Slike stranica
PDF
ePub

il giudizio non è scevro di dubbi. Altrove, infine, i dubbi son d'altro genere. Io non credo, per esempio, che coll' espressione dantesca << e tanto buono ardire al cor mi corse » abbia nulla che fare un passo dell'Istorietta trojana: « quanto piue durava l'assalto, più pareva che virtù gli corresse »; poichè corresse sta qui per occorresse', 'soccorresse', mentre in Dante il verbo conserva efficacemente il valore suo proprio.

[ocr errors]

È poi necessario usar di molta discrezione nei raffronti, cogliendo solo il più bel fiore', ossia ciò che paja veramente caratteristico e potrebbe attribuirsi all'invenzione del poeta. Se io trovo, poniamo ad esempio, nel testamento di Nicola Acciajuoli, del 1338 (Archivio di Stato fiorentino) « ti lascio che questo sia mal tolletto », posso forse rallegrarmi per la nuova conferma dell'uso comune se notarile o no, qui non importa d'una parola e d'una forma dantesca (1); ma posso trascurar

in n.); ma anche di essa ignoriamo in che tempo fu composta. Vedila nelle Cronichette antiche di varii scrittori del buon secolo d. lingua ital., racc. e pubbl. da DOMENICO MARIA MANNI; Milano, Silvestri, 1844. In questa ristampa il passo citato è p. 165; di dantesco non c'è che il colorito generale e qualche fuggevole accenno: « Signor mio, fammi ragione e giustizia.... »>, << E a te che loda fia? » Non credo quindi che l'autore imitasse Dante; nè che lo imitasse in altre frasi qua e là, che attribuiremo piuttosto al linguaggio comune: « egli raccolse al senno e al dire suo tutto lo popolo d'Attena », p. 68 (cfr. Parad. XII 44 sg., ma pel raccorse dantesco vedi Bullett., N. S., III, 154); « andaronvi ad oste i detti consoli colla forza di Roma », p. 102 (e anche « perdessi assai della forza di Roma, perocchè i Gotti presono la Spagna », p. 179; cfr. Inf. VI, 69), ecc. (1) Altro esempio toscano nelle Liriche di Fazio degli Uberti, ed. Renier, p. 130 (v. 66). Anche nei Monum. ant. di dial. italiani, pubblicati dal Mussafia, B 300: « l'osure e 'l mal toleto », e così nelle anonime Rime genovesi, cfr. Arch. glottol. ital. VIII, 398. Certo, non fa mestieri di ripetere che pur gli antichi testi non toscani possono esser adoperati con frutto, commentando Dante. Io ho, per esempio, dimenticato, Bullett., N. S., III, 144, di confrontare col dantesco carizia il carena dei citati Monumenti, D 159; il quale ricorre pure, sotto la forma carina, in un altro testo veronese, studiato anch'esso dal Mussafia, la Leggenda di Santa Caterina, vv. 1214, 1358. Il vocabolo parve oscuro all' illustre Editore; ma vale senza dubbio miseria ', nelle sue varie sfumature di senso: tormento '; meschinità; distretta ossia pericolo'. I raffronti sono come le ciliegie. Io non mi so trattenere dal riferir qui anche alcuni versi del mio facondissimo e simpaticissimo Anonimo genovese, che ricordano da vicino una splendida imagine di Dante (Inf. XXIV, 145):

[ocr errors]
[ocr errors]

doce amigo me,

daive conforto e resbaodor:

questo, chi par un gram vapor,
tosto sarà sentao da De;

[ocr errors]

cioè scentáu, sarà tosto dissipato da Dio': Arch. glottol. ital., II, p. 244 (vv. 37 sgg. del componimento LVII). Ma qui ci tocchiamo con Dante non per l'imagine sola. Chi fosse il gran vapore' ci dice il principio della rubrica:

senza scrupolo altre parole ed altre forme arcaiche, se sieno d'uso generale, perchè sarebbero al loro posto solo in un lavoro complessivo sulla lingua di quell' età. E così dicasi delle frasi; poichè non m'insegnerebbe nulla l'espressione di Armannino giudice (loc. cit., 540): « O bello figliuolo, non ti crucciare », e tutt'al più potrebbero lasciarmi sospeso, a ripensare un istante alle fresche sorgenti dell'arte dantesca, una frase delle Ingiurie, ecc., pubblicate dal Bongi, « di di costinci ciò che tu vuoli » (cfr. Inf. XII, 63, e specialmente Purg. IX, 85 « Dite costinci, che volete voi? »), o un verso di Guido Orlandi (Canz. Vatic. 3214, edito dal Pelaez, num. 141) «se fecie come quei che rogna gratta».

