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e posto l'assedio a Gradara, ebbe notizie sconsolanti di Filippo Maria che, vecchio e malaticcio, lo invitava a Milano a prender le redini dello Stato. Il 23 febbraio del 47 moriva, com'è noto, Eugenio IV, e Nicolò V gli succedeva il 5 di marzo. Bandita la tregua, combinata con lui la cessione di Jesi e di Staffolo, e investito il fratello Alessandro della signoria di Pesaro, Francesco pensò di ritirarsi dalla Marca: « lo richiamavano in Lombardia le voci della natura e del sangue, il dovere, l'interesse, la politica, la ragione di stato e la quasi impossibilità di riacquistare il perduto dominio » (p. 396).

« Quando saranno venuti alla luce (così l'A. alla fine del libro) tutti i documenti sforzeschi che tuttora nascosti e ignorati giacciono in non pochi archivi dei comuni marchigiani, questo mio storico lavoro potrà avere schiarimenti, rettifiche, perfezione ». Chi allora riprenderà l'argomento per trattarlo con pienezza maggiore si gioverà dei Bandi di tregue fra i Malatesta, gli Sforza e Federico di Montefeltro, che dall'on. R. Mariotti furono da poco pubblicati per circostanza di nozze (Fano, 1892; in-8°, di pp. 17): è fra questi il bando di tregua (15 maggio 1444) fra Sigismondo Malatesta, capitano generale dello Sforza, e il duca d'Urbino, la quale (come rilevasi dalla lettera di Sigismondo agli uffiziali di Fano) fu conclusa « a complacentia de lo ill. Signore messer lo Marchese de Ferara », e dovea durare trenta giorni; scaduta, fu rifermata il 15 giugno per sei mesi, sempre in grazia della « mezanità » dello stesso marchese. E talune rettifiche dovrà fare nel libro del B. La pace del 44 tra lo Sforza ed il Papa fu, è vero, trattata a Perugia, ma non conclusa il 9 di ottobre, bensì il giorno prima, alle ore due di notte: il Bonazzi, sull'autorità della Cronaca di Rimini, del Sanuto, del Graziani e delle note del prof. Fabretti al Graziani stesso, asserisce che a quell'ora, sebbene tarda, « le campane del Comune e di S. Lorenzo ne annunciarono la conclusione e fu solennemente bandita nel 19 ottobre (il B. la dice ratificata il 9 e sottoscritta il 30 del mese precedente) rinnovandosi lo scampanio e le allegrezze ».

Il B. pone sotto l'a. 1433 la prigionia di Cristoforo da Tolentino e di ser Guerriero eugubino: l'autore delle Cronache fermane dà il fatto come avvenuto il 4 di marzo, senza dichiarare la ragione della prigionia perchè non la sa (« quomodo et quare nescio »); questa indicazione del giorno è nella Cron. Rim. (R. I. S., XV, 931) cambiata in 8 febbraio; il B., che s'attiene al racconto di ser Guerriero di Silvestro, pone il fatto nel febbraio. Ma il cronista eugubino (perchè il B. lo chiama Guarniero Berni se ormai, dopo l'ediz. della Cronaca, fatta su l'autogr., è accertato che il suo nome è ser Guerriero [cfr. « Arch. stor. per le Marche e l'Umbria », I, 422] e ser Silvestro fu suo padre ?) ricorda l'avvenimento all'a. 1442 e ne dice il giorno, il 16 febbraio: nell'autogr. della sua cronaca leggesi che il Tolentinate fu « da Nicolò

