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mente dal sacrosanto concilio generale di Trento (Sess. XXII, c. XI, De Refor.), ne'quali la Chiesa ha fulminato replicate volte le sue censure e principalmente la scomunica maggiore da incorrersi, senza bisogno di alcuna dichiarazione, da chiunque ardisce rendersi colpevole di qualsivoglia attentato contro la temporale sovranità dei sommi romani pontefici, siccome dichiariamo esservi già disgraziatamente incorsi tutti coloro che han dato opera all'atto suddetto ed a'precedenti diretti a danno della medesima sovranità, od in qualunque altro modo, e sotto mentito pretesto hanno perturbata, violata, ed usurpata la nostra autorità. Se però ci sentiamo obbligati per dovere di coscienza a tutelare il sacro deposito del patrimonio della sposa di Gesù Cristo alle nostre cure affidato, coll'adoperare la spada di giusta severità a tal'uopo dataci dallo stesso divino giudice, non possiamo però mai dimenticarci di tenere in terra le veci di Colui, che anche nell'esercitare la sua giustizia, non lascia di usare misericordia. Innalzando pertanto al cielo le nostre mani, mentre di nuovo a lui rimettiamo e raccomandiamo una tal causa giustissima, la quale più che nostra, è sua; e mentre di nuovo ci dichiariamo pronti, coll'aiuto della potente sua grazia, di sorbire fino alla feccia, per la difesa e la gloria della cattolica Chiesa, il calice delle persecuzioni, che esso per il primo volle bere per la salute della medesima, non desisteremo dal supplicarlo e scongiurarlo, affinchè voglia benignamente esaudire le fervide preghiere, che di giorno e di notte non cessiamo d'innalzargli per la conversione e salvezza dei traviati. Nessun giorno certamente più lieto per noi e giocondo sorgerà di quello in cui ci sarà dato di veder rientrare nell'ovile del Signore quei nostri figli, da' quali oggi tante tribolazioni ed amarezze ci pervengono. La speranza di goder presto di un sì felice giorno si convalida in noi al riflesso che universali sono le preghiere, che unite alle nostre ascendono al trono della divina Misericordia dalle labbra e dal cuore dei fedeli di tutto l'orbe cattolico, e che la stimolano e la forzano continuamente a mutare il cuore dei peccatori e ricondurli nelle vie di verità e di giustizia. Datum Caietæ die prima januarii 1849. Pius PP. IX ».

Questo monitorio fu accolto in Roma e nello Stato come meritava: pochi si davan la pena di confutarlo, e di mostrarne le assurdità e perfidie, ond'era pieno, e l'empia confusione delle cose sacre e profane sulla quale fondavasi: i più ne ridevano, essendo oramai morta negli animi la riverenza pontificale: i costituzionali n'erano afflittissimi, non trovando in esso alcun cenno dello Statuto, nè promessa alcuna di mantenere le concedute libertà. Non per questo smettevansi le segrete pratiche di pace. Sin da'primi giorni della sollevazione romana, il governo piemontese aveva ordinato al Pareto, che se il papa abbandonasse la sua sede, lasciando un governo legalmente costituito, e' rimanesse in Roma; ma che se invece si costituisse un governo di fatto, e' dovesse ritenere come cessata la sua legazione. « In ogni caso, aggiungeva il ministro degli affari esterni Perrone, qualunque sieno i governanti di Roma e gli intendimenti loro, voi farete conoscer loro in modo officioso e di viva voce, come se esprimeste l'avviso vostro, che la politica del governo del re è di astenersi dal prender parte alle discussioni, che negli ordini temporali potessero agitarsi fra i popoli ed i sovrani loro, e che noi ci facciamo coscienza di rispettare i diritti di tutti i governi, a condizione che rispettino i nostri. Voi ricorderete, che l'indipendenza d'Italia è il fine principale che il governo del re si è proposto costantemente, e che ogni giorno più gli sta a cuore. Il desiderio più vivo che noi abbiamo si è quello di vedere i popoli italiani concorrere a questa grand'opera, la quale può riuscire solo mediante l'unione, e non già colla divisione delle forze loro». Fuggito il papa a Gaeta, dove il Pareto lo seguì, il Gioberti, nuovo presidente de'ministri piemontesi, mandò oratori al pontefice il marchese Montezemolo e monsignor Riccardi vescovo di Savona, per profferirgli onorevole ospitalità in Nizza, o in altra città dello Stato che più gli fosse a grado, e per confortarlo ad invocare aiuti italiani, se di aiuti avesse bisogno, per ristabilire gli ordini costituzionali dello Stato. Giunti i legati a Gaeta addì 28 di dicembre, presentavano lettere del re Carlo Alberto e del Gioberti al pontefice, il quale, rendendo grazie delle profferte e lodando l'esimia pietà del principe, dicea trovarsi a Gaeta per fortuita mancanza della nave che dovea portarlo a Majorca; oramai riescirgli grave l'allontanarsi maggiormente dal suo Stato, prima che ogni speranza di pacifico ristabilimento della sua autorità fosse venuta meno: aver chiesto consiglio a' potentati europei su'modi più acconci per riordinare l'ecclesiastico principato: non volersi appigliare ad alcun partito, prima di avere ricevuto le loro risposte. Allora i legati facevano considerare al papa, come, accettando le profferte del re, era da sperarsi che i suoi uffici, graditi alle popolazioni italiane, fossero per riescire efficaci a ricondurre la quiete e la pace nello Stato romano, senza ingerimento di forestieri. Di che temere? La religione del re e la sua devozione al sommo pon.

