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UBERTO PEDROLI, Roma e la Gallia Cisalpina (dal 225 al 44 a. C.). Torino, E. Loescher, 1893, pag. 142.

Il libro è dedicato a Giulio Beloch, onore dell'Ateneo romano e profondo cultore di storia antica. Evidentemente l'A. è un discepolo della scuola di Roma, quella che, con l'altra di Pisa, avente a capo l'illustre Ettore Pais, tiene alto il decoro degli studî di storia antica in Italia. In una sobria Introduzione, il Pedroli, toccando delle fonti, dice che i materiali antichi, per quel tratto di tempo che è dal 225 a. C. alla morte di Cesare, sono deficienti: chè di Livio non c'è che la periocha del lib. 20°, poi il racconto dei fatti fino al 167, poi di nuovo una interruzione e poi frammenti. Per la guerra del 225 supplisce Polibio (II, 19 e sg.), ma per gli anni che decorrono dal 167 a. C. in giù, è necessario di ricorrere alle notizie sparse in Appiano, Orosio, Vell. Patercolo, nei Fasti trionfali e consolari, nel C. I. L., V, 1, 2 e XI, 1; ma fonte importantissima è l'H. N. (lib. 3°) di Plinio, là dove si parla della corografia d'Italia al tempo di Augusto.

Quanto alla letteratura del tema, l'A. si riserva di parlarne, volta per volta, quando gli si presenti l'occasione.

Il lavoro è diviso in tre parti: la Gallia Cisalpina al 225 a. C.. la conquista, la romanizzazione.

La prima parte contiene uno studio geografico sui confini della regione rispetto ai paesi coi quali era estesa la dominazione romana: studia l'etnografia della regione, determina i popoli che, secondo Polibio (II, 14 sg.) la abitavano, e non di rado tocca importanti questioni topografiche; a lungo si ferma sui Liguri e sulle loro tribù. Dove le fonti letterarie gli manchino, ricorre a quelle epigrafiche ed esamina, con critica spregiudicata, i lavori dei moderni.

Il capitolo è tutta una buona preparazione per l'intelligenza dei progressi fatti dai Romani nella conquista di questo territorio dal 225 a. C. in poi. Fa penosa impressione la quantità di errori tipografici, specialmente nel greco (pagg. 5, 6, 7, 9, 11, 15, 25, 31, 41).

L'A., nel 2o capitolo, premette che non si fermerà sui particolari dei movimenti militari, ma soltanto là dove « le notizie che noi possediamo sulla conquista della Gallia Cisalpina abbiano carattere od economico o civile, e sui resultati delle battaglie ». Dopo di avere accennato alle conseguenze arrecate dalla conquista del paese dei Senoni, per trovare, secondo Polibio (II, 21, 7), la causa precipua della successiva guerra gallica, e, secondo l'A., una delle cause che concorsero al grande passo del muoversi dei Galli dalla valle del Po verso Roma; dopo di avere osservato che, per la convenzione del 228, i Romani, liberatisi dai Cartaginesi, poterono impiegare le loro forze contro i Galli, e si servirono anche di mezzi diplomatici, come l'alleanza dei Veneti e Cenomani che obbligava gl'Insubri ed i Boi ad immobilizzare

una parte delle loro forze per la tutela dei confini; segue, sulla base degli studi del Mommsen (Röm. Forschungen, II, 382-406) e del Beloch (Bevölkerung, 355-370), la rassegna delle forze combattenti romane (768.000 uomini), celtiche (70.000 tra fanti, cavalieri e combattenti sui carri), galliche (200.000 uomini), ed esamina le affermazioni statistiche di Fabio, di Diodoro, di Polibio. Dopo la vittoria romana di Telamone, i consoli del 224 procedono contro i Galli, accettano la resa dei Boi e, forse, dei Lingoni; nel 223 si ritorna alla lotta, gli Anamari si arrendono e concludono un trattato di alleanza ed abbiamo la sottomissione di tutti i Galli di qua dal Po. Nel 222 avviene la vittoria di Clastidium e di Mediolanum, e, di conseguenza, la sottomissione degl' Insubri. Così, dal 225 al 222, Roma passò all'offensiva contro i Galli. I tentativi di riscossa dei Galli indussero Roma a dedurre le colonie di Placentia e Cremona, che furono fortificate; quando arriva Annibale.