Piccinino preso et messo in lo cassero de Assisi et fu' [io] perchè era suo cancelliere con lui »; le quali parole il Muratori stampò così (R. I. S., XXI, 981): « da Nicolò Piccinino messo nel cassero d'Assisi ed io li ero Cancelliere e Segretario insieme con lui ». Al passo del cronista, così riferito dal Muratori, il B. si affida; certo, al senso del testo muratoriano si riduce l'autogr., correggendolo: ma è da notare che il testo a stampa non può servir di base alla ricostituzione dell'autogr., perchè deriva dal noto cod. Vaticano che è del 1577 e che più volte si allontana sensibilmente dall'originale. Resta fermo, a ogni modo, che nell'un testo e nell'altro la data, 16 febbraio 1442, non varia. A pag. 67 e sg., narrandosi il combattimento a Fiordimonte fra le milizie sforzesche e quelle di Nicolò Fortebraccio, è detto che questi fu morto per mano di Cristoforo da Tolentino ». Così aveva asserito il Litta, mentre il Ricotti attribui quel fatto ad un Cristoforo da Forli; il Lili, a cui il Ricotti prestò fede, corresse poi altrove quel nome e non « da Forli » chiamò l'uccisore del Fortebraccio, ma << da Tolentino ». Però un cronista veridico come Antonio dei Veghi non darebbe ragione a nessun di loro, chè si limitò a semplicemente dichiarare. come il Taliano, ch'era a campo con il conte Francesco, dette adosso al signore Nicolò e fu ammazzato et il campo andò in ruina » (A. Fabretti, Cron. di Perugia, II, 15). Il Veghi allora, nel 1435, era vivo; ond'è che i suoi diarî (1423-91) hanno maggior valore delle storie del Lili. Più giù, a pag. 69, il B. afferma che Francesco Sforza « nel settembre [1435] era sempre a Cesena »; tanto ciò è vero che datò da questa città varie ordinanze ai comuni marchigiani: il mese appresso, valicato il Savio, fu a Forli dove obbligò l'Ordelaffi a riconciliarsi col papa ». Invece il Cobelli scrive che « del mese de septembre a di 20 el conte Francesco de Cotognola capitano de la lega se parti dal Cesinato d'un loco chiamato Martirano e vene in sul terretorio de Forlivio a una villa chiamata Bagnolo ». E aggiunge che il 25 dello stesso mese se ne andò da Forli e da Bagnacavallo si recò a Firenze. Dopo un anno ritornò in Romagna, nuovamente ai danni di Forlì; ma la città egli non ebbe il 24 luglio, come dice il B., ma il 14: in tal giorno el conte Francesco venni a pe' della rocca e fo a parlamento con lo castellano »; con questi « fo d'acordo » e quindi « intrò dentro la citate e venne in fine al palacio e illi fe' un poco colacione e bebe de l'acqua perchè non beveva vino ». Tre giorni dopo cinque gentiluomini forlivesi recaronsi a Roma per dichiarare al Pontefice obbedienza e fargli omaggio; e il Papa « gli fece buona accoglienza et benedilli, promettendoli voler far bene alla città ». Ma il valore del libro non resta davvero scemato per tali sviste leggiere nè per altre che per brevità non dichiaro. Però alcune osservazioni non voglio tralasciare. << Maestro Nicola Ceccho » (p. 234) è « si può quasi assi

curare, fratello del celebre Francesco Filelfo di cui il cognome vero era Cecchi o Ceccho, come risulta dalla sentenza emanata contro di lui dalla Rep. fiorentina ai 22 sett. del 1436, colla quale fu condannato al taglio della lingua e al bando, pubblicata dal Fabroni nella Vita di Cosimo de' Medici »: noti il B. che il Fabroni stampa cosi il nome del Filelfo « Francesco di Cecco »! Ma la dichiarazione dei nomi non è, si vede, il suo forte: infatti egli dà « Catervo di Tommaso » (pp. 152, 162) con la medesima disinvoltura onde stampa « maestro Antonio Claudi» (pp. 152, 161, 162), « Matteo Sclavi » (pp. 161, 164), « Giovanni di Jacopo Stefani » (pp. 144, 161), « Giovanni Catervi » (p. 144), << Giovanni di Catervo » (p. 162), « Ser Nicolò di ser Petri » (ivi), << Catervo Serafini » (ivi), ecc. L'indice alfabetico dei luoghi e delle persone non è perfetto: per es. (e di queste omissioni potrei citarne parecchie) non vi sono citati Giacomo da Gubbio (p. 67) e Cristoforo da Forli (p. 68); alla voce « Assisi » non è rimandato il lettore a p. 68. E poi, che cosa voglion dire i nomi di luoghi e di persone, stampati in maiuscolo, senz'avere a canto alcun numero di pagina? E perchè mandare in giro il lettore da Erode a Pilato per farlo poi restare a bocca asciutta?: io, leggendo il libro, ho avuto necessità di saper varie cose su Francesco Sforza; son corso, nell' indice, al nome « Sforza > ed ho letto << Vedi Attendoli »; son tornato indietro e sotto questo nome ho letto<< Attendoli (Alessandro Sforza degli) » e poi « Id. Francesco Sforza degli », e nient'altro, e nessun rinvio alle pagine del volume. E perchè presso al nome « Visconti Bianca Maria » son registrati venticinque numeri di pagine e a canto a quello di Filippo Maria non c'è un numero solo? I documenti inseriti nel testo sono copiosissimi; l'A. non li ha confinati nelle note o in fine al libro perchè ha voluto seguire l'esempio d'insigni scrittori fra i quali l'illustre Pasquale Villari»; ma riducono essi «a moderna l'antiquata ortografia e locuzione dei documenti?; e proprio il prof. Villari offre al B. l'esempio di tradurre in volgare gli antichi documenti latini?

