in carcere, e sottoposti ad iniquo giudizio, che ancor dura mentre io scrivo. Riapertosi il parlamento, la camera de'deputati, invece di sottoporre ad accusa i ministri, di niegar loro la facoltà di riscuotere le pubbliche imposte, di dichiarare tradimento alla patria comune non meno la guerra con la Sicilia che la pace coll'Austria, contentavasi di deliberare fosse presentata una rimostranza al re, per esporgli, con miti parole, le colpe de'suoi ministri, ed ossequiosamente pregarlo volesse affidare ad altri uomini più degni il governo dello stato. Compilato quello scritto e letto in pubblica assemblea, fu approvato alla quasi unanimità di suffragi; ma il re non volle riceverlo; ed i ministri per mostrare sempre più in qual conto tenessero la camera, lo statuto e la loro propria fama, alcuni de'deputati nuovamente eletti ritennero in carcere; al Saliceti, ch'era a Roma, niegarono il permesso di rientrare nel regno; al Leopardi, allo Spaventa e al Massari, ch'erano a Torino, non lo concedettero che con deliberato animo d'imprigionarli. La camera, che non vedea giammai i ministri continuava a discutere e a deliberare delle buone e savie leggi, che per mancanza di sanzione reale rimaneano ineseguite, di che molto rideasi in corte. Nè solamente il riso e gli sbeffeggiamenti erano la risposta data alle deli. berazioni de'rappresentanti del popolo: il Conforti, per aver posto il partito, si cancellasse dal codice militare la pena del bastone, fu minacciato di morte dagli ufficiali dell'esercito: il barone Mazziotti, deputato del Cilento, in una delle più popolose vie di Napoli, fu assalito da' birri cogli stiletti e gravemente ferito. Il parlamento, all'unanimità di suffragi, e senza esserne richiesto dal ministero, autorizzò la continuazione della riscossione delle imposte; il re niegò la sanzione alla legge, e con esempio unico , nelle istorie de'più tristi e derisori reggimenti costituzionali, continuò a riscuotere illegalmente quelle medesime imposte, ch'ei poteva legalmente riscuotere. Neanco a questo stancossi la mirabile pazienza del parlamento napolitano. Due volte il re di propria autorità, e senza il consentimento del potere legislativo, avea mutato la legge elettorale. La camera de'deputati, per prevenire lo scandalo di una nuova violazione di ciò che costituisce il fondamento di ogni statuto, deliberò che si avesse per legale e diffinitiva l'ultima legge elettorale, che al re ed a' suoi ministri era piaciuto di pubblicare. Erano quarantatre giorni che durava questa gara di arbitrio e d'insolenza da una parte, di moderazione e di tolleranza dall'altra, quando addi 13 di marzo entrò nella camera il principe di Torella ministro del commercio, il quale, dopo aver susurrato qualche parola nell'orecchio del comandante della guardia di sicurezza, consegnò una lettera sigillata al presidente dell'assemblea. Il comandante dà ordine a'suoi militi di caricare i fucili: il presidente apre la lettera e vi trova il decreto che dichiarava sciolto il parlamento. Il popolo, ch'era numerosissimo nelle loggie, comprese il triste messaggio, e mestamente uscì; uscirono i deputati per la terza volta in un anno cacciati dal palazzo legislativo. I cittadini, ovunque li vedeano, li salutavano con mesto affetto, e ripetean loro: << Salvatevi, salvatevi, seppure sarete in tempo.» Le donne al loro passaggio piangevano, dell'avvenire presaghe. La città rimase deserta e silenziosa; in corte era festa: birri, preti, soldati, cortigiani e quanto Napoli accoglie di più tristo e corrotto gavazzavano insultando al pubblico lutto. Verso sera insolita nebbia coprì quel cielo limpidissimo: il Vesuvio muggiva, eruttando dal suo cratere tetro fumo e sanguigne fiamme. Al popolo napolitano, immaginoso, facile alle ubbie e profondamente commosso, parvero quelli segni manifesti dell'ira di Dio; e veramente se la natura avesse senso umano e infrangere potesse le sue eterne leggi, avrebbe manifestato il suo dolore alla vista di tante scelleratezze. Frattanto la caduta di Messina era stata annunziata al parlamento siciliano dal La-Farina ministro della pubblica istruzione, con le seguenti parole: « Messina avea giurato di lasciarsi disfare anzicchè cedere, ed ha mantenuto il suo giuramento. Messina è stata incenerita, non vinta! A questo prezzo un popolo si rende degno della libertà.