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soleva dire Cesare Augusto (1). «Ogni cosa ha la sua stagione, ed ogni azione sotto il cielo ha il suo tempo. V'è tempo di nascere e tempo di morire; tempo di piantare e tempo di divellere; tempo di uccidere e tempo di sanare; tempo di distruggere e tempo di edificare (2).» Non si miete la messe in erba, e chi sforza la vigna a produrre fuor di stagione, raccoglie agresto e rende infermiccia la pianťa. Bisogna sapere attendere, senza languire nell' inerzia, senza abbandonare la speranza, senza smarrire la fede; dappoichè i principi e il pontefice fan di tutto per affrettare il giorno della liberazione. E quando questo giorno spunterà, noi diremo col Feruccio: << Andiamo pure innanzi dove ci conduce la nostra fortuna e della nostra patria (3). » Ed è a sperare che vi sia fra noi poco numero di quelli che Cicerone chiamava piscinarii, «i quali, abbandonata la repubblica, speravan salvare le loro piscine (4) », perchè la esperienza gli avrà fatti accorti, che si perdono nel tempo istesso e la republica e le piscine. E il numero di costoro i nemici di libertà intendono ad accrescere, con lo sgomento di una parola nuova, che racchiude un'idea vecchia quanto il mondo, e che in niun luogo dovrebbe sgomentar meno che in Italia. Nessuno, che abbia una qualche lezione delle storie, potrà ignorare come tutte le rivoluzioni politiche non siano in fondo che delle rivoluzioni economiche. A partire da quando Servio Tullio, seguendo la ragione del censo, divise il popolo romano in centurie; o da quando, caduto il romano impero, le genti settentrionali si sovrap

(1) SVETONIO, Vita. (2)Ecclesiaste, c. III. (3) SEGNI, 1. IV.

(4) Epist. ad Attic.

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posero alle romane, qual rivoluzione si è tentata o compita che economica non sia? Le sollevazioni del popolo romano contra a'nobili, le sollevazioni de municipii italiani contro ai signori feudali, la sollevazione del popolo francese contra all'aristocrazia monarchica, che possono considerarsi come le tre colonne miliarie nel cammino della rivoluzione, furon mosse da cagioni presso che identiche e quasi esclusivamente economiche. Ogni rivoluzione è l'effetto di un bisogno economico e dello sviluppo di una idea morale; questa agita gli uomini d'intelligenza, quella il popolo. Se tutte e due si accordano, la rivoluzione o presto o tardi dee la vittoria conseguire; se i soli bisogni morali la guidano, diventa infeconda: se i soli bisogni materiali, diventa bestiale. Tutte le sollevazioni italiane del secolo XVI e del XVII furono mosse da materiali bisogni: il grido comune a tutte fu sempre «Fuori gabelle!» il grido di Masaniello. L'istessa sollevazione gloriosissima dei Paesi Bassi contra a Filippo II racchiudeva una querela economica, e fu questa che la fece divenire popolare non meno che l'odio per l'inquisizione di Spagna. E risalendo anco a tempi più remoti, la potenza maravigliosa di Cola di Rienzo, che par tutta circondata di poesia, sorse e cadde al grido di <<< morte alle gabelle! » Le forme mutano coi tempi e secondo le esterne circostanze; il popolo romano chiede non si possa possedere da alcun cittadino più di tante terre, e le conquistate su' nemici si dividano: il francese, nell'anno 1789, chiede sia liberato dalle servitù feudali: qui vuolsi sgravamento de' gravami pubblici: là più equa ripartizione delle imposte: in un luogo abolizione de' privilegi e de' monopoli: in un altro soppressione delle dogane interne, de' dazi su generi di prima necessità, ovvero favore al principio di associazione, alle banche di credito, e via discorrendo. Mutano le apparenze; rimane salda ed eterna la legge dell'umano progresso, l'accrescimento continuo de' beni morali e materiali del maggior numero dei cittadini. Le utopie, che germinano di tempo in tempo su questo fondamento reale, son conseguenza necessaria della natura dell'intelletto umano; e l'Italia, ch'ebbe Tommaso Campanella, non può sgomentarsi al nome di Cabet.

