La più gran parte del bottino fu da' militari in piccole barche trasportato in Calabria. Calcolo che un terzo dei cittadini sia rimasto senza casa e in completa miseria. Il 7 settembre le truppe erano padrone della città; ma il saccheggio continuò sino alla mattina dell'8, e l'or. dine fu in parte ristabilito il 9. Potrei narrare molti fatti di speciale crudeltà; ma mi limiterò a pochi, dei quali conosco personalmente l'autenticità. B. Calabrò, contadino industrioso, fu preso prigione colla sua famiglia, mentre fuggiva dalla sua casa, alla quale era stato appiccato il fuoco. Si avviavano scortati verso la cittadella, quando alcuni soldati, armati di grosse mazze, colpirono Calabrò ed il suo genero, e tutti e due li uc. cisero alla presenza delle mogli e dei figli. Francesco Bombace, agricoltore ottuagenario, fu trucidato nel suo letto. Letterio Russo, colorista, abbandonò la sua casa, ma non potè trasportare in luogo sicuro la sua tiglia in. ferma: ritornato poco dopo, la trovò assassinata: la sua testa e le sue mammelle erano state staccate dal corpo. Antonio Giamboi, farmacista dell'Ospedale civico, tentava fuggire con suo figlio Giuseppe e con Antonio Germito suo nipote: i soldati lo arrestarono e gli chiesero da. nari: egli dètte loro once cento; e non ostante il figlio ed il nipote furono morti a' suoi piedi. La figlia di un tal Giacomo e molte altre donne, che s'erano ricoverate nella chiesa della Maddalena, furono quivi violate e ammazzate. Circa trenta storpi, fuggiti dall'ospizio di Collereale, furono arsi in quella medesima chiesa. Quivi molta gente perdette la vita, ma è difficile saperne il numero e le condizioni, perchè il monastero e la chiesa furono distrutti dalle fiamme. Due donne furono stuprate e morte nella chiesa di Gesù e Maria del Giacato. Il sacerdote Di Maggio, cappellano di San Clemente, fu trucidato nella chiesa. Giuseppe Andò ed una sua figliuola furono trapassati dalle medesime palle, come Giacomo Severino ed un suo bambino. Luigi Parisi, benchè pazzo, e Onaggio Amato, benchè nano, furono anch'essi uccisi dai soldati. Alla Zaera un marito ed una moglie furono insieme buttati giù da un terrazzo..... Quattro paralitici furono fatti a pezzi nell'Ospizio di Collereale... L'aspetto della città e delle campagne, per le quali passarono le truppe, è tristissimo: per tre miglia all'intorno l'occhio non vede altro che desolazione. In città quasi tutte le case, più o meno, soffrirono i danni del bombardamento. Alcuni edifici della marina patirono guasti immensi: molti palazzi e case completamente distrutti. Eccetto il signor Kilian, console greco e bavaro, la cui casa fu saccheggiata ed egli stesso ferito a morte dai soldati, le persone e le residenze de' consoli esteri non furono molestate. Le chiese de' Dispersi, della Maddalena, di San Domenico ed una parte di quella di San Filippo furono spogliate delle loro argenterie, e quindi arse. I soldati entrarono nella chiesa di San Clemente, gittarono a terra le ostie consacrate, e portarono via i vasi sacri e le gemme che v'erano. Il palazzo del Comune, uno de' più belli edifici della marina, fu arso, e molti dei principali edifici della città soffrirono più danni per gli incendi del dì 7, che non durante tutto il lungo periodo della guerra ». Che più? vuolsi la confessione degli stessi vincitori? Il marchese Di Cassibile, sindaco della città per il governo regio, pubblicava addì 12 di settembre la seguente notificazione: << Dovendosi dal sindaco di questa città provvedere agli alloggi militari, per lo poco numero delle abitazioni delle quali può farsi uso, stantechè le altre sono incendiate o distrutte, ven gono invitati e pregati i cittadini tutti, che da questa trovansi