Qui la generale sollevazione dei Galli in favore del cartaginese, la sconfitta toccata al console L. Postumio Albino, ma la pace del 201 tra Roma e Cartagine riapre violente le lotte tra Galli e Romani; gl' insorti (40.000) saccheggiano Piacenza, assediano Cremona, ma il pretore Furio li vince presso Cremona. E la lotta continuò, ora lenta, ora acre, fino alla grande sconfitta toccata ai Galli nel 197 a. C. Segue la sottomissione di Bononia.

Nel 193 si sollevano i Liguri, che sono sottomessi; nel 186 i Galli Transalpini molestano i Veneti, e nel 183, dopo inutili trattative, è spedito M. Claudio Marcello, al cui arrivo 10.000 Galli cedettero le armi, ma il Senato le restitui a patto che rivalicassero le Alpi.

In questo tempo, per premunirsi, Roma dedusse ad Aquileia una colonia latina, mentre con la deduzione delle colonie a Mutina e Parma si proseguiva nella romanizzazione dell'ager gallicus. Nel 181 è vinto l'esercito ligure (40.000) da Paolo Emilio; poi sottomessi gli Apuani e trasportati nel Sannio; nel 179 nuova discesa e nuovo ritorno alle loro sedi di Galli Transalpini; nel 178-77 guerra con gl' Istri. È dedotta la colonia di Luna, ed ai campi Macri sono sedati gl' insorti Liguri dal console C. Valerio Levino, poi di nuovo nel 175, nel 173. Nulla di notevole sino al 169, anno nel quale furono spediti rinforzi agli Aquileiensi esposti alle scorrerie degli Istri e degli Illiri. Ma la sconfitta completa è data ai Liguri nel 166. Rimaneva ancora a sottomettere la parte estrema occidentale e settentrionale della Cisalpina: i Salassi, che da Augusto sono totalmente soggiogati nel 25 a. C. Abbiamo seguito di corsa il cammino degli avvenimenti quale ci è dato dall'A., il quale è arrivato un po' stanco sino ai Levi, Marici, Lebeci e Taurini, talchè delle lotte con queste genti ci dà soltanto scarsissimi cenni.

Rivista Storica Italiana, XI.

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Ed ora veniamo all'ultima parte del lavoro: la romanizzazione. L'A. studia, sulla guida dei lavori del Beloch e del Mommsen, il catalogo pliniano, per quanto si riferisce alla Gallia, e si propone di completare le notizie sulla base delle iscrizioni: Trae l'elenco delle colonie e dei municipî nelle regioni VII, VIII, IX, X, XI; esamina le colonie ed i municipi e, procedendo per eliminazione, cerca quali debbano la loro fondazione ai triumviri o ad Augusto, e quali risalgano ad età preaugustea. E comincia dalle colonie, criticando, dove occorra, il catalogo pliniano, e, ragionando si delle colonie latine, che di quelle c. r., dedotte nella Cisalpina. Tratta in proseguo dei conciliabula e dei fora, servendosi del Mommsen (Röm. Staatrecht), del Beloch (It. Bund), del Kubitscheck (Imp. rom. tributim descr.). Stabilita l'estensione del dominio romano nella Gallia cisalpina, prima della guerra sociale, l'A. esamina lo stato di altre città non assegnate ad alcuna delle categorie da lui studiate, e comincia da Pisa, segue con Ravenna, Genua (civitates foederatae). Parla poi delle strade costruite nella regione e che rafforzarono sempre più il dominio romano nella Cisalpina, accennando alla via Flaminia che, innestandosi alla Cassia ad Arezzo, conduceva sino a Roma; poi alla Emilia, da Ariminum a Bononia, ed al suo prolungamento sino ad Aquileia; alla Postumia, costruita forse nel 148 a. C., da Placentia a Genua; alla Popillia, ed alle minori Annia, Fulvia, Emilia (nuova), una rete fitta di vie che stabilivano pronte e facili comunicazioni con Placentia, Genua, Eporedia, Cremona, Bononia ed Ariminum, le fortezze romane cioè della Gallia cisalpina.

