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popolo accorse pieno d'ira e sospetto, e vedute le armi ebbe voglia di adoprarle. Un ufficiale ordina a'suoi di far fuoco; questi ubbidiscono, e cinque popolani cadon morti, più assai feriti. Allora il furore della moltitudine proruppe terribile: in un istante tutti i posti occupati dalla guardia civica sono abbandonati, o sforzati: il popolo invade l'arsenale, dà di piglio alle armi, corre per la città, dà addosso a'civici rei o innocenti: i graduati, gittato via le insegne e vesti, schifata ogni comitiva, corrono alle loro case, o cercano nascondigli in quelle dei loro amici più minuali, perchè i sollevati, ciechi per sospetto e vendetta del sangue versato, non potendo aver collera con alcuno in particolare, la voleano sfogare con tutti. Ma quella sollevazione se fu fiera, non fu meno generosa e proba: il popolo minuto mettea guardie agli uffici delle poste, ov'erano danari dello Stato, al monte di pietà, alle carceri, dappertutto ove i tristi avrebbero potuto trovare occasione di rubare, o commettere altre reità. Gli amici de'liberi ordini predicavan parole di pace e a loro univansi due eloquenti sacerdoti, l'abate Zacchi ed il padre Meloni de'domenicani: utile moderare anco il coraggio e la virtù: seguire spesso ad ottime cagioni, se non si adopra il giudizio, pessimi effetti: si perdonasse in nome di Dio e della patria a'colpevoli fratelli; nè per la reità di uno o di pochi si volessero chiamare in colpa tutti i militi cittadini. Che potrebbero di meglio desiderare i nemici d'Italia che mali animi e sedizioni e discordie e civile guerra fra di noi? Parte di popolo essere la guardia civica: se la legge non è buona, si chieda con civili modi riformare la legge. Contro agli oppressori stranieri si rivolgano le imbrandite armi; ma non si macchino di sangue fraterno in empia

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guerra. Punse e addolci questo accomodato parlare i popolani, sì che verso sera e'cominciarono a percorrere le vie della città con grossi drappelli di civici, a segno di animi concordi e rappacificati. Giungeano frattanto fuggitivi a Firenze i capi della guardia civica livornese, e spauriti, impaurivano: narravano gli accaduti tumulti stranamente esagerandoli: parlavano di furti, saccheggi, ammazzamenti: la città in preda della plebe furibonda: non sicure le vite e le sostanze: ogni mala opera permessa e lodata. Firenze prima, quindi Toscana tutta profondamente si commosse: il nome di Livorno diventò esecrato: il governo interruppe ogni corrispondenza con la ribellata città; convocò truppe a Pisa; fece commissario su quelle, con pieni poteri, Leonetto Cipriani, noto per amore all'Italia, ma uomo più animoso che avveduto e prudente. Il che risaputo, i Livornesi cominciarono in fretta e in furia a munire la loro città, e a fare apparecchi di difesa. La commissione governa. tiva, che d'accordo col municipio teneva il reggimento, composta dapprincipio del Guerrazzi (ch'era assente), del napolitano la Cecilia e di un Roberti popolano, era accresciuto co'nomi di Vincenzo Malenchini, An. tonio Petracchi, avvocato Fabbri e avvocato Gera. Il popolo adunato in piazza, come nelle antiche repub. bliche, deliberava chiedere al governo; promessa di cooperare con maggiore efficacia alla guerra dell'indipendenza; amnistia piena ed intera; riforma della procedura giudiziaria e della tariffa delle spese di giustizia; diminuzione del prezzo del sale; miglioramento della marina militare e mercantile: andasse a Firenze il Malenchini, e i desideri del popolo esponesse. Ed egli andò, e fece ritorno colla seguente risposta: la guerra dell'indipendenza essere supremo pensiero e desiderio del governo; l'amnistia sarebbe conceduta, a patto che il Cipriani fosse accolto in Livorno con l'onore e l'osservanza dovuta, e che a lui consegnate fossero le armi: per le altre domande ne sarebbe fatta proposta al parlamento, che solo avea autorità di accoglierle o di rigettarle. Di questa risposta alcuni appagaronsi, altri no; chi gridava pace, chi guerra; la commissione governativa si disciolse: il popolo fu riconvocato in piazza; e, non senza molte difficoltà, fu vinto il partito, che il commissario fosse ricevuto. Così il Cipriani entrò in Livorno, con duemila soldati di ordinanza, andandogli incontro la guardia civica e gran numero di cittadini con grande dimostrazione di onore.

