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Sommario: E. G. PARODI: I. Del Lungo, Dal secolo e dal poema di Dante. - A. S. BARBI: G. Capsoni, Se Dante sia nato di nobile stirpe. - O. BACCI: G. Crocioni, Postille alla D. C. di Giuseppe Giusti. - H. HAUVETTE: H. Oelsner, Dante in Frankreich bis zum Ende des XVIII Jahrhunderts. - Aununzi bibliografici (Pubblicazioni varie di D. Marzi, M. Barbi, W. P. Ker, V. Capetti, G. Pinelli, G. Maruff, A. Boschini, P. Toynbee, L. F. Mott, A. Fiammazzo).

ISIDORO DEL LUNGO, Dal secolo e dal poema di Dante, altri ritratti e studi, con un indice alfabetico ai due volumi. Bologna, Zanichelli, 1898; 8°, pp. VIII-542.

Il Del Lungo ha raccolto in questo bel volume alcuni de' suoi noti studi, o propriamente danteschi o tali che possano in qualche modo aiutarci a meglio intendere la figura e l'opera di Dante; e non ha trascurato di spendere intorno ad essi nuove cure e di renderli più sicuri e compiuti, sia con leggere modificazioni sia con aggiunte. E direi che neppure ha trascurato di dare al suo volume una certa unità e quasi un interiore organismo. Il secolo di Dante quale fu, nella fiera gagliardia dell'azione e del pensiero, nella rozza violenza e tenacia delle passioni e degli odi, ci è rappresentato nel primo studio, Il disdegno di Guido, e nel secondo, il racconto d'Una vendetta in Firenze il giorno di San Giovanni del 1295, ch'io proporrei volentieri a modello a chi, non contento di pubblicar documenti d'Archivio, voglia cogliere in essi il fremito della vita del tempo; e ci è rappresentato quale il poeta lo vide o lo imaginò nel terzo, il più ampio e diffuso di tutti, La Figurazione storica del Medio Evo nel poema di Dante. Poi, quasi parallela alla figura di Guido, colla quale ha così intime rassomiglianze, quella di Dante nel suo poema, che è pur lumeggiata, in quanto il poeta operò da cittadino, nell'articolo seguente, Alla vita civile di Dante e di Dino documenti nuovi; e finalmente il volgar fiorentino nella Commedia, ove balena l'artista e grandeggia il primo et massimo costitutore e legislatore d'una lingua italiana.

Lo studio sul Cavalcanti, un rapido e felice sbozzo della figura morale del fiero poeta e partigiano, ci mostra quanta parte avesse nel

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l'anima sua il disdegno', e per quanti motivi dovesse parere ai suoi contemporanei « uomo vertudioso in molte cose ma« troppo tenero e stizzoso ». Ha dunque per sua occasione e per suo centro il famoso ed enigmatico verso di Dante, al quale serve quasi di commento storico e psicologico; cosicchè se alcune parti, per esempio l'opera del poeta, intendo del poeta d'amore, sono un po' lasciate nell'ombra, e altre sono invece lumeggiate con manifesta compiacenza, devesi attribuire allo scopo che il Del Lungo si propose, di riuscire anzitutto commentatore efficace. Ma che fra l'uomo e il poeta un intimo e stretto legame ci sia, non sfuggi alla sua attenzione, come appare da alcune poche ma comprensive parole: « A siffatto tenor di vita di Guido; a questo suo contegno, fra i cittadini, di gentiluomo filosofo, schivo e sdegnoso.... si hanno testimonianze di contemporanei preziose: se ne hanno dal suo Canzoniere medesimo. Nel quale le rime amorose per la Giovanna o Primavera, quelle per la tolosana Mandetta, e se per altre, hanno quasi sempre mescolato, alla malinconica gentilezza del dolce stil nuovo, qualche spiritello' (per ripigliare il linguaggio di cotesti poeti) più vivace o più lamentoso o più acre, o qualche fantasia che tien quasi del tragico; e l'amore vi è quasi sempre sconfortato, e sbigottito ', e quasi malcontento di sè medesimo » (1). E certo, colui che sentiva ' nascere il pianto nell'anima sua ', (2) e non credeva di poter « sperare altro che morte e pregava « Guardate a l'angosciosa vita mia Che sospirando la distrugge Amore » e che infine si rivolgeva alla Morte, con accento così vero e straziante, nel bellissimo Sonetto « Morte gentil, remedio de' captivi, Merzè, merzè a man giunte ti cheggio », colui doveva esser proclive a fantasticare e sognare malinconicamente fra sè, e a vivere piuttosto in compagnia del suo cuore che degli uomini. Sia pur grande la parte che vogliam fare alla scuola e all' imaginazione poetica, è difficile credere che versi così sentiti non rispondano ad uno 'stato' dell'animo.

