leggi, nuove insidie per raccorre da ogni parte danari, usare a questo fine senza rispetto l'arme spirituali, vendere a questo fine, senza vergogna, le cose sacre e le profane: le ricchezze diffuse in loro e in tutta la corte seguitarono le pompe, il lusso ed i costumi inonesti ed i piaceri abominevoli; nessuna cura a' successori, nessun pensiero della maestà del pontificato; ma, in luogo di questo, desiderio ambizioso e pestifero di esaltare, non solamente a ricchezze immoderate, ma a principati e regni e figliuoli e nipoti e congiunti loro, non distribuendo le dignità e gli emolumenti negli uomini benemeriti e virtuosi, ma quasi sempre o vendendosi al prezzo maggiore, o dissipandosi in persone opportune all'avarizia e alle vergognose voluttà....... Non ricusano i pontefici di fomentare, per l'ambizione e utilità propria, l'altrui usurpazione e violenza....... Vincitori, esercitano la vittoria ad arbitrio loro, vinti, conseguiscono che condizioni vogliano (1) ». Così Dante bramava la ristaurazione dell'impero latino, Petrarca quella della repubblica degli Scipioni, Boccaccio un reggimento popolare del quale Roma fosse capo, Machiavelli un principato che tutta Italia riducesse sotto unica dominazione, Guicciardini un governo di ottimati nelle città, una confederazione nella nazione simile a quella esistente nell' anno 1490, per la quale l'Italia non fosse sottoposta ad altro imperio che de' suoi medesimi; tutti, con diverse parole, convenivano in queste sentenze solennissime del segretario Fiorentino: << Che per gli esempi rei della corte di Roma l'Italia ha perduto ogni divozione e ogni religione; che la Chiesa ha tenuto e tiene questa (1) Frammenti soppressi nell'edizione di Firenze del 1561, e stampati colla data di Amsterdam 1663, e di Haia 1740. nostra provincia divisa; che da lei deriva quella debolezza, per la quale l'Italia si è condotta ad essere stata preda non solamente dei barbari potenti, ma di qualunque l'assalta (1) ». L' esperienza dimostrava tutti i dì sempre più chiararamente queste verità. A Lodovico il Bavaro i pontefici oppongono Giovanni il Boemo. L'arcivescovo Giovanni Visconti tiene già in mano quasi tutta la Lombardia, buona parte del Piemonte, Bologna e Genova, sì che può dirsi signore dell'alta Italia; ed ecco i pontefici opporgli la lega guelfa, e chiamar Carlo IV in Italia. Giangaleazzo Visconti recupera il perduto e vi aggiunge Siena e Pisa; ma il pontefice si unisce nuovamente co' Fiorentini, e questa speranza di unificazione è perduta. Ladislao re di Napoli occupa Roma, estende le sue conquiste sino a Cortona, scrive sulle sue bandiere, aut Cesar, aut nihil: Alessandro V chiama subito in Italia Lodovico II d'Angid, e quando questi diviene potentissimo, muore avvelenato in Perugia. Filippo Maria Visconti è pressochè spogliato di tutti i suoi stati da' Veneziani; Martino V vede il pericolo mutar di luogo, e subito fa disciogliere la lega, e rimettere in potenza il Visconti. All'infamia che la storia ha versato sul nome di Lodovico il Moro, può sotrarsi quello di Alessandro VI ? Non chiamò ancor egli Carlo VIII in Italia? La lega di Cambrai procurata da Giulio II non era lo smembramento della patria comune per metter freno alla crescente potenza de' Veneziani? E chi se non Clemente VII pose in capo a Carlo V, come scrive il Bembo, « la ricca, bella e ornata corona dell'imperio? >>> (1) Discorsi, l. Í, C. XII, VIII. POETI NOVELLISTI E FILOSOFI. 1 In quei due secoli di guerre civili e straniere, noi vediamo vittorie incomprensibili ed incomprensibili disfatte; dominazioni in pochi giorni smisuratamente accresciute, ed in pochi giorni irreparabilmente rovinate; capitani corrotti contra a' loro signori; città o principi, a cui mancavan nemici, oppressi dagli amici; e chi credeasi vincitore trovavasi vinto, e chi vinto côrre i frutti della vittoria: e fra tante sovversioni di regni, mutazioni di stati, desolazioni di paesi, eccidi di città, sola la corte di Roma, istigatrice segreta o palese di questo furore, serbare i suoi dominii, anzi accrescergli nella discordia e debolezza comune. L'odio contro alla corte di Roma giunse allora al colmo : ciascuno l'assaliva colle armi che aveva in mano, e come poteva. Mentre l'epopea nasce nelle altre nazioni da tutto ciò che v'è di più serio e grave nel cuore umano, la religione e la patria, in Italia, dove, per dirla col Machiavelli, « noi abbiamo con la Chiesa questo primo obbligo, d'essere