La pace ebbe brevissima durata. Addi 2 di settembre il commissario Cipriani facea pubblicare ed affiggere per le cantonate una sua ordinanza proibitiva delle popolari radunanze e dei circoli. Alcuni popolani cominciarono a strapparla e a calpestarla: i carabinieri volevano opporsi: le sopite ire si ridestarono: ricominciarono le percosse e le ferite, e verso sera si appiccò sanguinosa zuffa. Suonarono le campane a stormo: la truppa adoprò non solamente i fucili, ma anco le artiglierie, il che non valse contra alla furia ognor crescente del popolo, che chiusala e ristrettala in piazza, traeva su di essa dalle finestre, dai tetti e da dietro alle cantonate, e le cagionava gravissimi danni. Atroce e scellerata guerra, senza cagione, senza scopo, senza gloria, nella quale era uguale miseria l'uccidere o l'essere ucciso! Dopo una terribile notte, il commissario si ritrasse con le truppe nella fortezza di Porta Murata. Quivi nel dì seguente vedeasi uno strano spettacolo: i popolani accostavano scale alle mura, davano vettovaglie a'soldati, e gli esortavano ad uscire e a far causa comune con loro: alcuni uscivano, altri le

munizioni e le armi consegnavano: gli artiglieri rompevano e sfacciavano i carretti de' cannoni appuntati contro alla città. La commissione governativa si era ricomposta; ma poca autorità avea: una vivandiera francese era da alcuni suoi connazionali menata in trionfo per le vie, vestita da dea Libertà, col berretto frigio in capo; ma pochi giovani gridavano evviva alla repubblica e facean plauso a quella sciocchezza: i popolani diceano non per la repubblica livornese o toscana essersi solle. vati, ma per l'indipendenza dell' Italia. Il piemontese Torres, ardito capo di partigiani, ebbe per poche ore il supremo comando della città, e con lui fu patteggiata la resa della fortezza, d'onde il Cipriani si partiva. La camera di commercio di Livorno mandava suoi deputati a Firenze, per chiedere venissero il Guerrazzi e Neri Corsini, con tutti i poteri necessarii per comporre le pubbliche faccende. Ed il Guerrazzi veniva, ma senza alcuna autorità e ufficio governativo, ed il suo arrivo annunziava con un proclama, nel quale dicea: « Il nostro nemico è il Tedesco. Onta sia a chi ha potuto vedere i nemici d'Italia in altre file che in quelle degli stranieri». Arrivava in quel medesimo tempo a Livorno, reduce dai campi lombardi un battaglione di volontarii toscani, comandato dal maggiore Ghilardi di Lucca, il quale acclamato comandante di tutte le forze livornesi, pubblicava anch'egli un proclama. << Soldato dell'indipendenza italiana, e'dicea, io non conosco altro nemico che l'Austriaco: contr'esso sono uso ad impugnare la spada; ai fratelli stendo amica la destra: e fratelli sono i nostri Toscani. Noi speriamo che non vorranno dimenticarlo, e che, prima di costringerci a disperata difesa, ricorderanno di esser noi, com'essi, liberi italiani ». Fu deliberato spedire nuovi deputati a Firenze per chiedere: oblio completo del passato; scioglimento e riordinamento della guardia civica, sì che il popolo vi fosse ammesso come la cittadinanza.

Ma in quel mezzo s'eran prese in Firenze gravi deliberazioni: il governo avea chiesto ed ottenuto dal parlamento poteri straordinarii per prevenire e reprimere i delitti politici; avea chiuso il circolo fiorentino; avea convocato contro Livorno tutte le guardie civiche di Toscana. Queste si radunavano a Pisa in numero di due o tre mila: presedeva al campo in qualità di commissario straordinario il senatore Tartini: il principe rassegnava gli armati; ma dicea e scrivea parole di pace: non sop. portare l'animo suo una guerra domestica; nè volere spingere gli uni contro agli altri i suoi figliuoli: bastare il far conoscere a'traviati come Toscana tutta abborrisse le loro massime e opere sovvertitrici. E perchè un milite sconsigliatamente gridò morte ai Livornesi, e' gli diè sulla voce, dicendo esser anco i Livornesi suoi figli, e ne mostrò dolore e disdegno.

La deputazione, andata a Firenze, ritornava in quel mezzo a Livorno, e recava un decreto del principe, col quale dichiaravasi, sciolta la guardia civica e riordinata provvisoriamente con quelle norme, che dal municipio e dalla commissione governativa sarebbero giudicate opportune. Il popolo applaudi; ma volle che in quel tempo il Guerrazzi ed il Petracchi, d'accordo col municipio, governassero la città. Più strana forma di reggimento non s'era forse veduta giammai. A poco a poco il campo di Pisa scemava: gli ufficiali del battaglione aretino si recavano a Livorno, dov'erano accolti e festeggiati con fraterno affetto; e veduta la calma della città, ritorna. vano a Pisa, e pubblicavano una lettera di ringraziamento lodativa de'Livornesi, ed in nome del loro bat

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