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Ma la tendenza alle fantasiose meditazioni, propria del Cavalcanti, ch'è adombrata nei noti aneddoti del Boccaccio e del Sacchetti, si manifesta, se non erro, in un'altra caratteristica della sua poesia: in quelle che, non trovando parola più adatta, chiamerei 'visioni', e sono come una misteriosa personificazione d'un singolo sentimento, per lo più doloroso, che il poeta, quasi sognando, distingue nettamente e intensamente. fra tutti. Perciò acquistano in lui talvolta un vero valore psicologico e

(1) Pp. 22 sgg., ove sono riferiti in nota anche i versi di Guido, che meglio illustrino le singole affermazioni del periodo citato.

(2) Canz. II, vv. 1 sgg.: « Io non pensava che lo cor giammai Avesse di sospir tormento tanto, Che dell'anima mia nascesse pianto ». Adopero naturalmente l'edizione dell' Ercole. Per i versi che cito subito dopo, vedi i Sonetti II, 14, VII, 3 sg., XVIII.

poetico anche i soliti 'spiritelli' della poesia del tempo; come nei versi, non so perchè condannati dal Bartoli, (1)

Dal ciel si mosse spirito in quel punto
Che quella donna mi degnò guardare,
E vennesi a posar nel mio pensero.
Et li mi conta sì d'amor lo vero

Ched ogni sua virtù veder mi pare,
Siccom'io fosse nel suo core giunto;

oppure le imagini trovate da altri e quasi convenzionali nella scuola, si ravvivano di nuova efficacia, per l'intensità della rappresentazione fantastica:

Io vo come colui ch'è fuor di vita

Che pare a chi lo sguarda como sia
Facto di rame o di pietra o di legno,

Che se conduca sol per maestria;

E porti nello core una ferita

Che sia, com' egli è morto, aperto segno; (2)

o infine, pur rimanendo il sentimento un'astrazione, basta a farne una realtà concreta la frase, che colla sua energia lo presenta personificato ai nostri occhi:

Una paura di novi tormenti

M'apparve allor sì crudele ed aguta,

Che l'anima chiamò: Donna, or ci aiuta.... (3)

Ma altrove sono veramente quasi visioni, dove le dolenti figure, balzate nella fantasia del pensoso poeta, si rivestono della pallida e misteriosa luce del sogno; come nei versi

sospiri e dolor mi pigliaro,

Vedendo che temenza avea lo core.

Menarmi tosto sanza riposanza

In una parte dov'i' trovai gente,

Che ciascun si doleva d'amor forte; (4)

o in quegli altri, ove passa quasi un soffio dell' oltretomba,

Allora par che nella mente piova

Una figura di donna pensosa,

Che vegnia per veder morir lo core (5).

(1) Storia d. letter. ital., IV, 151, cfr. 150. I versi appartengono al primo

Sonetto di Guido.

(2) Son. XI.

(3) Son. VIII.

(4) Son. II.

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(5) Son. XII. L'Ercole trova quest'imagine, nell'introduzione, p. 133, strana e barocca, nel commento invece, p. 287, di grandissima efficacia, osser

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I Sonetti del Cavalcanti non sono forse tenuti in quel conto che meritano, perchè non in tutti e non in tutto l'arte è ugualmente sicura e conscia di sè, e talvolta più che non vorremmo vi si riconoscono le tracce della vecchia maniera, anteriore alle nuove rime '; forse anche perchè, mancando o riuscendo incerti ed infidi i dati cronologici, dello svolgersi dell'arte sua non possiamo formarci un adeguato concetto. Quali criteri o quali preferenze hanno regolato il vario ordinamento delle sue rime, che ci si presenta nei codici? Dei Sonetti, ov' egli descrive i tormenti dell'amore per Giovanna, quali sono anteriori e quali posteriori a quelli, dove invece, come Dante, dice le lodi della sua donna', ossia specialmente al terzo sonetto: Avete 'n vo'li fior e la verdura ', che ha così grande affinità colle sue mirabili ballate, nella forma e nell'intonazione squisitamente popolare (l'ultimo verso sembra proprio tolto da un rispetto); ed al quarto, non meno bello di forma e più alto d'ispirazione, che s'apre con così vivo movimento fantastico: « Chi è questa che ven, c'ogn' om la mira, E fa tremar di claritate l'are »? O, in genere, quale efficacia ebbe sul Cavalcanti l'esempio e lo sprone della sorgente arte dantesca, e che cosa lo indusse a rinnovar nella forma, che cosa nel contenuto? E Dante stesso, infine, che parte faceva all'amico suo nel dolce stil novo 6 e che parte nelle nuove rime '? (1). Sono tutte domande alle quali è difficile rispondere e sarà sempre difficile o forse impossibile; sebbene dalla risposta dipenda non solo il giudizio compiuto e definitivo sull'opera e l'originalità del Cavalcanti, ma in parte anche il giudizio sulla sincerità e la profondità de' sentimenti, espressi nelle sue rime. Ad ogni modo, queste, anche così come sono, insufficentemente illustrate, restano il più sicuro documento dell'anima sua, e ci offrono, come abbiam cercato di mostrare, buoni indizi di quella capacità d'intensa meditazione e quasi astrazione dal mondo, che parve in lui singolare a'suoi contemporanei. Inclinazione al meditar malinconico; grande capacità d'imaginazione fantastica; carattere fiero e sdegnoso: il Cavalcanti era veramente fatto per intendere Dante. Il quale forse trovava in lui (se mi è permesso di dirlo, senza fare a mia volta soverchio sfoggio di fantasia) anche quella profonda tenerezza, ch'è propria de' ca

