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fortificazioni innalzate da' nemici de' medesimi; aiutasse i Palazzesi a fortificarsi; permettesse a' signori di Vallesa, Pont, Settimo Vittone e Castr'Ussone d'estrar vettovaglie da Ivrea per proprio uso; non fabbricasse nuove fortezze nella Città; facesse rinunziar dal Comune ad ogni diritto su Settimo; aiutasse Pietro D'Azeglio contro i Vercellesi; procurasse infine l'adempimento de' patti comunali coi suddetti signori di Vallesa e di Pont, non chiamandone gli uomini in giudizio in Ivrea se non per reati ivi commessi, nè costringendoli a fedeltà verso Ivrea stessa. Da qualche tempo, invero, i rapporti del Principe col zio apparivano tesi, e per la vecchia usurpazione del comitato, e per recenti questioni di terre; ma ambe le parti compresero ch'era interesse comune riconciliarsi prontamente, e già il 20 ottobre, nella chiesa de' SS. Martiri di Alpignano, compromettevano ogni lor differenza in Papiniano vescovo di Parma, Ottone di Grandson, Guicciardo sire di Beaujeu e Lodovico II di Vaud, la cui sentenza, del 29, nel giardino del castello di Rivoli, fu accettata e ratificata da Amedeo e da Filippo. Confermato l'arbitrato del 1294, il Conte prometteva al Principe, entro un anno, equo compenso per Beinasco e Piobesi, a lui dati senza che ne potesse disporre: comprerebbe inoltre, in ugual termine, e concederebbegli in aumento di feudo tanta terra fra il Po e la Stura da rendere annualmente 1000 lire viennesi, e non trovandosi a comprare, darebbegli 25.000 lire; dividerebbero per metà il dominio d'Ivrea e del Canavese, salvochè i castelli di Lanzo, Ciriè e Caselle sarebbero esclusivamente di Amedeo, e Balangero, Fiano, Rocca, Rivarossa, Baratonia, Viù, Settimo, Borgaro e Barbania esclusivamente di Filippo, con facoltà a quest'ultimo di comporre co' signori di San Martino, Rivarolo, Agliè, Front e Castellamonte; il Conte, infine, associerebbe di special grazia il nipote nelle ragioni testè acquistate dall'Imperatore sulla contea di Asti, sulla villa e territorio di Chieri e sulle fedeltà dei marchesi Del Carretto e di Ceva e di Giovanni di Saluzzo, lasciando però interamente al Principe le due Sommarive, Cavallermaggiore e Riva. S'intende che Filippo teneva ogni suo possesso in feudo da Amedeo, e i due signori si promettevano reciproco aiuto e difesa. Composte così tutte le cause di dissenso, il 15 novembre si stipulava la vera dedizione d'Ivrea al Conte ed al Principe, a' nostri storici ignota stavolta non era più soltanto una fazione, ma l'intera città. che si dava ad essi e loro eredi maschi legittimi, statuendo che i sindaci e credendarî dovessero giurar fedeltà a nome del Consiglio; a' nuovi signori spettassero i banni e le condanne, la gabella del

sale, il pedaggio del grano, de' mulini e de' cavalli; fosse lecito al Comune di far Statuti, purchè non contrari a' presenti patti; si proponessero dal Comune stesso, due mesi prima della scadenza del vicario, quattro persone tra cui il Conte ed il Principe sceglierebbero il nuovo, potendo essi procedere a nomina diretta solo in difetto di tal proposta, e con che il prescelto fosse cavaliere, castellano o nobile; al vicario suddetto si corrispondesse dai due signori uno stipendio annuo di 600 lire imperiali almeno; fossero il vicario stesso, suoi militi e giudici tenuti a giurare l'osservanza de' patti e statuti d'Ivrea e l'adempimento del loro ufficio a tenor de' medesimi, e ciò prima di scendere da cavallo; fossero tenuti il Comune ed u mini d'Ivrea, sobborghi, ville e distretto a far esercito e cavalcata pel Conte e pel Principe per lo spazio di 24 giorni, a proprie spese, ma solo al di qua de' monti e dentro un raggio di 40 miglia; dovessero i signori salvaguardar la Città ed i suoi abitanti, loro beni e ragioni, e far pace e guerra per essi; non potessero i medesimi mandare, condurre o far condurre senza giusta causa alcun cittadino d'Ivrea in ostaggio; fosse, invece, in lor facoltà di far costrurre uno o più castelli dovunque volessero, sia nella città, sia nel territorio. Anche il vescovo eporediese, Alberto Gonzaga, entrava in lega con Amedeo e Filippo il 4 dicembre: le condizioni, che il Vescovo cedesse al Conte i suoi diritti su Chivasso, Castagnetto, San Giorgio, Verolengo, Orio, Torrazza ed Azeglio, ottenendo in compenso varie esazioni, la promessa di non difendere alcuna causa contro la Chiesa d'Ivrea e l'omaggio per i feudi ceduti. Infine, il 12, i conti di Valperga e di Mazzè prestavano essi pure omaggio e fedeltà al Conte ed al Principe, i quali si collegarono quindi il 17, dichiarando inteso nell'arbitrato del 29 ottobre che gli acquisti potessero fare sul re Roberto o su qualunque altro potentato italico sarebbero divisi a metà, tranne Fossano e Savigliano, che sarebbero per intero di Filippo, tenendo questi, al solito, ogni cosa in feudo da Amedeo. Tutte queste convenzioni furono fedelmente osservate. Il 20 gennaio '14, nella chiesa di Sommariva del Bosco, riunivasi, secondo l'uso, il Consiglio generale, di 64 capifamiglia, e giurava fedeltà al Principe, ottenendo da lui alcune franchigie; il 22, prestavagli l'omaggio, a condizioni analoghe, anche Sommariva Perno (1).