Con questi miei esempi hanno una cert'aria di famiglia alcuni dei raffronti del Del Lungo; ma in queste cose si deve concedere molto al diverso gusto e giudizio, e d'altra parte i raffronti poco significativi si nascondono facilmente in mezzo ai molti buoni e concludenti. Meglio adunque rilevare che anche parole e costrutti, ove non hanno parte le considerazioni d'ordine stilistico, son illustrati da lui nel modo più sodisfacente e così, tra i costrutti, convien che (p. 463), tal è qui (478), vero è o simili (481 sgg.), e mettiamo con essi anche le unioni principio e cagion (443), vene e polsi (457 sg.) e l'espressione andare alla cerca (478 sgg.); tra le parole: dotto (446), cieco (461), burlare (463: v'è ricordato un antico cognome toscano Burlafave), punga (465, nuovo esempio da aggiungere a quelli del Bullett., N. S., III, 104), furo (471), e qui mettiamo pure gli per vi (473: cfr. Bullett. ib., 133 sg.).

Son caratteristici gli esempi dei costrutti fallire a (p. 467, cfr. Inf. XV, 57), guardare a o in (474, cfr. Inf. XXVII, 92), e dell'uso di per nel verso << cosi per li gran savi si confessa » Inf. XXIV, 106 (p. 473); ma forse un po' scarsi, perchè tali modi godettero presso i nostri più antichi di molto favore. E un po' scarse nè abbastanza precise pajono, a p. 462, le osservazioni intorno a non eran salvati, per « non eran stati salvati », Inf. IV, 63; e perchè fu proprietà sintattica di grande uso nella lingua del duecento e del trecento, e ricorre più volte anche nel Convivio, I X, XII, ecc.; e perchè, soprattutto, non è modo ellittico, ma primitivo e importante riflesso della coniugazione perifrastica latina. L'antico fosse, poi, rende di solito il senso di fuisset. Ben difesa è, a pp. 463 sgg., la lezione vien che (insieme coll' interpretazione di tutto il verso « si spesso vien che vicenda consegue », Inf. VII, 90, dove vicenda è soggetto); e può

Dominus Karolus frater regis Francorum venit in Tuxia ad partes Florentie, anno Domini Mccc primo; e a Genova erano inquieti « de lo bruxor chi in Toscanna e contraito », perchè da uomini pratici e previdenti pensavano che chi sente venir fogo

a la maxon de so vexim,

ben de pensar, per San Martim,

d'aver semeiante zogo.

anch'essere vero che questo uso di venire abbia avuto incremento di certi modi ove si sottintendeva 'caso 'o simili. Ma poi il verbo si adoperò senz'altro per avvenire', non solo nella lingua letteraria o nel toscano, ma pur nei dialetti (1).

Una parola anche su probo, Par. XXII, 138, e su probitade, Purg. VII, 122, che il Del Lungo, a pp. 439 sgg., interpreta, con sapiente uso degli antichi commentatori, « virtuoso e gagliardo d'animo » e « valore, valentia », e che trae fuori dall'isolamento, accompagnandoli con esempi del latino d'allora. Gli esempi latini potremmo accrescere facilmente di numero, solo che ci rivolgessimo al Du Cange; ma qui non c'importa notare se non che il probo di Dante e il probus del latino medievale, nonostante le fallaci apparenze, non hanno quasi nulla che fare col probus dei classici. Nel latino medievale dei paesi romanzi e risulta dal Du Cange, e fu già detto da altri, ma ora non riesco a ricordarmi nè da chi nè dove il cavalleresco prode, discendente legittimo di prode prodis, per la solita tendenza ad etimologizzare (e ad etimologizzare - sit venia verbo piuttosto le idee che i vocaboli), fu reso con probus, che gli somigliava di suono e ne conteneva l'idea che pareva fondamentale. Dante poi ritradusse in volgare quella singolar traduzione.