La rivoluzione italiana sarà invincibile se, soddisfacendo da una parte a' bisogni morali, non trasanderà dall'altra i materiali bisogni: questi saviamente e prudentemente soddisfatti, sono forza e vigore della libertà: compressi, diventan pericolo, e possono anco trasmutarsi in forza dei nostri oppressori. Quando il duca Massimiliano Sforza si accorse d'esser presso alla rovina, dichiarò il popolo immune da ogni aggravio pubblico, e ordinò che questi si dovessero tutti sopportare da'nobili e da' ricchi. Il popolo si sollevò in suo favore, mutando l'odio in amore e in gratitudine; ed egli disse queste memorabili parole: «Meglio rovinare ch' esser rovinato». Ho io bisogno di rammentare un fresco esempio di una grande nazione a noi vicina? Gli errori commessi dall'assemblea francese profittano a Luigi Napoleone Bonaparte: facciamo che gli errori dell'imperatore, del pontefice e dei principi italiani profittino a noi.

E chi fra gli italiani, tolti pochi pessimi, non sarebbe lieto di vedere la comune patria eguagliare le civili nazioni non meno in ricchezza che in potenza? E avvegnachè alle umane infermità sieno più tardi i rimedi che i mali, nondimeno sì grande è la potenza creativa di questo popolo immaginoso e ragionatore, innamorato del bello e conoscente dell' utile, che in pochissimo tempo si vedrebbe l'Italia ridivenire ricchissima di scienza, di commerci, d' industria, di civiltà, ornata e felice al di dentro, rispettata e gloriosa al di fuori. Ed io vedo risorta dalle sue rovine la gran città, nostra madre comune che il tempo, i barbari, le civili discordie ed i sacerdoti non

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han potuto disfare, ed il centro delle tenebre, rifatto centro di luce, rischiarare e dar calore a tutta la nazione, non più divisa, lacera, disprezzata; non più ludibrio e compassione delle genti, ma unita, forte, libera, indipendente. Ed allora si vedrà la varietà dell'unità (dote particolare, e sin'ora funestissima dell' Italia) moltiplicare i centri della vita: in una città risiedere l'alta amministrazione militare; in un'altra la giudiziaria: qui la libera università degli studi; là scuole di agricoltura, di pastorizia, d'industria; e dove l'insegnamento delle cose marittime, e dove le gentili arti del bello. E come non più sarà necessario sforzare le terre di una provincia a produrre scarsamente ciò che quelle di un'altra provincia spontaneamente ed abbondantemente producono, alternando così in una miseria comune la deficienza de' prodotti colla deficienza de' consumatori, nel medesimo modo non sarà più necessario di tal città atta alle cose industriali farne il tempio delle armonie, ed in tal' altra città inaridire le naturali ispirazioni del bello cogli studi della giurisprudenza e della medicina. Così la vita, non in un centro stagnante, ma in tutte le membra della nazione diffusa, sarà più potente e più gagliarda, e ciascun membro, compiendo le funzioni per le quali trovasi meglio organizzato ed adatto, contribuirà, con suo proprio vantaggio, al movimento comune. E allora gli studi austeri del Piemonte, e i pratici ed utili di Lombardia, e gli ardimentosi di Napoli e Sicilia, dove nacquero le utopie de' Pittagorici, e di Bruno e di Campanella, accanto ai calcoli di Archimede e di Maurolico, e alle speculazioni del Vico, saranno insieme armonizzati e resi popolari da quella grazia severa e da quella mirabile temperie di fantasia, di pensamenti e di affetti, dote della Toscana, posseditrice fortunata del più potente vincolo della comune nazionalità, e saranno nobilitati dalla latina maestà di Roma, dove tutto è grande e straordinario dal Vaticano alla cloaca, dalla virtù di Catone a' vizi del sesto Alessandro, dalla semplicità di Cincinnato alle pompe di Leon X, dalla castità di Lucrezia alle libidini di Messalina e di Marozia.

Se gli italiani debbono incorrere ne' medesimi errori, egli è meglio compongano l'animo a sopportare la schiavitù, baciando la mano al soldato austriaco e il piede al pontefice, e facendo devoti pellegrinaggi alla miracolosa Madonna di Rimini, che, a quanto affermano i Diari di Roma, straluna gli occhi. E davvero che le cose delle quali siamo noi spettatori sono tali da fare stranulare gli occhi sino alle sante immagini! Se altra volta gli italiani debbono perdere la propizia occasione offerta loro dalla fortuna, a che sollevarsi? Il saper morire non basta: vuolsi saper vincere, e quindi bene adoprare e fortemente difendere e prudentemente conservare i frutti della vittoria. Chi di questo non è capace, si acqueti a quei modi stretti e barbari di reggimento a' quali trovasi sottoposto, e consideri che danni e che sventure sono riservati a chi non sapendo usare la libertà, non può patire la servitù.

Parigi, il 18 dicembre 1852.

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