(1) DATTA, I, 73 segg.; II, 89 segg., 95 segg., 101 segg., St. mon., II, 318 segg. Arch, Com. d'Ivrea, Vol. I, n. Tor., Prott. Ducc., e Prov., Alba, Mazzo XIV, n. 1. Somm. del B., 15 segg., Carmagnola, 1820.

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Continuava intanto la guerra. Mancano indicazioni sufficienti a determinare se proprio in questi mesi, piuttosto che ne' precedenti o ne' seguenti, accadessero alcuni fatti d'arme di cui parlano i cronisti: così una volta gli estrinseci d'Asti si sarebbero avanzati fino a Quarto, infliggendo una rotta agli occupanti; un'altra Martino Alfieri, fuoruscito, avrebbe sorpreso il castello di Mombarcaro; una terza quelli di Nizza della Paglia sarebbero usciti a dar il guasto a Castagnole. Ben è certo che in gennaio '14 — forse il 1 dell'anno —, Tomaso di Squillace compariva dinanzi a Dronero, terra di Manfredo IV, con un grosso corpo di truppe angioine, cioè 50 militi astesi, molti Provenzali e le genti del contado di Ventimiglia e della valle di Lantosca sotto il bali Giacomo Ruffi. Il marchese trasse in soccorso della piazza con 500 uomini, ma gli assediatori si erano afforzati con difese di legno e di neve, onde non potè operar nulla. In quella, il 4 marzo, inviava Roberto l'accettazione dei patti del 17 aprile '12, per cui Asti sottoponevasi al suo governo: finiva la gloriosa libertà astigiana, e la signoria angioina, ricostituita e cresciuta fra le discordie civili del Piemonte, trionfava, grazie alle medesime, della fiera Repubblica che l'aveva altra volta abbattuta, raggiungendo così l'apogeo. Ma omai, a difesa dell'indipendenza, s'era pure invigorita e temprata alle lotte future l'augusta Casa di Savoia (1).

FERDINANDO GABOTTO.

(1) G. VENTURA, cc. 67, 72 e 73, 785, 789. P. GIOFFREDO, St. delle Alpi maritt., in M. h. p., Script., II, 703; MANUEL DI SAN GIOVANNI, Dron., I, 76. GRASSI, St. d'Asti, I, 269.

RECENSIONI

D. ATTO PAGANELLI, La cronologia romana. Milano, Tipografia pontificia di S. Giuseppe, 1892. Prezzo L. 6- pag. 172 in-4°.

L'A. rivela subito lo scopo di questa pubblicazione nel dirci che essa debba servire a confermare i resultati della sua Cronologia rivendicata, mostrando su quali basi questa si fondi in quanto alla storia, e, specialmente, in riguardo alla romana. In questo lavoro egli correda la cronologia di testi desunti da tutti gli storici greci e latini che gli sono venuti per le mani e che ha creduto capaci di stabilirne in modo non equivoco, anzi indiscutibile, l'andamento. Egli finalmente si propone di far vedere e toccare con mano come tutti gli storici sono in pieno e perfetto accordo fra di loro, rispetto alla fondazione di Roma, avvenuta il 21 aprile del 752 avanti l'êra volgare, che è anche quello dell'anno IV della VI olimpiade, e del 431° dopo la distruzione di Troia.

