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Ma a sostituire il Villeroy nel comando dei Gallispani fu mandato con molti rinforzi un generale di maggiore levatura e intraprendenza, cioè il Maresciallo Vendôme, il quale seppe ben presto trarre partito della forte prevalenza numerica delle sue truppe per conseguire alcuni vantaggi sugl' imperiali togliendo loro parecchi luoghi fortificati (Canneto, Castelgoffredo, Castiglione delle Stiviere), rompendo in parte il blocco di Mantova, e stringendoli sempre più da presso, sinchè si ridussero nel cosidetto « Serraglio mantovano ».

Sopraggiunse intanto in Italia colui che era stato proclamato Re di Spagna da Luigi XIV, cioè il nipote suo Filippo d'Angiò. Il quale ebbe l'occasione di conquistare facili allori guerreschi, sbaragliando a Santa Vittoria sul Crostolo (pag. 230) un corpo di cavalleria imperiale, che vi fu colto di sorpresa e sopraffatto dal numero. Però gl'imperiali si presero presto una rivincita. Mentre i Gallispani erano in moto per stringere in un cerchio di ferro la piccola Armata d' Eugenio, questi il 15 agosto, approfittando della divisione dell'esercito avversario sulle due sponde del Po, assali furiosamente l'Angiò a Luzzara (pag. 255). Ambe le parti dettero prove del più strenuo valore, ma dopo alterne vicende gl'imperiali al cadere della notte rimasero padroni del campo di battaglia. Vero è che i Gallispani li fronteggiavano a distanza di poche centinaia di passi, ma non pertanto il disegno del Vendôme era fallito, perchè anche quella volta il Principe Eugenio non si era lasciato sfuggire il momento buono per prevedere, provvedere, osare.

Dopo di che nessun altro importante atto di guerra ebbe luogo in Italia per quell' anno. La cavalleria imperiale fece bensì arditissime scorrerie, memorabile tra le altre quella del Marchese Davia (pag. 310), che muovendo dalla Secchia cavalcò con 200 ussari e 50 corazzieri sino a Milano, ove entrò e produsse un gran trambusto, poi ritornò all'Armata carico di bottino e senza aver perduto nè un uomo nè un cavallo, dopo di avere in 13 giorni percorso quasi 500 chilometri in territorio nemico. Ma i Gallispani costrinsero alla resa Guastalla (11 sett.), Borgoforte (15 nov.) e più tardi (22 dic.) presero anche Governolo.

L'Armata imperiale era stremata di forze. « La spossatezza, la pri << vazione delle cose più indispensabili alla vita giungevano a tal punto << da divenire veramente insopportabili. Dalla cavalleria quasi più << nessun servizio potevasi richiedere. Gli alloggiamenti offrivano uno << squallido aspetto. I soldati, in quei deserti tugurii dei contadini, << senza nutrimento sufficiente, senza denaro, con pochi stracci indosso, << senza scarpe, senza coperte, senza paglia, si sentivano abbandonati << mentre gelido, crudo s'avanzava l'inverno, e piombavano nella più << cupa disperazione. Gli ufficiali non avevano più alcun mezzo per <<< frenare il malcontento che serpeggiava tra i loro sottoposti e, pur

troppo, n'erano investiti essi medesimi, e stavano li sdegnosi, esa<< sperati, infastiditi e immiseriti in mezzo ai soldati ».

11 Principe, che indarno aveva insino allora sollecitato provvedimenti per l'Armata, chiese licenza di potere andare a Vienna, nell'intento di esporre a viva voce lo stato delle cose. Dopo molte tergiversazioni ed incagli frapposti da chi aveva interesse d'impedire che la verità giungesse all'orecchio dell' Imperatore, la licenza fu concessa negli ultimi giorni dell' anno, ed Eugenio si affrettò a partire rimettendo al generale Starhemberg il comando dell'Armata « che a poco a poco << aveva perduto quel nome e più non era che un meschino Corpo << di truppe ».

Segue la narrazione della campagna di Germania, divisa in due parti, cioè: campagna sull'Alto-Reno e contro la Baviera (pag. 359452) e campagna sul Basso-Reno (pag. 453-461). Nella prima, accennati gli apparecchi di guerra, sono esposte le operazioni preliminari, poi l'investimento e l'assedio di Landau, iniziato dal Margravio di Baden e proseguito dal Re Romano, Arciduca Giuseppe. Assedianti ed assediati gareggiarono di valore e tra le molte vittime illustri va annoverato il Principe Tommaso Luigi di Soissons (fratello primogenito del Pr. Eugenio) che sebbene ferito volle continuare il servizio nelle trincee, ove fu nuovamente colpito da una bomba e dovette soccombere. Il 10 settembre Landau capitolò della resa a patti onorevolissimi.

