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l'avvocato Galeotti, ministro di grazia e giustizia; Livio Mariani, ministro delle finanze; lo Sterbini ministro del commercio e dei lavori pubblici; il Campello ministro delle armi.

Oramai il parlamento non avea più ragione di esistere, essendo caduti in fatto gli ordini dello Stato ch'eran suo fondamento: già l'alto consiglio più non radunavasi, e teneasi come cessato; ed il consiglio de'deputati niente potea, perchè le sue attribuzioni presupponeano l'esistenza del principato costituzionale, venuto meno per la assenza del principe e de'suoi legali rappresentanti; per lo che la giunta di Stato, addi 26 di dicembre, chiuse il parlamento, e addi 29 pubblicò un decreto, il cui proemio dicea così: « Dopo avere la giunta di Stato, in accordo col ministero, rivolta ogni sollecita cura per apprestare la legge sulla convocazione dell'assemblea generale dei deputati del popolo richiesta da tutto lo stato, e comandata dalla gravità delle attuali politiche nostre condizioni, e per ottenere che venisse dai consigli ac. colta e decretata, affinchè un consenso universale dasse un modo di governo forte ed uno, che durasse contro l'urto minacciato delle divisioni e della dissoluzione sociale; videro, la giunta ed il ministero, perdute le cure loro, avvegnachè i consigli deliberanti, per mancanza di numero legale, non che approvarla, non giunsero neppure a discuterla. In questo mezzo sorgeva altro ostacolo colla rinunzia data dal principe senatore Corsini, per la quale restava priva la giunta di un membro. D'altra parte incalzava più e più l'urgenza, e crescevano i pericoli ad ogni ora d'indugio; a tal che il ritardare quel provvedimento che si presentava come unico mezzo di salute, era un perdere lo Stato, e tradire la fiducia dei popoli. Il perchè i componenti il ministero ed i rimasti della suprema giunta videro che, trovandosi essi al potere, al cospetto di tanto pericolo, era debito loro di farsi maggiori delle difficoltà; e promulgata immediatamente quella legge, sostenere intanto provvisoriamente il peso del governo fino alla convocazione dell'assemblea, integri lasciando i diritti di chicchessia. Qualunque legalità potesse mancare, viene supplita dalla suprema legge della salute pubblica, la quale sana ogni atto che vi conduce. Il popolo non può rimanere senza un governo; un popolo che vuole deliberare intorno ad esso, non può non ascoltarsi: laonde noi provvedendo provvisoriamente a quello, e secondando questa concorde volontà dei popoli, cediamo all'impero d'una necessità per la salute universale. Perciò condotti da questa suprema legge, proseguiremo a reggere provvisoriamente la cosa pubblica coll'incombere ciascuno alle funzioni dei nostri ministeri, e col deliberare unitamente per tutto quanto eccede le speciali facoltà di ciascuno ». E qui seguiva un decreto, col quale era convocata in Roma un'assemblea con pieni poteri, ad oggetto di prendere quelle deliberazioni che giudicherebbe opportune per determinare i modi di dare un regolare, compiuto e stabile ordinamento alla cosa pubblica: si convocherebbero i collegi elettorali pel dì 21 di gennaio: dugento sarebbero gli eletti, in ragion di due per ciascun circondario elettorale: il suffragio diretto ed universale: sarebbero elettori tutti i cittadini dello Stato di anni ventuno compiti, che vi risiedono da un anno, e non sono privati o sospesi dai loro diritti civici per disposizione giudiziaria; eleggibili i medesimi dall'età di venticinque anni compiti: l'elezione al capoluogo del circondario elettorale: lo squittinio, segreto: niuno potrebbe essere nominato rappresentante del popolo con meno di cinquecento suffragi: ciascun rappresentante del popolo riceverebbe una indennità di scudi due al giorno: l'assemblea si aprirebbe in Roma addi 5 di febbraio (1).

