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mende parziali, il lavoro del B. è, nel suo complesso, assai buono, e vi si può ricorrere con profitto. Ma lo studio della metafora dantesca non è lo scopo principale del presente opuscolo; non è anzi altro che il mezzo adoperato dal B. a raggiungere un intento superiore, a illuminare cioè d'una luce più viva e a rettamente intendere il misterioso libretto della Vita Nuova. Egli dice di essere stato spinto all'opera dalle seguenti parole del Gietmann: «Ma per giungere ad un resultato assolutamente certo o prossimo alla certezza, noi dobbiamo prima di tutto sottoporre ad un'accurata indagine il poetico linguaggio figurato di Dante; in esso è, in sostanza, principalmente riposta l'oscurità delle sue opere e dalla dichiarazione di esso deve raggiare la desiderata luce per la loro completa intelligenza » (p. III). E di questo criterio, che, seguìto con moderazione, può certo contribuire ad una più esatta comprensione delle opere dantesche, ma, esagerato, può condurre a dei resultati falsissimi e paradossali, fa il B., per così dire, il nucleo delle sue ricerche; e dappertutto vede metafore e simboli e allegorie; e non può immaginare le diverse opere dell'Alighieri come facenti parte ciascuna per sè medesima, ma tutte le raccoglie in una ideale unione simbolica quasi fossero tutte l'esplicazione di un unico concetto mistico-filosofico. Crediamo, che, per questo lato, l'opuscolo del B. non offra nessun contributo utile ai nostri studi. I. SANESI.

CARLO MERKEL, Come vestivano gli uomini del Decamerone. Saggio di storia del costume. Nei Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, Classe di Sc. morali, vol. VI, fasc. 9-12 (1898). — Può essere d'un qualche utile agli studiosi di Dante, o almeno d'una certa curiosa erudizione, il sapere con quali foggie vestissero l'Alighieri ed i suoi contemporanei; nè disdice che il Bullettino faccia ricordo d'una monografia che egregiamente le illustra. Se non che bisogna dir subito come il Merkel, propostosi dapprima di prender le basi del suo discorso dal Decamerone, tratto poi dalla sua speciale conoscenza dell'argomento e dalla messe anche d'altronde raccolta, mentre restringeva il campo della sua trattazione escludendone le vesti muliebri (più note per i molteplici provvedimenti suntuari pubblicati e illustrati dagli eruditi) e le ecclesiastiche e parte delle maschili, di quelle prese in esame distese la storia dai tempi del Boccaccio, che, per le foggie, son quelli di Dante, od anche da più antiche testimonianze fin entro al secolo XV e al principio del cinquecento. Abbiamo così nel periodo più propriamente originale ed italiano, per ogni veste presa a studiare, lo svolgimento storico; nel quale a Dante e ai tempi suoi si riferisce la parte più antica, le prime pagine d'ogni capitolo. E i capitoli e gli argomenti, preceduti da una introduzione, sono questi: 1° la camicia e la biancheria; 2° il farsetto e la giubba; 3° i «panni di gamba» e la calzatura; 4° la gonnella, la soprainsegna, il costume all'analda e la guarnacca; 5o la pelliccia e il pelliccione; 6° il mantello, il tabarro, i batoli e la schiavina; 7° la zazzera, la cuffia, il cappuccio e il cappello; 8° gli ornamenti, i guanti, le armi ed il pennaiuolo; 9° le stoffe, i colori e l'aspetto generale delle vesti. Come vedesi da questa enumerazione ciò che più abitualmente s'adoperò nel medio evo per coprire la persona è in grande parte illustrato. E nelle illustrazioni non infrequentemente reca il Merkel le testimonianze dell' Alighieri stesso. Nella ricerca dell'uso notturno della camicia è portata la descrizione della madre (Inf. XIII, 41-42) che destata dal rumore dell'incendio, prende il bambino e fugge, « avendo più di lui che di sè

cura, tanto che solo una camicia vesta ». Parlandosi del favore e delle lodi che ebbero nel medio evo i capelli biondi, non poteva mancare il ricordo di re Manfredi (Purg. III, 107): « biondo era e bello e di gentile aspetto ». Nella illustrazione del cappello ben quattro luoghi si richiamano della Divina Commedia: «Del duplice significato della parola cappello aveva già fatto uso l'Alighieri; il quale adoperando quel nome col valore etimologico di copertura del capo, là, dove ci presenta il feroce gruppo del conte Ugolino e dell'arcivescovo Ruggieri, narra, che "l'un capo all'altro era cappello,, (Inf. XXXII, 126), e più tardi con un facile anacronismo (1) fa dire a S. Pier Damiani, ch' era stato (Parad. XXI, 125) .... chiesto e tratto a quel cappello

che pur di male in peggio si travasa.