tefice; le opinioni e gli intenti, con gli atti e cogli scritti, dal Gioberti manifestati; gli spiriti religiosi dei popoli liguri e subalpini, dover persuadere e convincere sua Santità, che il governo piemontese non potrebbe far cosa che cattolica ed italiana non fosse. Alle quali parole, il pontefice, che spesso vinto dalla natura irascibile gli studiati infingimenti obliava, mutando modi e linguaggio incominciò a scoprire l'animo suo: disse amareggiarlo la memoria delle pratiche iniziate da lui per una lega di principi italiani, e rotte per colpa non sua; increscergli che il governo piemontese tenesse oratori a Firenze e a Roma per negoziar accordi per la costituente italiana; sospettare ch'e' fosse disposto ad allearsi con quelli che usurpavano i diritti del sovrano pontefice della Chiesa: le armi sole potergli rendere la rapitagli autorità, e queste non poter essere dal Piemonte efficacemente adoperate. Invano i legati affermavano, gli oratori mandati a Firenze e a Roma avere l'incarico di esplorare gli animi, non di trattare e concludere accordi lesivi a' diritti de' principi; invano rammentavano la legazione del Rosmini a Roma per opera di quel medesimo ministro, che or presiedeva il consiglio del re Carlo Alberto; invano facevano considerare al pontefice, come una nuova chiamata di stranieri sarebbe esiziale alla causa della nazione, e di grave pregiudizio alla religione, facendo rivivere, e più fiere che per lo innanzi, le antiche querele italiane contro alla Chiesa di Roma. Il papa congedo i legati senza niente promettere; e in un secondo e in un terzo abboccamento, scaldandosi sempre più nel disputare, disse apertamente e risolutamente, che egli prevedeva e conosceva i danni che sarebbero per venire all'Italia da un intervento di stranieri, conoscerli e deplorarli; ma che non v'era rimedio: il che volea dire: muoia l'Italia, purchè viva il tem. porale e assoluto dominio de'sacerdoti.

In quel medesimo tempo il governo piemontese nominava ministro presso sua Santità il conte Martini, in luogo del marchese Pareto, e gli ordinava mantenere relazioni officiose co' governanti di Roma; officiali col pontefice: consigliare a quelli la riconciliazione col papa, perchè la loro discordia non fosse pretesto agli stranieri d'ingerirsi nelle cose italiane: adoprarsi efficacemente per impedire la convocazione dell'assemblea costituente, o almeno tentare di temperarne gli effetti sì che non tornasse di nocumento alla suprema autorità del pontefice, come principe costituzionale. In quanto al papa, scrivea il Gioberti al Martini: << Insista soprattutto sulle ragioni, che devono indurre il pontefice a tentare le vie di conciliazione. Lo richiede la religione che soffre di questo divorzio, perchè i nemici di essa ne pigliano occasione per rappresentare il papa come nemico della libertà e della nazionalità italiana. Lo richiede il bene d'Italia, perchè la prolungata assenza del pontefice da Roma può impedire la federazione italiana e chiamare gli stranieri nel nostro paese. Oltrecchè l'assenza del pontefice dà forza e speranza alle sêtte esagerate, le quali vorreb. bero rivolgere gli ordini politici della penisola; le quali perderanno la vigoria loro, come tosto il padre supremo ritorni fra' suoi figli. Per questo rispetto si può dire che dal pronto ritorno di Pio IX dipenda in gran parte la sorte di tutta l'Italia, e, oserei dire, d'Europa, attese le sue strette attinenze colla metropoli, o col capo del mondo cattolico. Se il papa sarà ancora a Gaeta, e il signor ministro vi dovrà convenire per ossequiarlo, egli potrà cogliere questa occasione per fare intendere

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