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prio, » con il libro della Volgare Eloquenza, e' si accinse a dimostrare l'eccellenza del patrio idioma, per il quale l'animo suo «ardeva di perfettissimo amore (1) »: e fieramente s'indignava contro a questi < abbominevoli cattivi d' Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare; lo quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona sulla bocca meretrice di questi adulatori. » Gli effetti mirabilissimi di questo suo volgare quel sommo ingegno prevedea, ed il futuro trionfo ne celebrava: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l'usato (cioè il latino) tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscurità per l'usato sole, che a loro non luce (2). » E acciocchè questa lingua nuova da volgare diventi aulica, e' raccoglie i migliori frutti de' suoi studi, e ne imbandisce un Convito, al quale possano cibarsi tutti quelli che han fame di sapienza e di civiltà.

Dante bramava la riedificazione dell' impero romano sulle fondamenta della libertà municipale; e rivolgeva anch' egli i suoi sguardi al di là delle Alpi. Si adira che Alberto Tedesco abbandoni l'Italia <<< fatta indomita e selvaggia » che soffra « il giardin dell' imperio sia deserto » che lasci Roma vedova e sola chiamare dì e notte: <<< Cesare mio perchè non mi accompagni? (3) ». E quando il giusto giudicio delle stelle cade sul sangue d' Alberto, egli apre il cuore alla speranza per la venuta in Italia di Arrigo di Luxemborgo, il quale, come scrisse Dino Compagni, « venne giù discendendo di terra in terra, mettendo pace come fosse un angelo di Dio (4)». Allora il poeta, dimentica la povertà, la vita raminga,

(1) Convito, Tratt. I, c. xu.
(2) Consito, Tratt. I, in fine.
(3) Divina Commed. Purg. vi.

(4) Cronaca fiorentina, l. III.
Storia d'Italia.

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il bando iniquo, ed annunziando venuto il dì della redenzione, predica pace, letizia e gloria, esorta principi e popoli a dar luogo all' Augusto, ed invita a civile concordia chi più avea ragione di vendicarsi. « Voi, egli dice, i quali oppressi piangete, sollevate l'animo, imperocchè presso è la vostra salute. Perdonate oggimai, o carissimi, che con meco avete ingiuria sofferta, acciocchè il celestiale pastore voi mandria del suo ovile cognosca. Venghiate adunque tutti, e levatevi incontro al vostro re, o abitatori d' Italia, e non solamente serbate a lui ubbidienza, ma come liberi il reggimento. » Le quali parole mostrano, com'egli non intendesse dare all Italia un padrone, che le rapisse il libero reggimento; ma una suprema autorità unificatrice, che in termini di concordia e di pace i discordevoli comuni riducesse. Ed Arrigo, giunto a Roma, «O Quiriti, diceva, io vengo per rialzare l'antico impero, senza il quale ciascuno di voi diverrebbe barbaro, e viverebbe ignorato dalle genti; >>> e faceva sul Campidoglio suonare queste parole, che dovevano avere un eco lontano ne' nostri giorni: «Dio e Popolo (1) ». Ma il pontefice, sino a quel di stato favorevole ad Arrigo, gli si rivolse contro e lo ricinse d'insidie; l'angioino Roberto, che temeva perdere il regno di Napoli, prese le armi contra di lui: i comuni, della loro libertà gelosi, i tirannelli, nella loro potenza minacciati, gli niegarono ubbidienza: ed egli, abbandonato, tradito e combattuto, andò a morire a Buonconvento, non senza sospetto d'essere stato da un frate nell' ostia consacrata avvelenato.

In quel tempo scriveva Dante il suo trattato della Monarchia, da molti censurato, da pochissimi letto, e che

(1) JORDANUS, Chronicon.

