quanto inumano e iniquo fosse il pensiero di stabilirvi un assoluto principato (1). Ma egli che vivea in tempi corrottissimi, ne' quali « il popolo desiderava la sua rovina ingannato da una falsa spezie di bene (2), » credea <<< sia necessario esser solo a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al tutto fuori dei suoi antichi ordini riformarla (3).» Chiedeva quindi a se stesso « in che modo nelle città corrotte si possa mantenere uno stato libero essendovi, e non essendovi, crearlo?» E rispondeva che che a far questo non bastano i termini ordinari, essendo i modi ordinari, per la presupposta corruzione cattivi; ma essere necessario venire allo straordinario, come è alla violenza e alle armi, e diventare innanzi ad ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. Quindi soggiunge: «e perchè il riordinare una città al vivere politico presuppone un uomo buono, e il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo; per questo si troverà che radissime velte accagia che un uomo buono voglia diventare principe per vie cattive, ancoracchè il fine suo fosse buono; e che unreo divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia nell' animo usare quella autorità bene ch'egli ha male acquistata (4). » I principi, ch'egli vedeva in Italia, non osavano « fare ogni cosa nuova, far nuovi governi, con nuovi nomi, con nuova autorità, fare i poveri ricchi, come fece David quando ei diventò re, qui exurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes (5). E' pigliavano «certe vie del mezzo, che sono dannosissime; non sapeano essere nè tutti buoni, nè tutti cattivi, e come una tristizia avea in sè grandezza, o era (1) Della riforma della repubblica di Firenze. (2) Discorsi, 1. 1, C. LIII. (3) Ib. 1. 1, c. X. (4) Discorsi, 1. 1, c. XVIII. (5) Ib. 1. 1, с. XXVI. in alcuna parte generosa, eglino non sapeano entrare; nè sapeano fare una cosa la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo che da quella potesse dipendere (1)». Il popolo era corrottissimo e da sè stesso nella schiavitù si precipitava; un principe buono non v'era nè potea esservi: non restava adunque che trovarne un cattivo, e indurlo a fare, per ambizione e per vantaggio proprio, ciò che per bene comune non avrebbe fatto: bisognava chiedere al delitto quello che la virtù non potea più dare. E Machiavelli questo consigliava, senza infingimenti e senza scrupolo, come colui che credeva, « che la patria si debbe difendere, o con ignominia, o con gloria», dicendo: «dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione, nè di giusto nè d'ingiusto, nè di pietoso nè di crudele, nè di laudabile nè d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguitare al tutto quel partito, che le salvi la vita e mantenghi la libertà (2) ». Da questo concetto nacque il Libro del Principe « sendo l'intendimento mio, egli dice, scrivere cosa utile a chi l'intende, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all'immaginazione di essa: e molti si sono immaginati repubbliche o principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero, perchè egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua: perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini infra tanti che non sono buoni (3) ». Il Principe di Machiavelli non avea quell'ideale (1) Discorsi, 1. 1, c. xxvIII. (2) Ib. 1. м, с. XLI. (5) Il Principe, c. xv. Storia d'Italia 37 immaginato da Senofonte, da Tommaso d'Aquino e da Dante; ma un uomo che facea, come disse Bacone, «ciò che i principi soleano, non ciò che devevano fare (1)». La massima di quel tempo era: qui nescit dissimulare nescit regnare, e pare non sia andata ancora in disuso. Per questo il Boccalini, ne'suoi Ragguagli di Parnasso, facea dire al Machiavelli: <<qual giustizia, qual ragione vuole, ch'essi principi, che hanno inventata l'arrabiata e disperata politica scritta da me, sieno tenuti sacrossanti, io, che solo l'ho pubblicata, un ribaldo, un ateista? (2) ». Quel libro si trovò dapprincipio in tanto accordo con la morale del tempo, che fu pubblicato col privilegio di una bolla di papa Clemente VII. Di poi, quando il cardinale Reginaldo Polo scagliò la prima pietra, una turba di ribaldi e