Quando nel 91 a. C. interviene la guerra sociale. Qui l'A. studia la parte sostenuta dai Galli nel grande avvenimento e le conseguenze che esso ebbe nei rapporti fra Roma e le città della Gallia, fino al 49, allora che Cesare, avendo bisogno dell'appoggio dei Transpadani per attuare i suoi disegni politici, concesse ai Cisalpini la cittadinanza ed il governo municipale romano. G. TROPEA.

GAETANO RIZZO, La tavola dei Ginnasiarchi a Tauromenio. Contributi alla storia dell'elemento dorico in Sicilia. Parte I. Palermo, Clausen, 1893; pag. 75. L. 3.

L'A. illustra la tavola riferita dal Kaibel (I. G. S. et I., pp. 79-112) nelle iscrizioni di Tauromenio, e decifrata dal Bormann, dopo gli studi di valenti epigrafisti italiani e tedeschi. Egli prende a sussidio la tavola degli strategi (K., n. 421), e si propone di ristudiare la tavola dei ginnasiarchi al lume del testo bormanniano. Cerca di fissare l'epoca del documento, rilegandola al periodo storico di Tauromenio; poi esamina l'ordine cronologico dei ginnasiarchi, seguendo, di ugual passo, quello degli strategi, e conclude col dirci che i resoconti dei ginnasiarchi vanno dal 195 al 124 a. C., abbracciando così un periodo di

71 anni, mentre la strategia continua a funzionare per altri 5 anni, arrivando così al 119; e soggiunge non essere impossibile che le due istituzioni si siano protratte ancora di un secolo, sino alla colonizzazione della città per opera di Ottaviano.

Nel 2o capitolo parla del modo onde era costituito e funzionava il Ginnasio di Tauromenio, degli uffici dell' eponimo e dei ginnasiarchi, i quali crede siano magistrati responsabili, del passaggio da stratego a ginnasiarca e viceversa, e riferisce i nomi di 40 ginnasiarchi. Chiude il capitolo l'illustrazione di due epigrafi, scoperte nel 1770, riferite dal D'Orville e dal Castelli, e, secondo l'A., non bene interpretate.

Il 3 capitolo s'intrattiene sulle relazioni che corrono tra le tavole dei ginnasiarchi e degli strategi con le otto tavole finanziarie; e l'A. conclude che gli amministratori del comune dovevano avere relazioni di affari coi ginnasiarchi. In questo capitolo tocca della topografia del Ginnasio tauromenitano.

Prima di venire ai resoconti d'esito e d'introito, dà uno sguardo al sistema generale di misurazione adottato dai Greci di Tauromenio, e vi impiega tutto il 4° capitolo. Il 5 consacra ai resoconti che egli può dare solo per 22 anni, essendo scomparsi quelli di 11 anni. Così conclude che in 18 anni si diedero 597 spettacoli e si consumarono hl. 669,31 di olio, in media hl. 37,18 per ogni spettacolo; che per 4 spettacoli separati si consumarono hl. 150,62 di olio, cioè 37,65 hl. in media per ciascuno spettacolo; che per i tre ultimi spettacoli si spesero tal. 11726, in media tal. 3908 e libbre 80 per ciascuno - onde si ha un totale di 601 spettacoli e hl. 819,93 di olio.

L'A., partendo dallo studio della tavola, tenta la ricostruzione di alcune pagine della storia di Tauromenio, e da una interruzione di cm. 36 che egli trova nel marmo e che calcola potesse contenere 25 linee, computando 8 linee per annata, crede manchino i resoconti di 3 anni, cioè dal 71 al 75 escluso; dall'anno 97 in poi egli crede vi debba essere una grandissima lacuna, di 40 anni, senza che vi sia spazio vuoto, o nota, o segno che giustifichi l'interruzione. Egli spiega il fatto supponendo che dal 167 al 127 sia avvenuta una grande rivoluzione nell' ordinamento dello stato tauromenitano, che sia sôrta l'anarchia, che non abbia più registrata l'entrata e l'uscita del Ginnasio; che il mutamento sostanziale nelle magistrature si sia risoluto in un nihilismo, per il quale nessuno 'si curò più dell'amministrazione del Ginnasio. L'ipotesi, in verità, è tanto ardita che non esiterei a dichiararla addirittura strana; e tanto più, quando si rifletta che le strategie si seguono regolari dal 98 in poi, cioè dopo il celebre 97 dell'anarchia desunta dalla interruzione nella tavola dei ginnasiarchi. Era dunque un'anarchia che colpiva i ginnasiarchi e lasciava in piedi gli strategi?