pure, spoglio di quella veste scolastica, che doveva renderlo gradito a' dotti di quel secolo, è la più eloquente scrittura politica, che sino a quei dì fosse stata scritta. Movendo dal domma cristiano dell'unità di Dio, egli deducevane la perfezione risiedere nell'unità: quindi percorrendo la storia di tutti i reggimenti, trovava il perfettissimo nel romano, che con antiche tradizioni, santificate da credenze religiose, faceva predestinato dalla Provvidenza al governo del mondo civile. Queste dottrine erano patrimonio del secolo, e si trovavano in tutti i trattati politici de' contemporanei, fra' quali basti nominare il massimo degli scolastici, Tommaso d'Aquino. Ma chi doveva tenersi ed osservarsi come successore ed erede della romana autorità? Qui le opinioni si dividevano; qui le liti e le contenzioni nascevano. Allegavansi le sacre scritture i santi padri, Aristotile, Virgilio, Ovidio, i concilii, le leggi di Giustiniano e le decretali de' papi; e fra sillogismi, storie, visioni, profezie, tradizioni e favole, gli animi si inacerbivano, le passioni si accendevano, il buon senso si smarriva, le ire cittadine si scatenavano, e fieramente combattevano città contro città, parte contro parte, famiglia contro famiglia. Dante col suo trattato, che come un gran sillogismo divise in tre proposizioni che chiamò libri, sperò stenebrare le menti degli illusi, convincere e svergognare i sofisti, ridurre a concordia gli uomini di buona volontà e dopo avere ne' primi due libri esposte le dottrine in quel tempo non contestate, nel terzo libro, elevandosi come aquila al disopra de' suoi contemporanei, entra nel vivo della contesa. Quivi con potenza intellettuale rarissima, con mirabile chiarezza di dettato, con raziocini semplici ed atti a convincere i meno intendenti, egli individua e scevra le ragioni della chiesa e dell'impero, dimostra l'incompatibilità del dominio temporale col ministero sacerdotale, e vagheggia l'Italia risorta una, potente, gloriosa, primate fra tutti i popoli di civiltà latina. « É però da avvertirsi, e' soggiunge. che quando si dice il genere umano poter essere retto da un solo principe, non si deve intendere che da lui possano derivare i municipi e le leggi municipali, imperocchè le nazioni, i regni, le città hanno delle proprietà particolari, che fa d'uopo regolare con diverse leggi (1). » Per intendere le quali parole bisogna rammentarsi, che impero e repubblica non erano allora termini contrari; che le libertà non erano universali, ma locali e municipali; e che la supremazia dell'impero su tutte le nazioni di civiltà latina non era in diritto contestata da alcuno, sebbene in fatto si riducesse, più ch'altro, a una preminenza di onore. Non è quindi vero, come qualche scrittore ha detto, che Dante non avesse alcuna idea della nazionalità italiana, e che la sua unità fosse cosmopolita; cosmopolita ell'era in quanto all' impero, italiana in quanto al reggimento.

La Divina Commedia è tutta in germe nel trattato Della Monarchia, e nel medesimo tempo questo è il comento scientifico di quella. Iura monarchica cecini, dice l'epitafio posto sul suo sepolcro a Ravenna, e che a lui stesso è attribuito: le due opere erano per lui un'opera sola; ma la Chiesa non osò condannare la Divina Commedia, che sino dal suo primo apparire diventò quasi sacra per il popolo, e rivolse le sue armi contra al trattato, per il quale il cardinale del Poggetto, legato del papa, voleva fare ardare le ossa del sommo poeta. E avvegnachè Dante sperasse rappacificarsi con la sua Firenze, in grembo della quale, « con buona pace di quella, desiderava con tutto il cuore di riposare l'animo stanco e terminare il tempo che gli era dato (2); » nondimeno,

(1) De Monarchia, l. ш.
(2) Convito, tratt. I, c. III.

non potendo frenare l' impeto dell' ira sua magnanima contra chi rendea divisa ed ismembrata l' Italia, esclamava: «O stoltissime e vilissime bestiuole, che a guisa d'uomo vi pascete, che presumete contro a nostra fede parlare, e volete sapere filando e zappando ciò che Iddio con tanta prudenza ha ordinato. Maledetti siate voi e la vostra presunzione, e chi a voi crede (1)! » E forse in quel tempo e' lasciava prorompere dal suo petto quella divina canzone: «O patria degna di trionfal fama, >>> nella quale proponeva a Firenze di scegliere fra l'unità ghibellina e la disunione guelfa, con le sublimi parole:

<< Eleggi omai, se la fraterna pace

Fa più per te, o 'l star lupa rapace. >>>

Dante vedeva « nel bel paese là dove il sì suona » le terre feconde, i campi rigogliosi, le città bellissime, ricche, ben popolate, piene di ogni arte utile e dilettevole, « per la qual cosa molti di lontani paesi le venivano a vedere, non per necessità, ma per bontà de'mestieri e arti, e bellezza e ornamento delle città (2). Vedeva i porti italiani pieni di navi, e queste solcare tutti i mari noti, scoprirne degli ignoti, conquistare nuove terre, fodarvi delle colonie sorgenti di nuove ricchezze. Vedeva i commerci, le industrie e gli studi prosperare in tutte le città d'Italia; e le opere d'ingegno e di mano degli italiani essere dagli stranieri ammirate ed invidiate: e l'animo suo gioiva e divenia superbo per tanti elementi di potenza e di gloria. Ma nel medesimo tempo egli considerava le città divise e nimiche; i cittadini per loro superbia e per loro malizia e per gara di uffici vituperare le leggi, e barattare in

(1) Ib., tratt. IV, c. VIII.

(2) DINO COMPAGNI, Cron., 1. 1

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