In questo decreto non era parola di repubblica, nè di pontefice: incitamento niuno a tale o a tal altra forma di reggimento. Il popolo era chiamato ad eleggere i suoi rappresentanti, perchè costituissero lo Stato in quel mo. do, che alla maggioranza de' cittadini sarebbe piaciuto. Al popolo oramai stava il deliberare s'egli volea viver libero o in servitù.

(1) Documenti, vol. II.

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CAPITOLO III.

DELLA TOSCANA SINO ALLA FUGA DI LEOPOLDO II.

Mentrechè le cose narrate ne'precedenti capitoli seguivano nello Stato romano, gravi mutamenti avean luogo nella vicina Toscana. Sin dall'agosto dell'anno 1848 eran cresciuti e ringagliarditi i tumulti livornesi, de'quali si fece allora un gran dire per tutta Italia. L'occasione fu l'arrivo a Livorno del padre Gavazzi, il quale chiedea transitare per la Toscana, d'onde era stato scacciato, per recarsi a Bologna. Ad onta del divieto del governatore, i Livornesi accoglievano in città il frate, acclamavanlo, festeggiavanlo, ed una parte della guardia civica andava in armi a custodire il suo albergo per sicurezza ed onore. Il ministero, accortosi del commesso errore, ordinava che il Gavazzi potesse passare per Firenze, e gli mandava un salvo. condotto; ond'ei si partiva accompagnato onorevolmente da una deputazione di Livornesi, e regalato di una ricca bandiera tricolore, dono de'popolani di quel quartiere della città, che prende il nome di Venezia; ma giunto a Signa, e'si vide circondato da carabinieri, cacciatori a cavallo, guardie civiche e contadini de'dintorni, e fu ignominiosamente condotto per la strada di Pistoia a'confini dello Stato; la bandiera gli fu tolta: oltraggi gli furon fatti: dei Livornesi due lo accompa gnarono, gli altri dieci andarono, o furono menati a Firenze. La mattina del dì 23 di agosto, risaputisi a Livorno quei fatti dalla fama accresciuti ed esagerati,

il popolo si levò a rumore con impeto e furore maraviglioso: il governatore Lelio Guinigi, onest'uomo, fu incarcerato; le porte della fortezza atterrate: il popolo dà di piglio alle armi, suona le campane a stormo: la guardia civica non si mosse; de'magistrati ed ufficiali del governo chi fuggiva, chi appiattavasi, chi non aveva alcuna autorità o forza per frenare quell' inatteso sollevamento, onde pareva avere a rovinare la città. Il circolo livornese, invitati molti altri cittadini, con l'intervento del gonfaloniere Michele d'Angelo, radunavasi nel teatro Caporali per deliberare il da farsi in quelle supreme congiunture. I popolani in armi invadevano quel luogo, gridando: « Vogliamo un governo provvisorio ». Pregati a ritrarsi, dopo non poche difficoltà si ritraevano; e gli adunati, aggiunti alcuni cittadini in favore di popolo al magistrato municipale, spedivano oratori a Firenze, e facevano non solainente liberare il governatore, ma anco applaudirlo e festeggiarlo, quasi in compenso della sofferta ingiuria. L'indomani ritornavano gli oratori da Firenze, e con loro quei Livornesi, che erano andati per accompagnare il Gavazzi, non che la bandiera: e'recavano, in nome del principe, parole di pace e di obblio, per le quali gli animi racchetaronsi, l'ira fu smessa il furore attutito e tutto parve ricomposto in calma. Ma il dì seguente, l'imprudenza de'capi della guardia civica offrì occasione a più grave tumulto, col far distribuire pubblicamente armi e munizioni a quei militi che non ne erano provveduti. Il popolo era mal disposto contro alla guardia civica, dalla quale era per legge in gran parte escluso; e di corruccio e disdegno non lieve era stata cagione la distinzione di guardia attiva e di riserva. Già i primi drappelli di militi erano stati armati: il

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