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mazioni. Invece può dar lume la precisa cognizione storica de' tempi. A mezzo il secolo XII la vita italiana è, come ha provato il Salvemini nel suo studio La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze (Bull. N. S., IV, 54) ancora eminentemente feudale, e «alla dignità di cavaliere non poteva aspirare chi non fosse di stirpe feudale, de genere militum ; e poichè Cacciaguida fu addobbato cavaliere, fu dunque certamente nobile. Nè è una semplice induzione, come crede la Capsoni, dire che la nobiltà, venuta od aumentata a Cacciaguida dal cingulum militiæ, passò ai discendenti e non mori con la sua persona: legga il libro, che ho rammentato, del Salvemini, e anch' ella si convincerà che gli Alighieri, per il solo fatto di essere discesi da Cacciaguida, furono nobili. Cosi intendiamo molto meglio come avessero torre in città e torre in contado; e si trovino in più liste di famiglie che goderono il consolato: indizi questi, i quali furono già nel Bullettino (N. S., II, 6-7; IV, 54) resi pubblici, e che la Capsoni non conosce.

Vero è che se la nobiltà di Cacciaguida non mori con la persona sua, poteva ben perire ne' suoi discendenti per esercitar essi arti vili; chè è dottrina di Bartolo da Sassoferrato e degli altri giuristi del tempo cessava di esser nobile chi faceva arte meccanica. È un dubbio questo che la Capsoni non ha avuto; mentre s'indugia a domandare perchè mai Dante avrebbe taciuto degli altri suoi maggiori, se fossero stati veramente nobili. Però degli Alighieri che ci son noti, furono domini, dottori quindi o cavalieri, Bello e suo figlio Cione; Bellincione e Brunetto fecero parte dei Consigli maggiori della città; e se Gualfreduccio e Gherardo esercitarono un' arte, questa fu delle più nobili, di Calimala o del Cambio (Bull. N. S., II, 6 sg.). Nè l'esercitare la mercatura o il cambio nel concetto di quegli stessi giuristi - era disdicevole ai nobili: così, ad esempio, troviamo i Cavalcanti, sino dal principio del secolo XII, che comprano e vendono. Dante poi, per suo conto, mena vita cavalleresca, in mezzo alla migliore società fiorentina, non esercita alcun' arte; a Campaldino è tra' feditori, come già, appena un quarto di secolo prima, Brunetto di Bellincione fu tra i pochi scelti alla guardia del carroccio a Montaperti. Sicchè nè il Poeta nè i suoi, a quello che oggi sappiamo, avean fatto cessare la nobiltà avita.

Non è perchè non passasse ai discendenti la nobiltà di Cacciaguida e non arrivasse quindi al nostro Poeta, che Dante non fu grande, almeno dopo il 1295, come discute la Capsoni ignorando, al solito, quanto, anche nel Bullettino (N. S., IV, 54 sgg.), fu scritto a proposito di quegli Ordinamenti di giustizia, dei quali ella parla ancora con le parole del Balbo. Fu popolare, è da credersi, per la legge, ch'egli stesso contribui a far entrare in vigore, del 6 luglio 1295. Per gli Ordinamenti del 1293, non esercitando effettivamente un' arte, non avrebbe potuto salire al priorato; avrebbe dovuto limitare l'attività sua al Consiglio del Potestà, il solo aperto anche ai grandi: dopo la correzione del 1295, a quelle famiglie che

non sodavano da cinque anni, non si richiese più l'esercizio effettivo dell'arte; e Dante, di famiglia nobile ma non straricca, non prepotente, non temibile per ambizioni o aderenze e però non costretta a dar garanzie, s'inscrisse nell' arte dei medici e degli speziali, e fu dei Consigli del Popolo e potè esser priore. A. S. BARBI.