A pagg. 34-36, l'A. riferisce una delle due epigrafi, quella che contiene il nome di un vero e proprio ginnasiarca. Tralascio la poca osservanza della buona trascrizione epigrafica, e riporto l'epigrafe come l'ha segnata il Rizzo: Γάιος Κλαύδιος | Μαρκουίος Μαάρκελλος | Γ. L'A. dice che qui si tratta di un nome romano, che è Caius Claudius Marcellus; che nella storia di Roma s'incontrano parecchi della gente de' Claudii che portano il cognome di Marcello, fra cui il famoso vincitore di Siracusa (212-214); che raro è fra i grandi magistrati di Roma trovare una persona che porti il prenome Gaio unito a Claudio Marcello; che trova però un Caius Claudius Marcellus console con Lentulo nel 50 a. C.; che un Marco Claudio Marcello, console nel 51, non è il padre di Gaio, ma cugino di lui; che, finalmente, padre di Gaio dovette essere un Marco che non avendo importanza politica, restò nell'oscurità. Vedremo poi le conclusioni del Rizzo. Per ora osserviamo che Caio Claudio Marcello fu console nel 49 e 48 con L. Emilio Paolo e L. Cornelio Lentulo (Dione, XL, 82; Liv., Suppl. CIX, 2 (Freinshem.); CIX, 29; Dione, XLI, 91; Vell. Paterc., II, 234); che M. Claudio Marcello fu console con Ser. Sulpizio Rufo nel 50 (Liv., Suppl. CVIII (Freinshem.) 11; Dione, XL, 78); che è infondata la supposizione di un Marco padre di Gaio. L'A., continuando sulla base di ipotesi, conclude col dirci che egli non esita ad identificare il Caius Claudius Marcellus console col Γάιος Κλαύδιος Μαάρκελλος dell'epigrafe, e vi fabbrica una pagina di storia, affermando che forse il console, attirato dalla rinomanza del Ginnasio di Tauromenio, vi andò, vi fu nominato ginnasiarca onorifico (carica, in verità, nuova del tutto) e, quando egli uscì di città, i cittadini vollero tramandare ai posteri, il ricordo di tanto onore, con quella epigrafe. È un lavoro di fantasia, e sia pure; ma noi ci permettiamo di domandare all'A. che cosa ha fatto del Maapкоυíoç, giacchè ha saputo collocare così bene le altre tre parole dell'epigrafe. O che forse l'idea di un padre dal nome Marco gli sarà nata dalla scomposizione di Μαρκουίος in Μαάρκου e υἱός?

Ed ora spigoliamo, qui e lì, alcune osservazioni che siamo venuti facendo durante la lettura del lavoro. Lasciata da parte la frase un po' enfatica e non sempre esatta che il Rizzo usa per la prefazione di un lavoro d'indole così positiva, noto i seguenti fatti:

a pag. 12, nota 1 e 2, manca il fonte di Diodoro; a pag. 14 è inesatta la citazione Diodoro, XIV; a pag. 15 non è vero che « è provato... che i coloni greci costituivano subito un corpo politico ordinato e la prima lor cura nello stabilirsi sul territorio occupato era quella di fondare la città ed erigervi i pubblici edifizii necessari alla vita religiosa e civile di un greco »; a p. 15 di Diodoro è da citarsi il XIV, 96, 4, non 4-5; a p. 18, nota 1, inesatta è la citazione: Cic. in Verr. ... 5, 19, 49, 22, 56; a p. 23 è citato Demostene, così, senz'altro; a p. 25 l'A.,

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