assenti, e le cui case abitabili sono chiuse, a restituirsi in città, o a spedire persona di loro fiducia per aprirle ». Addi 10 di settembre il generale Filangieri segnalava col telegrafo al ministro della guerra in Napoli : « Gl'incendi sono cessati ». Ed eran tre di che le truppe regie erano padrone della città! L'avviso fu stampato nel giornale ufficiale di Napoli, ed è rimasto là come prova solenne della più feroce vendetta che mai un Borbone abbia compiuta. Cosi cadeva Messina. CAPITOLO XIV. CONTINUAZIONE DELLE COSE DI NAPOLI E DI SICILIA 339 La gioia grandissima, che recò alla corte di Napoli la caduta di Messina, fu da indi a non molto amareggiata dalla rivoluzione viennese: alla baldanza, come sempre, seguì la paura; come sempre, il governo napolitano, per scongiurare questa nuova tempesta, cominciò a sparger voci di mutamenti in pro' di libertà, e si affrettò a convocare i numerosi collegi elettorali, che sin dal luglio non erano in parlamento rappresentati. Gli elettori, dalla loro parte, non trasandarono questa occasione per manifestare la loro avversione a que' modi sleali e tirannici di reggimento, e per mostrare come tenessero in pregio gli onesti e liberi uomini dalla corte perseguitati. Il distretto di Napoli eleggeva Aurelio Saliceti; la città dava i suoi suffragi a Giovanni Manna, che sedette nel ministero preseduto da Carlo Troia; a Luigi Settembrini scrittore animoso; a Guglielmo Pepe, ch'ebbe più cara l'indipendenza dell'Italia che il favore del re; ad Ignazio Turco, giovine popolano di animo libero e italiano. Lo stesso fecero le provincie: fra quarantadue eletti non se ne contarono che quattro o cinque non sgraditi alla corte. Le persecuzioni del governo e la prepotenza bestiale delle milizie non bastavano a scoraggiare gli scrittori: il giornale l'Arlecchino flagellava ridendo i nemici della causa italiana, e provava chiaramente come questo genere di letteratura non sia proprietà esclusiva delle nazioni oltremontane: il Nazionale soppresso, ricompariva col nome d'Indipendente; soppresso altravolta, intitolavasi Indipendenza; alla terza volta rinasceva senza nome e col motto: Qui vult capere capiat. Non è a dire a quanti pericoli si esponessero gli scrittori de' liberi giornali: tutti i di erano la loro libertà e la loro vita minacciate: più volte sopportarono oltraggi ed ingiurie gravissime dalla shirraglia e dalla soldatesca; più volte videro i loro uffici invasi da codesti manigoldi, spezzati i torchi, lacerati i fogli, tutto guasto e messo sossopra; ma non per questo inviliano. La paura dei moti viennesi duro poco nella corte, la quale ebbe moltissimo a rallegrarsi, allorchè Gaeta accolse il fuggitivo pontefice, e diventò sede e convegno di tutti i nemici dell'Italia. Il parlamento era stato prorogato pel di 30 di novembre: sei giorni prima comparve un decreto, il quale, allegando le complicazioni politiche sopravvenute, la guerra con la Sicilia non ancor fornita, e la sollevazione di un paese vicino, nuovamente lo prorogava pel di primo di febbraio; ed era quello appunto il giorno, in cui, a tenore dello statuto, non avrebbe più potuto riscuotere le pubbliche imposte, senza riceverne nuova facoltà dal parlamento. Così per libidine di dispotismo si mettea il parlamento nella im. possibilità di acconsentire alle dimande de' ministri, e questi nella necessità di violare lo statuto. Venne frattanto il dì 29 di gennaio. Voleano i cittadini festeggiare l'anniversario della conceduta costituzione; ma il governo costituzionale si oppose, riempi le vie di soldati, fece assalire e manomettere chi acclamava lo statuto, che pur era la legge fondamentale dello stato: di poi, al solito, non gli offensori, ma gli offesi furono chiusi |