GIUSEPPE GIUSTI, Postille alla Divina Commedia ora per la prima volta pubblicate con un discorso sopra Dante e il Giusti a cura di G10VANNI CROCIONI. (Collez. di Opuscoli danteschi ined. o rari, diretta da G. L. Passerini: n. 55-56), Città di Castello, Lapi, 1898; 16°, pp. 105. È certo cosa utile e curiosa conoscere quello che il Giusti studiò, ritrasse, scrisse di Dante; e bene si aggiungono, nella Collezione diretta dal Passerini, alle postille di S. Betti, del Paganini, del Mossotti, del Galvani, del Tasso ecc., queste giustiane, che, già da altri indicate e usate (cfr. DEL LUNGO, Dino Compagni ecc. I, 932 e seg., 934; II, 15, 557, 558, 560, 625), pubblica ora il Crocioni di su gli autografi che conserva la Crusca. Le Postille ci riconducono, inevitabilmente, agli scritti d'argomento dantesco che stampò il Gotti (pp. 173-318) nel volume Scritti vari in prosa e in verso di Giuseppe Giusti per la maggior parte inediti (Firenze, Le Monnier, 1863); e ad essi si riferisce spesso pure il Crocioni (v. p. 7, 34 ecc.), il quale avrebbe dovuto, secondo me, dare al suo testo anche la cura d'un confronto più metodico con gli Studî e Commenti intorno alla Divina Commedia, e non contentarsi di rimandi e richiami. Il carattere degli scritti danteschi del Giusti ebbe già a rilevare con succose parole il Del Lungo (op. cit., I, 932-33); nè da tal giudizio dissente il Crocioni, che anzi fa sue (p. 31, n. 5) quelle parole medesime. E poichè il giudizio del Del Lungo si fondava anche sulle. ora edite Postille, non si dovrà dire che si sia aggiunto, coll' opuscolo che esaminiamo, nuovo elemento da rivederlo, o da riformarlo; ma, solo, che s'è opportunamente divulgata la conoscenza di osservazioni e chiose, peregrine e maravigliose no, ma non trascurabili certo (1). Del felice senso storico che mostrò il Giusti, nel raffrontare la parola storica di Dante con quella di cronisti fiorentini, ragionò pure il Del Lungo: ugual lode gli si potrebbe dare per la non men felice percezione che ebbe del singolar valore che si deve attribuire ai più antichi postillatori e commentatori; nella qual cosa egli ha ora l'assentimento de' più moderni e riputati studiosi. Molte delle Postille, diciamolo senza irreverenza, lasciano il tempo. che trovano; molte contengono interpretazioni ed osservazioni erronee, e altre (se il Giusti credesse poi o no d'esser originale, non saprei dire) espon

(1) Troppo valore negò a queste postille l'amico G. Stiavelli (nel Fanfulla della Domenica, n. 43) in un articoletto un po' frettoloso, nel quale corse troppo anche a negare i meriti di erudito e critico insigne a G. Capponi. Rispose felicemente i Crocioni, spiegando meglio certi concetti e giudizi (Ibid., n. 45).

gono opinioni assai diffuse e comuni, e facili a incontrarsi, specialmente oggi, ne'moltiplicati commenti. Ma ve ne sono di veramente osservabili, che si potrebber ridurre ad alcune classi. Anzi, sotto queste categorie indicherò quelle che, o per una ragione o per l'altra, mi son parse più degne d'attenzione. Avverto che non sono stato ad enumerare tutti i frequentissimi raffronti che il Giusti fa col Convivio, col qual trattato egli mostra d'avere assai dimestichezza; debbo avvertire, altresì, che il Crocioni non ha tenuto il migliore de' sistemi riguardo alle citazioni fatte dal Giusti di opere cui rimanda o da cui riporta passi. Queste citazioni, mi pare, dovevano serbarsi nel testo, e non porsi come note: nelle quali note poi il Crocioni fa qualche buona osservazione e citazione per conto suo: utili si; ma troppo addossate alle indicazioni del Giusti medesimo; tanto che non sai, in qualche luogo, di chi sia il merito, o la responsabilità.

Ed ecco le mie spigolature:

I. Richiami ad altri passi danteschi: Inf. I, 2; V, 32; Par. I, 7, 9; VI, 73; XV, 102; XVII, 52-53; XXVIII, 129. II. Richiami a frasi simili d'altri eccellenti scrittori italiani: Inf. II, 22; IV, 21; Purg. VIII, 39; XXV, 77-78; XXVIII, 63; XXIX, 115. — III. Osservazioni su lezioni varianti e sulla punteggiatura: Inf. V, 64-68; VI, 18; IX, 70; Purg. XVII, 85-87; Par. XIX, 52-57. IV. Raffronti colla lingua viva: Inf. XIV, 12; Purg. XVIII, 65-66; Par. XIX, 36. V. Osservazioni estetiche ed esegetiche varie: Par. II, 10; IV, 40-42; XVIII, 94-95; 98.