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vando espressamente che non s'accorda col Nannucci, il quale l'aveva già battezzata per strana' al suo tempo. Noi gli perdoniamo volentieri la contradizione, se il secondo giudizio è da considerare come una correzione del primo e come un ravvedimento.

le

(1) Posto che Dante, come mi par verosimile, distingua in qualche modo fra nuove rime' e il dolce stil novo '; sebbene e questo e quelle abbiano come fondamentale canone d'arte la sincerità dell'ispirazione, e quasi si equivalgano le due espressioni della lingua quasi come per sè stessa mossa e dell' amore che detta dentro '. Ma nelle nuove rime' è probabile che desse speciale importanza al contenuto nuovo, le lodi della sua donna '.

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ratteri chiusi e pensosi, e ch' egli stesso attribuisce, perchè se ne sentiva pieno il cuore, alle predilette creazioni della sua mente, da Farinata • Pier della Vigna a Sordello e a Stazio. Di codesta tenerezza si possono scoprire le tracce anche nel Canzoniere di Guido, e mi basti rammentare l'affettuosissimo e nobilissimo Sonetto a Dante stesso (1); quello, cosi delicato e grazioso, ove si rivolgono alla sua donna le « triste penne isbigotite, Le cesoiuze e 'l coltellin dolente » (2), e infine e soprattutto l'ultima ballata, la quale è forse il più soave gemito d'anima dolorosa, che sia risonato nella poesia italiana, prima della Canzone, a cui in certo modo preludia, Chiare fresche e dolci acque.

Ci siamo già troppo indugiati intorno al Cavalcanti, trascinati da una grande simpatia pel poeta e per l'uomo. Ma dal suo 'disdegno' e da' suoi fieri odi di parte, ci conduce in mezzo a più atroci odi la bella narrazione d'una vendetta in Firenze: vendetta compiuta nel 1295 dai Dietisalvi, dai Velluti, dai Rossi, d'un oltraggio ricevuto dai Mannelli quasi trent'anni prima, nel 1267. Il Del Lungo applica i risultati della sua fine ed elegante ricerca storica a meglio illustrare l'episodio di Geri del Bello, nel ventinovesimo canto dell'Inferno; e seguendo antichi commentatori, attribuisce al verso « ed in ciò m'ha e' fatto a sè più pio » questo significato, « che Dante si contristi, si per la pena che Geri aveva, e si perchè gli si rinfrescò il dolore e la vergogna non vendicata »; e compiuta crede la dichiarazione dell' Ottimo : « Se elli per disdegno non mi favellò, io per quello sono fatto verso lui più pietoso », il quale poco sopra aveva pur detto: « e qui riprende la cattività sua e degli altri suoi consorti. » Ma il Del Lungo aggiunge: « Bene poi questo commentatore medesimo, al ritratto ch' ei non dubita aver Dante voluto far di sè, tali quali erano gli uomini allora, appone una segreta intenzione morale: e cioè che egli infami tacitamente il pestilenzioso animo de' Fiorentini, che mai non dimenticano la ingiuria, nè perdonano senza vendetta l'offesa '. Intenzione che si accorda assai convenientemente col generale concetto del Poema, che il mistico viaggiatore porti seco e addimostri le proprie imperfezioni e magagne di uomo, e d'uomo del tempo suo, spogliandosene gradatamente, via via che procede nello spiritale cammino » (3).

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Io non so se questa interpretazione, che, ragionata in un modo o in un altro, più o meno modificata e limitata, fu accolta púr da altri egregi studiosi di Dante, come lo Scherillo e il Venturi (4), non implichi, fra' due con

(1) Son. XXIX.

(2) Son. XXIV.

(3) Pp. 111 sgg.

(4) M. SCHERILLO, Alcuni capitoli della biografia di Dante, pp. 93 sgg.; G. VENTURI, I fiorentini nella D. C. (estratto dalla Rassegna nazion., 1898; pp. 13 sgg.).

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