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GIUSEPPE MAZZATINTI.

F. GABOTTO, Lo Stato Sabaudo da Amedeo VIII ad Emanuele Filiberto. Vol. II: (1467-1496). Torino, Roux e C., 1893.

Atteso con desiderio da quanti, dal primo volume pubblicato quasi a modo di saggio, avevano concepito la speranza di veder finalmente svolta colla dovuta ampiezza e profondità la storia del secolo che corre fra l'abdicazione di Amedeo VIII e la restaurazione di E. Filiberto, è comparso da poco il libro di cui trascrissi il titolo. Mi piace dir subito che le speranze non furono deluse, e se, come non v'ha dubbio, nei volumi che ancora dovranno tenergli dietro il prof. Gabotto continuerà

a mostrarsi pari a se stesso, potrem dire che quell'epoca, travagliosa e triste fra tutte, ha finalmente trovato il suo storico. Storico coscienzioso ed imparziale, che non perdona a ricerche e a fatiche, per istabilire, anche nelle menome cose, il vero; che sa elevarsi alle più alte considerazioni, abbracciando, quando occorre, tutto il complesso della politica europea nelle sue relazioni con quella di Savoia, e scender con ugual precisione ai più minuti ragguagli d'avvenimenti in apparenza lievi, e d'interesse personale o locale, ma pur influenti sullo svolgersi della pubblica cosa; che offre col suo lavoro un quadro completo non pure delle vicende politiche, ma delle intime condizioni della società che prende a descrivere. Il G. mostra un'ampia conoscenza bibliografica, e dei lavori di quanti lo precedettero sa far suo vantaggio con giusta misura, senza lasciarsi però condur mai ad accettar come vero un fatto per questo solo che altri prima di lui l'abbia affermato; ma tutto con pazienti indagini controlla su documenti autentici, dei quali molti (forse con soverchia larghezza) riprodotti testualmente nelle note, fanno buona testimonianza della profondità dei suoi studi. Ed infine devo pur rendere al G. questa lode, che se le note riescono talvolta alquanto prolisse, la narrazione corre invece nel testo spedita ed attraente, ed egli, meglio che nel primo volume, seppe mantener la promessa d'una forma efficace se non elegante che ne renda meno faticosa la lettura. Che anzi in taluni punti apparisce evidente non dirò lo sforzo, ma la deliberata ricerca d'un cotal lenocinio di stile, eccesso ad ogni modo ben più scusabile di quello in cui par voglia cader oggi una scuola che, sdegnosa quasi d'ogni arte, sembra studiarsi di ridurre la storia geniale all' aridità di formule algebriche.