diventati senza religione », e dove patria non c'era più, ella nasce ridendo e deridendo. Il Pulci, il Boiardo, l'Ariosto, il Bernisbefeggiano il santo impero, i cavalieri, i paladini, le corti, gli angeli e i demonii, ma sopratutto i preti, i frati, la Chiesa. Ci volle l'animo eccezionale di Torquato Tasso per prendere sul serio l'ispirazione religiosa, ma egli stesso non potè sottrarsi alla influenza che esercitava sul secolo la letteratura classica, onde a' bigotti del nostro tempo è parso pagano. Il riso del Boccaccio si continuava ne' novellisti, fra i quali mi basti citare l'esempio del Sacchetti. Questi deride Carlomagno e la sua fede, nella novella di Carlomagno e il Giudeo; l'ipocrisia de' dignitari della Chiesa nell'abate di Tolosa; l'astrologia nella novella l' Astrologo confuso; i voti offerti alle sacre immagini, che chiama « piuttosto un' idolatria che fede cristiana », dove narra di quella donna che fece fare una botte di cera, e mandolla all'Annunziata dei Servi di Firenze, per aver vuota una botte di vino, e per essere tornato il suo marito di podesteria senza la memoria » : e di quell' altro, « che aveva perduto una gatta e si botò, se la ritrovava, mandarla di cera a nostra donna d'Orto San Michele; e così fece ». Nè egli si fa scrupolo di deridere i brevi miracolosi, di scrivere: << Buona cosa è avere la fede, ma spesso è il peggio averne troppa »; e di mostrare gli inganni delle reliquie, in quella sua novella dove parla delle tre braccia di Santa Catterina, e in parecchie altre nelle quali fa una terribile guerra d'ironie e di scherzi a' preti a' frati, alle monache, a' vescovi, abati, cardinali e pontefici; egli che tristamente domandava : « Per qual cagione sono sottomesse tante città in Italia a signore, le quali erano libere? Per qual cagione è la Puglia nello stato, ch' ella è, e la Cicilia? E la guerra di Padova e di Verona, ove le condusse, e molte altre città, le quali oggi sono tristi ville? (1) ». Lo stesso dicasi di tutti gli altri novellisti e comici italiani: è guerra continua alla potenza secolare del clero, e le astuzie della gente di Chiesa per estorquere danari da' creduli, e tenere sotto il loro giogo gli stati. Questo libero modo di pensare apparecchiava la via al rinascimento degli studi filosofici, altro nemico non meno terribile per la Chiesa. Già le opere di Platone e di Arisiotile erano state lette nelle loro lingue originali; (1) Messer Giovanni Augut a due frati minori, che dicono che Dio gli dia pace, fa una subita e piacevole risposta. già la scolastica era stata combattuta da Angelo Poliziano, da Lorenzo Valla; già Marsilio Ficino aveva fondato l'accademia platonica di Firenze, Pico della Mirandola screditava l'astrologia giudiziaria, Pietro Pomponaccio professava opinioni audacissime, e quando il patriarca di Venezia voleva fare ardere i suoi libri, il cardinale Bembo lo difendeva a Roma, e Leon X impedia che si facesse processo contro di lui. Fu l'ultimo atto di tolleranza. Da allora in poi, spaurita la corte di Roma dalla rivoluzione religiosa della Germania, comincia una ferocissima persecuzione contro i cultori delle scienze. Bernardino Telesio, che parve un nuovo Parmenide, è perseguitato; Lucio Vannino è arso; sono arsi il Paleario, Giordano Bruno, il Carnesecchi e molti altri uomini ragguardevolissimi per ingegno e per dottrina. L'inquisizione giunge al colmo della sua potenza sotto il pontificato di Pio V; tutte le accademie, le radunanze letterarie, i convegni degli uomini studiosi sono disciolti e dispersi; la congregazione dell'indice fa strazio de' libri e degli ingegni, i tentativi di riforma religiosa sono vinti in Ferrara, in Lucca, in Mantova, in Modena, in Firenze, in Siena, in Calabria, dappertutto; l'Italia cade oppressa sotto il doppio giogo della Chiesa e dell'impero. Il magnanimo desiderio di liberare l' Italia rinasce invano in Girolamo Morrone, in Francesco Burlamacchi, in frà Tommaso Campanella ; il Morrone è tradito dal marchese di Pescara all'imperatore, il Burlamacchi e il Campanella, espiano, l'uno con la morte e l'altro con ventisette anni di durissima prigionia e di torture, il delitto di ribellione e di eresia. E ci vollero due secoli di silenzio prima che udir si potesse in Italia la libera voce di Vittorio Alfieri, e de' poeti e filosofi, che illustrarono la fine del secolo XVIII. I fatti che seguirono sono stati descritti in questa storia: ora comincia un nuove avvenire. |