>>> Egli continuò narrando i fatti sino allora noti, esortando il popolo a guerra impietosa ed esterminatrice, e concluse dicendo: << Prima della rovina di Messina venire a patti co'Borboni sarebbe stato errore e vergogna; dopo il sacrificio di Messina sarebbe tradimento ed infamia.» Queste parole dette da chi avea in Messina madre, fratello e congiunti, de'quali ignorava la sorte, ebbero immensa efficacia negli animi degli ascoltatori, e giovaron molto a infiammarli, senza dar luogo allo sgomento; imperocchè ne' momenti supremi il popolo par che chieda a' suoi reggitori la spiegazione delle grandi catastrofi, ed avutala generosa e magnanima, la fa sua e la rende potente. Risaputo il disbarco de' regii in Messina, il ministro delle finanze Cordova chiese autorità dal parlamento di pegnorare in beneficio dello stato le argenterie, le gemme e gli oggetti preziosi appartenenti alle chiese, a' conventi, a tutti i luoghi pii ecclesiastici e laicali, eccetto i vasi sacri indispensabili al culto. « Vedete, egli dicea, il popolo dà il suo sangue; i possidenti lasciano ardere le loro case e dare il guasto alle loro campagne, ma i ricchi capitalisti che danno? Ebbene, io non voglio far violenza all'egoismo di questi codardi; io non voglio, coll'autorità , che mi dà il pericolo della patria metter le mani nelle loro casse: io voglio un pezzo d'argento per buttarlo in viso a queste anime di fango, e dir loro: prendete; datemi il vostro denaro.» Applausi fragorosissimi accolsero queste parole: il nome di Cordova diventò caro al popolo; a' ricchi, odioso e sospetto. Il decreto andò a partito ad acclamazione nel medesimo giorno, e nelle due camere, non ostante che in quella dei pari sedessero gran numero di vescovi e di abati; ma poco fu il vantaggio che ne ricavò la finanza, perchè Messina era in mano de'regii; le argenterie di Catania e di Siracusa non furono mandate; e quelle di Palermo e delle altre città non dettero che cinquantamila once circa (lire 625,000), per poco vigore delle commissioni a ciò deputate. La banca non avea più moneta: l'ultimo residuo era stato mutuato al governo per soccorrere Messina: sospendere i pagamenti fu quindi necessità. Di poi vennero gran numero di decreti per cose di guerra: data facoltà al potere esecutivo di mobilizzare parte della guardia nazionale; chiamati sotto le armi i congedati siciliani dell'esercito napolitano dal 1834 in poi per tempo fornito; messi a disposizione del potere esecutivo tutte le grate e cancelli di ferro de'pubblici stabilimenti, non che i candelabri e i condotti del gaz per usarne nelle fonderie dello Stato; ordinati in compagnie d'interna sicurezza tutti gli ecclesiastici, nel caso che la guardia nazionale di un municipio dovesse uscire contro a'nemici; autorizzato il potere esecutivo a condurre al servizio della Sicilia uno o più generali e quaranta ufficiali dell'artiglieria e del genio di qualunque estera nazione : si fornisse l'artiglieria ed il treno con cavalli e mule presi in prestito da'particolari, si costruissero picche di ferro da distribuirsi al popolo; si ordinassero in un battaglione tutti gl'impiegati de'dazi civici di Palermo; si spedissero predicatori ecclesiastici di guerra in tutti i comuni della isola; si approvvisionasse la capitale con viveri per cinquanta dì. E perchè neanco gli argomenti religiosi mancassero, fu fatto voto d'edificare in Palermo un tempio a Nostra Dama della Vittoria nella nuova via della libertà. Frattanto La Masa, colle squadre palermitane, giungea a Spadafora, e là incontrate le truppe regolari, che muoveano verso Messina, si riuni con esse e a Milazzo fecero ritorno. La disciplina, che fu sempre poca nelle squadre, si spense affatto nel disordine di quella improvvida ritirata. Nacquero vituperevoli tumulti: invano il governo ordinava di tener fermo in quella piazza forte e munita: Milazzo fu vilmente abbandonato, ed il governo accusato di aver lasciato quel castello senza armi e munizioni, mentr'egli era fornito di ventiquattro cannoni di grosso calibro, di otto da campagna, di duemila fucili, di ventunmila e cinquecento chilogrammi di polvere, di centomila cartucce, quattordicimila razioni di vettovaglie e seimila once di danaro; ed il ministero dovette per allora tacersi per non togliere riputazione alle armi siciliane, e non nuocere alle intraprese negoziazioni. Imperocchè il vice-ammiraglio Parker, saputo l'eccidio di Messina, avea scritto a Lord Napier, e narrata << la magnanima difesa de' Siciliani, e la ferocia delle truppe regie », chiedea una sospensione di guerra in nome della umanità. Napier domandò allora al governo napolitano un armistizio « da durare sinchè fossero conosciute le risoluzioni della Francia e dell' Inghilterra (1); » e presso a poco ne' medesimi termini scrisse al principe di Cariati il signor di Rayneval (2); se non (1) Nota di Lord Napier al principe di Cariati. Napoli, 1 settembre 1848. (2) Nota del signor Rayneval al principe di Cariati. Napoli, 10 settembre 1848. |