Intanto l'Elettore di Baviera si era apertamente messo coi nemici dell' Impero e tendeva ad unirsi coi Francesi, che per andargli incontro passarono il Reno a Uninga. Le mosse intese da una parte (Villars) ad effettuare la congiunzione franco-bavara, dall'altra (M. di Baden) ad impedirla, condussero alla battaglia di Friedlingen (14 ottobre). I Francesi si attribuirono la vittoria, ma dalla minuta esposizione dei fatti risulta che il vantaggio fu per gl' imperiali, sebbene non per merito del condottiero, bensì delle truppe. E per quell'anno la congiunzione non ebbe luogo. Nella campagna sul Basso-Reno gli alleati dell' Impero tolsero all' Elettore di Colonia la fortezza di Kayserswert, e i Francesi per contro occuparono la città libera di Colonia, Treviri e Nancy capitale del neutrale Ducato di Lorena.

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Poi è raccontata la campagna nei Paesi Bassi (pag. 465-494) ove ai Gallispani comandava il Duca di Borgogna, agli Anglo-batavi il Marlborough. La campagna fu favorevole a questi ultimi che s'impossessarono di Venloo, Stevensweert, Ruremonde e Liegi, mentre i Gallispani dovettero desistere dall' iniziato assedio di Hulst.

Viene da ultimo la campagna in Ispagna (pag. 497-523) e interessante è il racconto dell'attacco e della difesa di Cadice, poi della battaglia navale di Vigo (23 ottobre) in cui la flotta anglo-olandese distrusse quella franco-ispana, insieme coi galeoni della cosidetta « flotta d'argento che ritornava carica di tesori dalle Indie occidentali.

Alla narrazione fa seguito un'Appendice (pag. 527-665) contenente una copiosa raccolta di documenti, tra i quali alcuni di singolare importanza, come ad es. la Istruzione per il Comando del (progettato) distaccamento napoletano (pag. 583), e parecchie lettere intercette del Catinat, del Villars, dell' Elettore di Colonia, ecc.

Il volume termina con un Supplemento (pag. 1-281, numerazione nuova) contenente la corrispondenza militare del Principe Eugenio nel 1702. La lettura di quel copioso epistolario non è invero divertente, bensi sommamente proficua, anzi necessaria, a chi voglia fare uno studio psicologico del Principe. La sua mente, il suo cuore si manifestano in quelle lettere ai confidenti suoi alla Corte di Vienna (Palm e Locher), al confessore di Leopoldo (P. Bischoff), al Conte Goëss legato imperiale all'Aja, ecc., in quelle relazioni all'Imperatore o ad altri << le più volte stranamente prolisse, come portava il costume di quel << tempo, pesanti di tutto il peso del pesantissimo stile aulico e buro<< cratico viennese, stringenti incalzanti, a misura del bisogno, cioè << quasi sempre piene di miseria e lamentazione, supplicanti aiuto e << soccorso in ogni modo. Si vede l'uomo che è tutto li con tutti i sensi, << con tutte le facoltà, con tutta l'anima, che non pensa ad altro che << ai suoi doveri di Capitano, ai bisogni dell'Armata, agli atti possibili << del nemico, a quelli che a lui convenga fare o no, insomma, com'egli << dice, al servizio ed allo interesse di Sua Maestà, in cui tutto si << compendia agli occhi suoi » (C. CORSI, Nuova Antol., marzo 1892). Corredano il volume dieci tavole, alcune delle quali sono riproduzioni di disegni originali contemporanei agli avvenimenti e, oltre che ad agevolare al lettore l'intelligenza della narrazione, giovano a dare un'idea della cartografia di quel tempo. C. M.

A. MOSCHETTI, Il Gobbo di Rialto e le sue relazioni con Pasquino, pagg. 93. Venezia, Visentini, 1893.

V. LAZZARINI, Marino Faliero avanti il dogado, pagg. 105. Venezia, Visentini, 1893.

E. VOLPI, Storie intime di Venezia repubblica, pagg. 330. Venezia, Visentini, 1893.

Ecco tre libri di recente pubblicazione i quali in diverso modo concorrono a illustrare la storia della repubblica veneta. I primi due sono brevi monografie aventi un argomento più specialmente definito, e furono già pubblicate nel corrente anno nel Nuovo Archivio Veneto (tomo V, parte 1). Sono dovuti a due valenti giovani che, tra le molteplici e non lievi cure dell'insegnamento, sanno trovare tempo e volontà di dedicarsi a studi severi e ricavarne notevole profitto. Il

terzo è di natura più generale e abbraccia un soggetto più complesso e più vasto, discorrendo della storia del costume a Venezia per tutto il periodo della sua durata quale stato autonomo. Così almeno farebbe supporre il titolo: in realtà però nella trattazione il criterio dei tempi è un po' confuso e indeterminato, tanto che si finisce col convincersi che l'autore, forse senza volere, abbia ristretto i limiti del suo soggetto e, da qualche scorsarella in fuori nella età antecedente, si sia trattenuto nell'ambito dei soli ultimi secoli della Repubblica.

