esterminare gli abitatori, e di saccheggiare ed ardere le loro case, ed anco probabilmente per incutere terrore alle altre città ». E l'ammiraglio Baudin era così benevolo e divoto al re di Napoli, che da lui, per i prestati servigi, ebbe in ricompensa degli ordini cavallereschi. Nella relazione officiale e segreta scritta dal console inglese di Messina e diretta a lord Temple, addi 14 di dicembre, si legge : « Il saccheggio e l'incendio cominciarono a tre miglia a mezzogiorno della città, ed eccettuate dodici o quattordici case, il fuoco consumò gli interi sobborghi sino alla fine della via Cardines, lasciando una estensione di tre miglia e un terzo di edifici in rovina. A' monti di pietà di Sant'Angelo de' Rossi e Monticello furono rapiti tutti i pegni, e all'ultimo di essi fu appiccato il fuoco. Il villaggio del Santo ed una parte del casalotto de' Cammari furono saccheggiati, arsi e rasi a terra. Le case rurali di molti poveri contadini sparse su lungo tratto di campagna furono ridotte in cenere, e gli armenti uccisi.

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