Al Crocioni, che è operoso e fervido cultore degli studî danteschi, va data specialmente lode di aver sentito il bisogno di accompagnare l'edizione delle non numerose postille con un discorso, in cui ex professo si è proposto di raccogliere le testimonianze dell' assiduo studio che il Giusti fece di Dante, e di indagare le derivazioni dell'arte dantesca nella poesia giustiana. Egli ha compresa, peraltro, e gli fa onore, tutta la difficoltà d'una simile indagine, quando essa si voglia spingere veramente a fondo; e in due paginette, che sono tra le migliori di questo Proemio (p. 29, 30), ha espresso i molti dubbi che in tale ricerca non possono non assalire un critico di buon gusto e di buon senso. In sostanza, egli ripete, a proposito del Giusti, quello che bellamente osservava in generale Guido Mazzoni, rassegnando in questo Bullettino (N. S., IV, 50) il volumetto dell'OELSNER: The Influence of Dante on Modern Thought. Il Crocioni poteva forse mettere in rilievo anche di più una delle non ultime difficoltà del raffrontare la Divina Commedia (che pur ha tanti elementi stupendi di satira) colla poesia satirica paesana del Monsummanese; difficoltà che incontrasi in quei luoghi dove il Giusti adopera liberamente un ricordo, un emistichio, una frase di un solenne passo dantesco, inquadrandola in un contesto, più che satirico, burlesco e giocoso *addirittura.

Del resto, il Crocioni raccoglie con molta diligenza quanto si sa del culto che il Giusti ebbe per Dante e dello studio che gli consacrò. Bene distingue le imitazioni e le ispirazioni dantesche del Giusti in più specie: d'invenzione e concetti, e meramente formali. Non lo seguirò nel suo esame delle poesie satiriche e liriche; esame che dovrà riconoscersi ben accurato e, in gran parte, nuovo, anche da chi, come me, non sia disposto ad ammetter senza qualche eccezione quei raffronti e ad accettar senz'altro quei rilievi. Nella seconda parte dello studio l' A. esamina, dirò così, il Giusti dantista, dopo che ha studiato il Giusti imitatore di Dante; e ci offre anche su questo punto notizie sicure e considerazioni oculate.

Finisco coll'avvertire che alla solerzia del Crocioni doveva ben parer necessario, se non di rivedere sul testo del Giusti i riscontri un po' farraginosi che il Fioretto indicò tra i passi danteschi e l'ardito innesto, la ben nota Canzone, cioè, Nell'occasione che fu scoperto a Firenze il vero ritratto di Dante fatto da Giotto; di riferirsi, almeno, fedelmente al testo del Fioretto, e non alla sciatta riproduzione del Fanfani, nella quale (come dicono pure i numeri progressivi de' versi) varie delle 26 stanze sono in malo modo accavallate e confuse. ORAZIO BACCI.

HERMANN OELSNER, Dante in Frankreich bis zum Ende des XVIII Jahrhunderts. Berlin, Verlag von E. Ebering, 1898 (Berliner Beiträge zur germ. und roman. Philologie, XVI; Roman. Abteilung n. 9); 8°, pp. 106. La dedica della presente memoria all'illustre prof. A. Tobler è garanzia della serietà e del criterio veramente scientifico con cui l'Oelsner ha condotto il suo lavoro; e difatti la sua memoria riesce utilissima quale contributo alla storia della fortuna di Dante in Francia nei secoli XIV-XVIII. Quella fortuna, bisogna pur confessarlo, non fu nient' affatto gloriosa, poichè è risaputo che, fra i poeti italiani, l'Alighieri è sicuramente quello che sull'indirizzo della poesia francese del Rinascimento e dell'età classica ebbe l'influenza minore; quindi il còmpito dell' O. stava solo nel raccogliere le poche menzioni di Dante che s'incontrano negli scrittori francesi, dal '300 al '700. Nessuno, ch'io sappia, s'era finora accinto a tale studio, e di ciò va data lode allo scolare del Tobler.