--

[ocr errors]

Chiudono il volume due notevoli appendici. La prima (pp. 487 sgg.) è tutta consacrata a 'La santa Gesta' in Dante (Inf. XXI, 16-18), secondo l'antico volgare; ed è articolo lessicografico ricco ed importante, dove tutt' al più si potrebbe osservare che le gesta dovrebbero essere, anzichè un analogico plurale neutro di gesto, una nuova forma di le geste, rifatta dottamente poichè si tratta di vocabolo dotto sul latino gesta, coll'aiuto di braccia, castella, ecc., plurali neutri regolari (o anomali plurali femminili in a, come li chiamano nella grammatica empirica). Invece i gesti, nel medesimo senso, non sarebbero, come s'intravede da ciò che scriveva quel gran valentuomo del Borghini, che un adattamento letterario del senso di geste al plurale di gesto (2). Si potrebbe pure documentar più

[ocr errors]

(1) L'uso di venire per avvenire'è da confrontare con quello parallelo per 'convenire'. Oltre agli esempi più noti, e ad un verso di Cino « Amor cui servir vene Ciascun per forza », ne ricorderò due di certa lettera pistoiese del 1321 (Archivio di Stato fiorentino): « queste lettere te noe viene palesare a persona del mondo....; sì che ti le viene tenere molto secrete »>.

(2) Favorito dal confronto castella: castelli, ecc. Ma questi gesti desiderano un'illustrazione più compiuta; senonchè difettan gli esempi. Nel frammento B dell' opuscolo citato del Barbi, si legge: « Onde Elinando in Gesti Romani narra », ecc., ma è traduzione quasi materiale del latino: « Unde Helynandus in Gestis Romanorum narrat », e vale quindi assai poco. Più volte adopera codesto gesti il candido Belcari; ma sia negli esempi citati dalla Crusca, sia in qualche altro che ha omesso, il vocabolo ha significato più modesto che non geste o gesta; e vale cioè propriamente fatti. In questo significato può

[ocr errors]

riccamente l'uso antico del singolare gesta per' stirpe, razza di animali', senza alcuna intenzione di scherzo, giacchè si trovano qua e là espressioni come «nato di gesta di badalischio » (1). Segue a questa la seconda appendice, Panelli, pannelli, pennelli, veridica istoria d' un'allucinazione erudita (pp. 512-525): ove i tratti pennelli di Dante, Purg. XXIX, 75, senza dubbio 'banderuole, fiamme', servono di felice pretesto a una dottissima illustrazione dell'antica voce pannelli, o meglio panelli: «viluppo di cenci inzuppati d'olio, di sego, di bitume, i quali si mettevano sulle lumiere; e queste erano specie di ceste di ferro (esempio, quelle mirabili del palazzo Strozzi) » e « si portavano militarmente negli eserciti e nelle schiere armate, o popolarmente nei tumulti e sollevazioni, sia per far lume, sia per appiccare il fuoco ». Noi ci auguriamo dal Del Lungo più d'una di queste erudite allucinazioni '; e, aggiungiamo anche più volentieri, molti di questi volumi. E. G. PARODI.

6

GINA CAPSONI, Se Dante sia nato di nobile stirpe. Pavia, tip. Fusi, 1898; 8°, pp. 51.

La sig. Capsoni dice di essersi posta ad indagare se Dante nacque di nobile stirpe, scevra da ogni preoccupazione d'accrescere con un'aureola di nobiltà la grandezza di Dante. Ma già da tali parole presentiamo la conclusione de' suoi ragionamenti: «Dante non nacque di nobile stirpe. Lo che, del resto, se pur nulla aggiunge, nulla toglie alla gloria dell'immortale Poeta ».

Gli argomenti ch'ella porta sono sopra tutto negativi. Nega ogni valore al « nobilem virum Dantem de Allegheriis » del documento di S. Gemignano; nega ogni autorità alla tradizione dei primi commentatori della Commedia, che scrissero, genericamente, gli antichi di Dante essere stati nobili; nega ogni valore storico al Boccaccio, che deriva gli Alighieri dagli Elisei. Afferma che Dante stesso, nelle opere sue, «fu sempre avverso alla nobiltà di sangue, professando egli che nobiltà è solamente

forse esser stato popolare; e si capirebbe meglio l'uso letterario cinquecentistico. Infine, la Crusca mette come punto di partenza dei plurali gesti e gesta un tardo latino gestum; ma non vedo bene il come e il quare, e il vocabolo stesso mi riesce sospetto.

