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<< Ad nom mortal non fu aperta la via
Per farsi, come a te, di fama eterno:
Che puoi drizzar, s'io falso non discerno,
In stato la più nobil monarchia. >>>

E già immagina la letizia di grandi Scipioni, del fedel Bruto, e di Fabrizio, e pargli udendo la novella, dicano:

« Roma mia sarà ancor bella. »

Cola di Rienzo, commentando al popolo romano la lex regia di Vespasiano, le parole pomarium Romae spiegava << il jardino di Roma, cioene Italia. » Ma e'vestiva di seta e d'oro, teneva lo scettro, il globo d'oro e la croce d'oro; e non bastandogli una corona, di sette corone si cingeva la fronte. Or non era così che i Gracchi si procuravano la fiducia e l'amore del popolo! L'audace tribuno, come scrisse un contemporaneo « fue nutrito di latte de eloquenza, bono grammatico, migliore rettorico, autorista bravo...... Molto usava Tito Livio, Seneca e Tullio e Balerio Massimo; molto si dilettava le magnificentie di Julio Cesare raccontare. Tutto die se speculava negli intagli de marmo, li quali jaciono intorno a Roma. Non era altri che esso, che sapesse lejere li antichi pitaffi. Tutte scritture antiche volgarizzava, tutte fiure di marmo justamente interpretava (1). » Le quali lodi ci spiegano le cagioni dell'ammirazione de' dotti e della indifferenza del popolo. Gli alti intelletti si volgevan tutti al culto dell'antichità: la lingua volgare era nuovamente posposta alla latina: Petrarca otteneva il poetico alloro, non per le sue soavissime canzoni, ma per il poema latino l'Africa, e Boccaccio sperò fama, non dalle sue leggiadre novelle che lo resero immortale, ma dalla Genealogia degli Dei, dove cose morte volle far rivivere in una lingua morta.

(1) Vita di Cola di Rienzo, MURATORI, Rer. Ital. Script., t. III.

Dall'altra parte la licenza popolare gareggiava con la licenza principesca: i comuni eran corrotti poco meno de' principati. Boccaccio, che visse povero e infelice, e che pure scrisse di non volere cambiare un suo verso con qual si fosse dono di re, rimproverava al Petrarca di vivere in corte di un Visconti; e Petrarca gli rispondeva: << se sottostare a' maggiori è necessario, o ad uno come fo io, o a molti come fai tu, io non so qual sia più grave e molesto giogo; ma credo sia più agevole a sopportarsi la tirannide di un uomo, che quella di un popolo». Così i dotti uomini, sfiduciati del presente, si gittavano sempre più nel passato, chiedevano una favilla di vita a' ruderi della potenza e gloria latina; ma i sepolcri dell'antichità non racchiudevano che fredda cenere. Petrarca, svisceratissimo dell'Italia, aveva in abborimento i barbari, esortava gli italiani a liberarsene, ripetea loro che la natura non senza divino proponimento, avea « dell'alpi schermo posto fra loro e la tedesca rabbia, >>> scrivea a principi, a papi, a repubbliche; ma quelli, a' quali < fortuna avea posto in mano il freno delle belle contrade », continuavano a guastare « del mondo la più bella parte », e lor vita era

<<< Fastidire il vicino

Povero; e le fortune afflitte e sparte

Perseguire; e in disparte

Cercar genti e gradire,

Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo.»

Onde avea ragione d'esclamare:

« O diluvio raccolto

Di che deserti strani

Per inondare i nostri dolci campi !

Se dalle proprie mani

Questo n'avvien; or chi fia ne scampi ? (1) >>

(1) Rime Par. 1, can. XXIX.

E perduta la speranza che Italia risorgesse per opera degli Italiani, ricadde anch'egli in quell'inganno che avea rimproverato a' Ghibellini, ed esortò Carlo IV, che allora scendeva in Italia, a ricondurre la sede dell'impero a Roma, dove fumava ancora il sangue di Cola di Rienzo. Carlo promise, cinse la corona, e l' indomani si parti com' era di accordo col pontefice. Petrarca, pieno di maraviglia e d' indignazione, lo coprì di rimproveri e di maledizioni; e vedendo che nè tribuni popolari, nè principi, nè imperatori volevano o sapevano por mano alla magnanima impresa, si volse a papi, giacenti nelle corruttele della corte di Avignone, e cinque invano ne invocò. Da ultimo, d'ira generosa acceso scrisse venti eloquentissime lettere a sempiterna infamia della Babilonia d'Occidente, e quei quattro sonetti, che tutti gli italiani conoscono (1). I pontefici non se ne mostrarono offesi, ed a lui, che negli agi e negli onori visse infelice, serbò fortuna un strana ironia: i suoi funerali furono celebrati in tutte le chiese: i frati predicarono santo lui, che tutti i libri santi posponea a Cicerone, e venderono per reliquie le vesti di chi avea tuonato contra al mercimonio delle cose sante, ed a' trafficatori della popolare credulità.