Non si può però pretendere che l'O. abbia esaurito la questione e che non ci sia niente da aggiungere alla sua trattazione: egli certamente non lo crede. Poteva per esempio mostrarsi men parco di giudizi critici e letterari; invece di citar solamente nomi e fatti, cosa certamente ottima, non sarebbe stato male far conoscere anche l'importanza storica delle menzioni, o il valore letterario delle imitazioni di cui dà il catalogo. La mancanza d'ogni apprezzamento si fa più che mai sentire quando l'O. discorre di opere come quelle di Margherita di Navarra, che sola forse nella Francia del Rinascimento fece della Divina Commedia quello studio profondo che dimostrano due poemi pubblicati solo nel 1895, colle.

ultime poesie di quella famosa sorella di Francesco I(1); non bastano certo a render conto dell'ispirazione dantesca di quei poemi le quattro magre pagine (12-13 e 61-63), piene zeppe di citazioni, che l'autore consacra alla gentile poetessa. Lo stesso si dica delle cinque pagine nelle quali, più che esporre la parte presa dal Voltaire nelle polemiche dantesche del secolo scorso, l'O. trascrive vari brani degli scritti di lui (p. 34-39): vi si cercherebbe invano un giudizio sull'importanza di tali polemiche, che tanto contribuirono a ridestare l'entusiasmo per Dante (2), come invano si aspetterebbe dall' O. un accenno, per quanto breve, al valore delle traduzioni francesi della Divina Commedia. Egli raccoglie coscienziosamente il materiale d'uno studio sulla fortuna di Dante in Francia, e lascia poi al lettore la cura di ricavarne le idee generali o particolari che dovrebbero risultare dalle sue indagini.

Se poi l'informazione dell' O. può dirsi buona, se vaste sono le sue letture, sarebbe però assai strano che nulla gli fosse sfuggito, in un campo così poco esplorato prima di lui. Ecco, a modo d' esempio, una omissione che non sarà nè la sola nè la più importante: nella traduzione francese che, nell'anno 1409, fece del trattato De Casibus virorum illustrium del Boccaccio Laurent de Premierfait, questi, che per lo più commentava ed amplificava invece di tradurre, introdusse una lunga digressione a proposito del nome di Dante incontrato nel testo (L. IX, c. 23); in quella digressione egli discorre del viaggio di Dante a Parigi dove ammirò l'Università, le chiese, le due corti giudiziarie, e venne a conoscere il Roman de la Rose, che egli decise di « contreffaire au vif » in italiano (3). Tali notizie sono interessanti, mi pare, non solo per la loro stranezza, ma perchè fanno sicuramente capo a qualche tradizione orale d'origine francese, anzi parigina, che correva tra gli eruditi di quel tempo e che Laurent accolse nel suo rimaneggiamento del trattato boccaccesco.

Passando poi al sec. XVI, l'O. segnala opportunamente le edizioni di opere di Dante che furono pubblicate in Francia, anche da Italiani come il Corbinelli. Ma se ci si mette per quella via, v'è di sicuro da raccogliere un materiale molto più ampio di quel che conobbe l' O.; chè gli Italiani stabiliti in Francia vi portarono il nome e la fama di Dante molto più che non paia leggendo la memoria di cui parliamo. Anche qui citerò un

(1) Les dernières poésies de Marguerite de Navarre, publiées par A. Lefranc, Paris, 1895. I poemi in parola sono Les Prisons, in più di 5800 versi, e Le Navire, in 1440 versi, intorno ai quali vedasi G. Paris in Journal des Savants, Maggio e Giugno 1896.

(2) A quelle polemiche il Bouvy consacra un interessante capitolo (Voltaire et la critique de Dante) nel suo ultimo volume: Voltaire et l'Italie, 1898. (3) Il passo intero è stato pubblicato dall' Hortis nei suoi Studi sulle opere latine del Boccaccio, p. 626 n., ma assai scorrettamente e da una mediocre edizione, non dai codici. Ci tornerò in un altro studio.

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