(1) A p. 500 è ricordata la nota corruzione del vocabolo gesta in gestra. Ora, il inserto in gestra ha lo stesso diritto di esser trattato rispettosamente che quelli, di origine non molto diversa, di giostra, inchiostro, scheletro, cilestro, ecc. E osservo questo non per il Del Lungo, che non ha bisogno di simili osservazioni, ma perchè il suo esempio potrebbe infondere qualche vita artificiale al vocabolo' corruzione', che ricorda, in questo senso, tempi e teorie troppo lontane da noi. Infine non riesco ad attribuire un senso sodisfacente ad una frase di p. 165: « (L'originalità di Dante) sta.... nell'aver padroneggiato come sovrano una lingua da poco più che due secoli parlata ». Ma il Del Lungo, sempre molto preciso, mi perdoni queste minuzie per amore di precisione.

virtù » (p. 18), e che la nobiltà di Cacciaguida mori con lui e non passò a' suoi discendenti; e quegli altri « argomenti che si raggruppano intorno al parentado del Poeta, alle amicizie sue, al matrimonio, alla vita politica, ecc.» (p. 40), ella parimente nega che qualche cosa dimostrino.

Tolte molte lungaggini e certe sottigliezze d'interpretazione, la Capsoni presenta assai abilmente e tratta con vivacità la sua tesi; ma essa ha un peccato di origine. Se intendo bene le sue parole « vera e propria nobiltà di casato, nel senso formale, che è quanto dire nel senso araldico, Dante non possedette» (p. 6), ella restringe il significato di nobiltà a quella sola di barone, di conte e di marchese, a quella titolare. Ora, nelle città toscane del medioevo, esisteva un' altra specie di nobiltà, che chiamerei cittadina; la quale era in massima parte costituita da quei minori feudatari, « de genere militum », i quali dentro le mura della città cercarono, e vi ebbero, rifugio e difesa contro le prepotenze dei grandi baroni. Non vantava estesi latifondi nè superbi castelli, non era prepotente per numerosa masnada; ma contava antica origine, nè, per tradizionale dignità, toccava arti meccaniche o vili, e riempiva pur sempre di valorosi cavalieri le schiere imperiali. Questi piccoli signorotti, che già sparsi per la campagna, dentro deboli bicocche, stavano sulla difesa, timorosi delle prepotenze e dei capricci dei grossi baroni, ora, dentro le mura forti e ospitali della città, uniti fra loro, postisi a capo e a difesa del popolo lavoratore e commerciante, governarono ed aggrandirono, a danno di quegli stessi baroni, il sorgente Comune. A questa specie di nobili - non duchi, non marchesi, non conti, ma pur sempre nobili - appartennero gli Alighieri.

Già la tradizione raccolta dal Boccaccio, che gli Elisei e gli Alighieri fossero parenti, non è da rifiutarsi così leggermente come ha fatto la Capsoni. La semplice coincidenza che Moronto ed Eliseo si chiamarono. i fratelli di Cacciaguida e che quei nomi si riscontrano ambedue nella famiglia Elisei (1), dovrebbe dare da pensare un poco; specialmente se pensiamo che Cacciaguida nacque non in San Martino, ma proprio là dove gli Elisei avevano le case loro (cfr. Bull., N▾ S., IV, 2). Secondariamente, può essere opportuno, anzi doveroso, richiamare i luoghi nei quali Dante mostri il pensier suo intorno alla nobiltà; ma se il Poeta stesso nella Commedia fa dire dei suoi « maggiori » ad un Uberti

fieramente furo avversi

a me ed a' miei primi ed a mia parte,

e si gloria della sua « nobiltà di sangue », non valgono le disquisizioni scolastiche del Convivio a toglier fede a tali posteriori e solenni affer

(1) Eliseo dovè esser frequente, se da lui ebbe nome la casata; di un Moronto de Arco (e de Arcu o de Arcu pietatis si dissero appunto gli Elisei) si ha memoria in una carta del 1076 (BARTOLI, V, 6 sg.).

« PrethodnaNastavi »