A quest'ultimo fine egli impiega 17 pagine a due colonne, cercando di dimostrare la sua tesi, se non molto vittoriosamente, certo con molta diligenza ed argutezza di vedute. L'esame dei fonti lascia il desiderio di vederli compulsati con maggiore maestria; così presso che inutile è lo studio dei fonti derivati da Catone e da Varrone, quando essi si attengono al fonte primitivo, mentre sarebbe stato assai proficuo il cominciare dallo studio delle êre di Varrone e di Catone, non fermandosi alla data della fondazione di Roma, ma risalendo a quella che è come il perno di tutta la cronologia greca e romana, voglio dire la data della distruzione di Troia. Ed intorno a questa data che Catone [Eratostene] segna al 1184, seguito da Diodoro (ap. Eusebio, I, 283) e da Dionigi d'Alicarnasso (I, 71), che Eusebio colloca al 1181/80; che l'êra di Sosibio nota nel 1172, cioè 4331 anni dalla fondazione del mondo, seguito da Fabio e questi da Sincello, l'A. avrebbe dovuto fermarsi di più. A lui non sorge mai il dubbio sulla sicurezza di questa data; e, stabilita che l'abbia, corre al saccheggio dei fonti, senza pesarli, senza alcun riguardo alla patologia dei fonti stessi ed alla loro filiazione.

In 171 tavole l'A. sviluppa la cronologia romana, dall'anno 753 a. C. sino al 287 d. C., ed a pie' di ciascuna tavola cita per esteso quei brani di testi latini o greci, dai quali o è tratta la data o è confermata. Utile il sincronismo delle diverse êre, ed assai comodo è il determinare, a colpo d'occhio, la corrispondenza tra l'êra di Roma, le

olimpiadi, il periodo Giuliano e l'êra volgare. Il lavoro, in questa sistemazione di cifre, è prova di molto buon volere, benchè, qui e lì, non manchino alcune inesattezze; p. e., alla tav. 121, lo scoppio della guerra civile è posto al 703/4 d. R. seguendo Livio (Suppl. CIII, 136, 387), senza tener conto di Velleio (I, 8, 4) che designa il 703 e di Varrone che lo pone al 705; ed a tav. 140 dove l'A., seguendo Velleio, assegna il 781 d. R. per il consolato di Vinicio, senza tener conto del 783 dato da Varrone a quel consolato. Nessuna questione cronologica è toccata all'infuori di quella della data di fondazione di Roma.

Non mancano errori anche grossolani (pag. 131 si parla di Suetonius Luydunensis che l'A. traduce per Svetonio Lionese ecc.); ma il difetto capitale del lavoro è nell'uso poco giudizioso dei testi. A prescindere dalle edizioni, ciò che del resto, oggi, costituisce un grave torto (per Livio l'A. usa l'edizione torinese, tipi Pomba, 1825; per Dionigi d'Alicarnasso, quella di Basilea, 1532, ecc.), dopo tanto lavoro per la ricostruzione dei testi; senza tener conto di citazioni poco precise (p. e. Vell. Paterc., I, a pag. 140, ecc.); quello che non si può tollerare è l'uso dei traduttori e la citazione dei testi greci pei traduttori stessi, anzi alcuni, come Dionigi d'Alicarnasso, non citati secondo la traduzione latina, ma secondo quella italiana che è traduzione della traduzione.

Questa maniera di servirsi dei fonti toglie molto credito alle cifre che dai fonti stessi derivano, e fa riuscire quasi inutile, se non molte volte dannosa, la citazione per esteso del passo latino greco. Si scorge nell'A. il desiderio imperioso di non lasciare lacune tra anno ed anno, onde quando gli manchi il fonte autorevole, come avviene per Livio, per Dionigi, per Tacito, piuttostochè contentarsi di lasciare. spazi vuoti, ricorre a fonti poco autorevoli; e quando si serve di Livio non tiene conto alcuno di tutto il lavoro di ricostruzione del testo liviano, che ha fatto la diligente e spassionata critica moderna.

È sommamente penoso poi il vedere che l'A. non si è mai servito per la sua cronologia nè del sussidio epigrafico, nè dei Fasti Capitolini, nè di altri fonti; e nulla, proprio nulla, conosce della letteratura del suo argomento.

Secondo me, il lavoro è basato tutto sopra un dato che si doveva discutere, l'êra troiana; ha il peccato di essere andato in cerca di date nei testi, mentre doveva seguire il cammino opposto, cercare cioè i testi, assicurarsi della loro genuinità, tener conto degli studî che vi si sono fatti su, ed accogliere le date soltanto allora quando dei testi si fosse stati ben sicuri. Quanta parte del Livio dell'A. è fattura degli umanisti, e quante volte la citazione è poggiata sulle parole del Freinshemius, piuttosto che su quelle di Livio come l'A. suppone! G. TROPEA.

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