d'ignorantissimi si misero a maledire al nome del Machiavelli, perseguitarono e proscrissero le sue opere, ed arsero ignominiosamente le sue immagini; ma tutti gli uomini di alto e libero intelletto l'han sempre tenuto in grande stima e venerazione, confermando co' loro giudizi l'epitafio che si legge sul sepolcro di lui in Santa Croce di Firenze: Tanto nomini nullum par elogium. Il Trattato del Principe non è di certo il codice di un popolo libero e virtuoso; ma dev' era allora in Italia la libertà e la virtù? Forse nelle corti de' Medici, de' Visconti, degli Scaligeri, de' Borgia; ovvero in quelle città e popoli che allo strazio de' liberi uomini applaudivano, e un Cesare Borgia, un duca Alessandro, un Alessandro VI e un Clemente VII acclamavano? Ma non è neanco il codice di un tirannello volgare; ma sì di quei tiranni che sanno concepire e fornire quelle imprese, «la cui grandezza supera l'infamia ed il peri (1) De Augment. Scient., 1. vit, c. 11. ricolo». Carlo V lo tenea sempre in mano, Catterina de' Medici lo dicea la sua Bibbia, Sisto V ne fece un compendio per suo proprio uso, Mustafa III lo fece tradurre in lingua turca, Arrigo IV lo aveva seco allorquando fu ammazzato, Catterina di Russia e Maria Teresa d'Austria lo leggevano sovente, Napoleone Bonaparte studiavalo negli ultimi anni della sua potenza. Infelicissima Italia, che tanti tiranni avesti per oppressarti, straziarti ed infamarti, e non un gran tiranno, che, per ambizione e cupidigia, sapesse e potesse rifarti nazione! E questo tiranno invocava Niccolò Machiavelli; per lui accumulava i tesori della sua dottrina e della sua esperienza; a lui diceva: <<< Confido assai che quest' opera gli debba essere accetta, considerato come da me non gli possa esser fatto maggior dono, che darle facoltà di potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io in tanti anni e con tanti miei disagi e pericoli ho conosciuto (1)». E perchè all' indipendenza dell' Italia e alla sicurezza del principe, che avesse osato ridurla tutta sotto il suo impero, reputava necessarie le armi proprie, e pericolose non meno le mercenarie che le ausiliarie, scriveva quei solennissimi dialoghi intorno l'arte della guerra, con tanta dottrina e con tanto acume di critica da degradarne i più famosi capitani. Egli indignavasi di vedere assai principi, che all' astuzia della volpe univano il veleno della vipera, la crudeltà della tigre e la timidità del lepre; ma nessuno che sapesse fare a tempo la volpe e il leone. «Quanto sia laudabile, egli scriveva, in un principe mantenere la fede, vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienza ne'nostri tempi, (1) Lettera dedicatoria del Principe. quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà. Dovete adunque sapere come sono due generazioni di combattere: l'una con le leggi, l'altra con la forza; quel primo modo è proprio dell'uomo, quel secondo delle bestie; ma perchè il primo spesse volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto ad un principe è necessario saper bene usare la bestia e l'uomo...... Essendo necessitato saper bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione; perchè il lione non si difende da'lacci, la volpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere volpe e conoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono (1). » Parve al Machiavelli, che, fra' principi italiani colui che più fosse disposto a star bene sulla volpe e sul lione, fosse il duca Valentino: lo considerò con grande studio davvicino, notò l'ambizione sfrenata, il cuore audacissimo, l'ingegno pronto, l'astuzia squisita e l'autorità che davagli l'amore svisceratissimo di Alessandro VI padre suo. Sperò fosse per essere costui il grande scellerato divoratore degli scellerati minori da lui immaginato; ma questa speranza svani alla morte del pontefice, come svani quella riposta in Giovanni delle Bande Nere, rapito all' Italia nel fiore della giovinezza: ed allora il Machiavelli dedicò il suo libro a Lorenzo di Pietro de' Medici, e non esitò a proporgli per esempio il duca Valentino, del quale, dopo avere narrato per sommi capi le azioni più memorevoli, (1) Lettera dedicatoria del Principe, c. XVIII. |