Il presente volume abbraccia lo spazio d'un trentennio, ma questo lungo lasso di tempo può idealmente scindersi in vari periodi. Del primo, in cui sono protagonisti, ed antagonisti quasi sempre, la Duchessa Iolanda e Filippo Senza terra (poichè lo sventurato Amedeo IX, che ebbe nelle vicende dei suoi tempi così poca parte, presenta in queste pagine una figura forse anche più sbiadita del vero); del secondo, che narra l'avvilimento e la miseria in cui la prepotenza di Francia, il maltalento dei Principi, le ingordigie dei Grandi, le discordie del popolo piombarono lo Stato nei quattr'anni che Filiberto regnò privo dell'egida materna, vorrei poter dire con qualche larghezza, e scender a qualche particolar rilievo che mettesse in luce i molti pregi del lavoro: ma poichè me lo vieta la tirannia dello spazio, starò pago ad affermare sinteticamente che il G. è riuscito a dilucidare molti fatti, chiarire molte confusioni, scioglier molti dubbi, sfatar non poche leggende, e a presentar molti punti sotto un aspetto affatto contrario a quello che, sulla fede di cronisti mal informati e di storici troppo

corrivi, s'era fin qui ritenuto. Solo aggiungerò che assai ben delineati mi sembrano i caratteri di Iolanda e di Filippo, ben meritati gli elogi che, più d'una volta, il ch. A. tributa al senno ed all'energia della Duchessa, ma troppo indulgente forse il suo giudizio sul Senza terra. Il G. si lascia, parmi, più che non convenga, sedurre dal carattere ardito e risoluto, dall'incontestabile ingegno di costui, e gli attribuisce idee alte, nobili e generose, sogni alteri di grandezza patria, acute mire politiche e forte spirito nazionale, mentre purtroppo il vero è -e la stessa imparziale narrazione del G. ne fa prova che Filippo fu un ambizioso irrequieto, che sacrificò tutto, anche i supremi interessi della patria e della dinastia, alla smodata sete di potenza. E troppo severo per contro ritengo il giudizio che l'A. fa del Duca Filiberto accusandolo di debolezza di carattere, ed affermando ch'egli era giovane di belle speranze, che poi smenti, nè solo per la morte immatura (pag. 241). Travolto dal turbine di avvenimenti tristissimi, zimbello in mano d'uomini, come Luigi XI ed il La Chambre, rotti ad ogni astuzia e ad ogni prepotenza, come poteva il misero giovincello spiegar fermezza di carattere ed avere una volontà propria? D'un ragazzo morto a 17 anni ben può dirsi che dava a concepir liete speranze, è ingiusto ed intempestivo fargli colpa di non averle mantenute. Giunti invece al terzo periodo di quest' istoria, ricco pur esso di sofferenze, di pericoli e di guerre, ma non scevro almeno di dignità e d'onore, al regno troppo breve di Carlo I i guerriero, chiedo licenza di diffondermi alquanto. Di quest'epoca, non è molto, ebbi ad occuparmi anch'io, cercando di tessere la biografia della Duchessa Bianca (1), ed il ch. G., pur facendomi l'onore di citare spesso il mio libro, ed accettando molte notizie da me recate, non mi risparmio parecchie censure, come già me n'era stato largo nella recensione che s'era compiaciuto far del mio lavoro in questa stessa « Rivista » (2). Di questi appunti molti riconosco meritati, e come tali volontieri li accetto, come ad esempio quello di aver taciuto di molti fatti importanti onde il mio racconto riesce monco ed incompiuto, al che null'altra scusa potrei invocare all'infuori di questa, che anche il ch. G. intravide una volta, ch'io cioè intendevo scrivere la biografia di Bianca non la storia dello Stato Sabaudo. Altri invece mi sembrano deficienti di serio fondamento, o fatti, mi consenta il G. ch'io ripeta le parole che già una volta, a proposito del suo zelo nel rilevare inesattezze altrui, gli furon rivolte su questo periodico, per un lusso inutile d'erudizione (3). E

(1) Bianca di Monferrato Duchessa di Savoia. Torino, Roux, 1892. (2) Una Duchessa di Savoia (Bianca di Monferrato). Torino, Bocca, 1893; estr. dal vol. X, fasc. I della Riv. Stor. Italiana ».

(3) C. BRAGGIO, Recensione di: Un nuovo contributo alla storia dell'umanesimo ligure di F. GABOTTO in Riv. Stor. Ital. », IX, 495.

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