Il Gobbo di Rialto è un lavoro che appartiene al campo letterariostorico e raccoglie tutto ciò che fu possibile rinvenire intorno a questo che erroneamente vien creduto e chiamato il Pasquino veneziano (1). D'origine bergamasca, legato forse con vincoli di affinità ad Arlecchino, il Gobbo non è veramente un campione della satira popolare anonima, ma è soprattutto un novellista; non è un satellite di Pasquino, ma ha, come asserisce l'autore, carattere proprio e propria personalità. La satira ha ben poco a che fare con lui; infatti delle tante che si pubblicarono a Venezia nessuna porta il suo nome: le sue opere, che l'autore divide in tre gruppi, sono piuttosto esercizi letterari o corrispondenze amichevoli o composizioni politiche, pubblicate a Venezia o altrove col mezzo della stampa, o diffuse colla · scrittura. Di ciascuna, e non sono moltissime, il Moschetti, per quanto è possibile, ci dà un sunto e lo correda di notizie e di ragguagli di vario genere. La prima composizione che va sotto il nome del Gobbo è del 1584, l'ultima del 1671; breve vita, il periodo più celebre e più patriottico della quale coincide con la famosa contesa dell'interdetto (2). Ricomparve più tardi in un giornale politico-umoristico del marzo 1849; ma fu resurrezione quattriduana e di ben poco rilievo. Riguardo alle sue relazioni con Pasquino, sono piuttosto formali che sostanziali, se così posso esprimermi: a ogni modo l'autore le mette in giusta luce, aggiungendo indirettamente un buon contributo alla storia di questo principe, vorrei dire, dei gerenti irresponsabili della pubblica censura, al quale molti eruditi hanno in questi ultimi tempi rivolto indagini e studì.

Tale, sommariamente, è il lavoro del prof. Moschetti, lavoro di ricerca diligente e paziente, condotto con metodo rigoroso e con cura minuziosa. Forse egli esagera un po' l'importanza del suo soggetto e fa del Gobbo un personaggio più notevole che in verità non sia stato.

(1) In campo S. Giacomo di Rialto, dirimpetto alla facciata della chiesa, c'è una statua d'un uomo inginocchiato, curvato quasi sotto il peso della scaletta per cui si ascende sulla colonnetta di granito, donde bandivansi gli editti della Repubblica. Questa statua ha il nome di Gobbo di Rialto.

(2) Parte di un dialogo tra il Gobbo e Pasquino, riguardante l'Interdetto, e che l'autore, non senza ragione, opina sia opera del Sarpi, è riportata in appendice.

Rivista Storica Italiana, XI.

A me infatti, eccetto che in qualche speciale circostanza, mi sembra una figura molto sbiadita, non avente un carattere storicamente delineato. In molte delle opere, ben differenti tra loro, cui presta il suo nome, invano si cercherebbe una sua impronta individuale: spesso, l'autore medesimo lo dichiara, egli non è che un interlocutore per far andare avanti il dialogo, e spesso ancora c'entra soltanto perchè c'è nominato. Novellista letterato, questo vecchio patriotta di marmo è anche poco popolare e non sempre opportunamente loquace: molti solenni momenti della patria passano via senza che si senta la sua voce, la quale invece si fa udire in occasioni di nessuna importanza, e anche senza speciale occasione. E questa mancanza di opportunità interamente giustificata la si riscontra in quasi tutta la sua vita a cominciare dalla nascita e a finire con la morte. Tutto cotesto viene dunque a scemare l'importanza reale del soggetto e a dargli più che altro il colore di curiosità storico-letteraria.

Il prof. V. Lazzarini rivolse i suoi studi ad argomento di maggior interesse, a Marino Faliero, sulla cui tragica fine non splende ancora la vivida luce della certezza storica. In questo lavoro però egli non ci rivela il mistero, nè dissipa i dubbî, fermandosi appunto al momento in cui il protagonista, ambasciatore allora alla corte pontificia d'Avignone (settembre 1354), è eletto successore nel dogado ad Andrea Dandolo.

Dopo aver accennato, con non grande chiarezza, a dir vero, all'origine della casata Falier e alle diverse famiglie ad essa appartenenti, entra a parlare di Marino. Corretta la data della sua nascita (nel 1385 circa, non già, come si crede, nel 1374 o nel 1378) e notata la deficienza di documenti riferentisi a' suoi anni giovanili, egli segue passo passo il suo eroe per tutti i diversi uffici sostenuti dal 1315 al 1354 e traverso tutte le vicende pubbliche e private della sua vita. E non è una narrazione, ma un continuato spoglio di documenti, quali più quali meno importanti, un riassunto cronologico, talvolta un pochino arido e slegato, ma sempre diligente e coscienzioso, di atti ufficiali e di vecchie cronache. Da così fatto transunto la figura di Marino Faliero risulta intera e compiuta, per quanto concerne il lato storico delle vicende di lui; e certo ingrandisce agli occhi nostri quest'uomo che a 70 anni arriva al dogado dopo d'avere onoratamente tenuto molteplici e nobilissimi uffici nel governo della sua patria, e d'averle resi segnalati servigi come magistrato, ambasciatore, capitano, ammiraglio, podestà.

Non essendo questa che la prima parte del lavoro non è lecito pretendere ch'essa ci dia anche un ritratto morale del Faliero, per quanto può ricavarsi dai documenti del tempo; forse l'autore, ed a ragione,

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