Petrarca flagellava colle amare invettive quelli ch'eran cagione prima delle italiane miserie; Boccaccio col riso. De' frati, basti ciò che ne fa dire a Tebaldo degli Elisei, nella settima novella della sua terza giornata; senza contare le dipinture dei frati santificatori, di ser Ciappelletto, del monaco di Lunigiana, di don Felice, del romito rustico, di frate Alberto, di fra Cipolla e di altri frati ribaldi, nè usò riguardo alle monache, come si vede dalla novella

(1) « Fiamma del ciel su le tue treccie piova. L'avara Babilonia ha colmo il sacco - Dell'empia Babilonia ond'è fuggita - Fontana di dolore, albergo d'ira.

di Mazzetto Lamporecchio e da altre; e, quel che più conta, non ebbe paura della inquisizione, cominciando una sua novella colle seguenti parole: « Fu dunque, o care giovani, nella nostra città un frate minore inquisitore della eretica pravità, il quale, come che molto s'ingegnasse di parer santo, e tenero amatore della cristiana fede, si come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa, che di chi di scemo nella fede sentisse». Con quai colori ritraesse la corte romana, nella novella di Abraam giudeo, e come quell'audacissimo spiritoridesse de'falsi santi, delle false reliquie, de' falsi miracoli, è a tutti noto e manifesto. Però il riso del Bocaccio non era non curanza de'mali pubblici; ma un'arma nuova, rivolta con serio e grave intendimento, contro alla corte pontificale, ch'egli come Dante, tenea per cagione prima delle italiane sventure. Le licenze che s'incontrano nelle novelle eran così ne' costumi e nel linguaggio de' tempi, che nessuna ben nata persona ne rimanea offesa. Chiamarne in colpa l'autore è ignoranza o malafede: le donzelle e i giovani del Decamerone parlano, come in quel tempo nelle oneste e liete brigate usavasi parlare; essendo allora prevalsa questa massima di buona creanza che niuna sì disonesta cosa è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno. La gioia spensierata sorride sulla fronte del leggiadro novellatore; ma l'ira ghibellina freme nel petto di lui, che primo comentò in pubblico la Divina Commedia, che nelle sue epistole, deposta la maschera scenica, mostrasi qual era, dominato da profonda malinconia, e che mori di cordoglio, rammentando forse, come dice nella terza novella della sua quinta giornata, che « Roma, com' è oggi coda, così già fu capo del mondo ».

VII.

MACHIAVELLI E GUICCIARDINI.

Niccolò Machiavelli, che, per amore purissimo di libertà e per vita intemerata, sopportò la povertà, la prigione e la tortura, chiese l'unità e la libertà della patria all'ambizione, all'astuzia, alla forza, dappoichè vide l'Italia ridotta in tali termini, che parea nulla potere attendersi dalla virtù. E veramente l'uomo, ch' era stato segretario della repubblica fiorentina, che due volte era andato ambasciatore in corte dell'imperatore, due in quella del papa, quattro in quella del re di Francia, più volte appresso i principi più potenti e le maggiori repubbliche d 'Italia, conosceva tutte le riposte cagioni de'mali, e sapeva quanto difficile ne sarebbe la guarigione. Egli dimostrò <<< essere tanto laudabili i fondatori di una repubblica quanto quelli di una tirannide vituperabili (1)»; espose la felicità e le dolcezze del viver libero (2); provò i principi essere più ingrati delle repubbliche (3), la moltitudine più savia e più costante che un principe (4); più sicure le leghe e le confederazioni fatte con le repubbliche che co'principi (5); osò dire detestabile Cesare Augusto, ed esaltare la virtù dei due Bruti e la santa povertà di Cincinnato (6); osò scrivere a papa Leon X, che richiedevalo di come riordinare Firenze, la riordinasse a libertà, dimostrandogli

(1) Discorsi, 1. 1, c. x.

(2) Discorsi, 1. 11, c. 11.

(3) Ib. 1. 1, c. XXIX.

(4) Ib. l. A c. LVIII.

(5) Ib. 1. 1, c. LIX.

(6) Ib. 1. 1; c. x; 1. m, c. II, III, XXV.

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