Ma allorquando in versi dolcissimi si abbandona alla speranza, che il poema sacro vinca la crudeltà, che lo serrava fuori del bell'ovile della sua Firenze, promette (Parad. XXV, 7):

con altra voce omai, con altro vello

ritornerò poeta ed in sul fonte

del mio battesmo prenderò il cappello. »

Cioè la ghirlanda, il serto poetico. Nè, continua il Merkel, deve meravigliarci tale estensione di significati, quando altri ancora n'ebbe questa voce; e gli enumera, fra i quali quello della cuffia di cuoio in cui era tenuto avvolto il capo del falcone (Parad. XIX, 34). Nel trasformarsi della correggia di cuoio in cintura di seta ornata di lamine e fibbie d'argento e di smalti e di perle, presto trascorsero i tempi di Bellincion Berti che Cacciaguida aveva visto (Par. XV, 112) << andar cinto di cuoio e d'osso». E fra le varie specie di borse che dalla cintura pendevano una ve ne fu per lungo tempo, insiem con la spada, propria dei gentiluomini; onde l'Alighieri, alludendovi, assicura (Purg. VIII, 128) Corrado Malaspina che la sua

....gente onrata non si sfregia

del pregio della borsa e della spada.

La monografia è piena di tante notizie, ed è condotta su tante testimonianze, che fanno piena fede della conoscenza che il Merkel possiede del costume medievale italiano: e rincresce veramente che un lavoro così fondamentale e sicuro non abbia potuto avere il corredo dell'arte figurativa. Ma questo fu, per difficoltà di riproduzione, non per dimenticanza dell'autore. C. MAZZI.

CURZIO MAZZI, La mensa de' Priori di Firenze nel secolo XIV. Nell' Archivio storico ital., serie quinta, t. XX, pp. 336-368. — Il lavoro ha il suo fondamento principale in un Registro, dal 1° maggio 1344 al 30 aprile 1345, il più antico che ci rimanga, per le spese della mensa dei Priori di Firenze. Sol che fosse di pochi anni anteriore, e potremmo oggi sapere, giorno per giorno, quello che in palagio fu a Dante imbandito, durante il suo priorato, e quanto costò. Ogni pagina del registro ha la spesa d'un giorno, diligentemente e partitamente segnata cosa per cosa comperata, non passando d' ordinario la somma giornaliera.

(1) Ci spiega il Merkel che il cappello rosso a cui qui allude il poeta fu dato ai cardinali da papa Innocenzo IV verso il 1252, cioè quasi duecento anni dopo che S. Pier Damiani era stato fatto cardinale.

le venti lire. Parca dunque era la mensa dei Priori e dei loro famigli. E ciò che si comprava per fornirla, l'A. ha raccolto, nella prefazione, in più gruppi: le frutta, i legumi, gli ortaggi; le uova, il cacio e il latte; il pane, la farina e le cialde; le carni; l'olio, il lardo, lo strutto e il sugnaccio; i pesci e gli altri cibi da magro; le droghe e gli aromi; i vini; altre piccole spese che più o meno si riferiscono alla mensa; le poche per la toeletta, per medicinali, per qualche passatempo; le molte per elemosine. A queste antiche, altre posteriori d'un secolo e mezzo (gennaio-febbraio 1477) il M. riaccosta da altro registro di spese per la stessa mensa dei Priori di Firenze, tirandone fuori, come per il primo, ogni notizia che appartenga alla storia del costume, notando la importanza, per gli studi economici, del più antico Registro, dove sempre si tien conto del peso, delle misure, dei prezzi delle cose comperate. E perchè della mensa dei Priori di Firenze nel secolo XIV fosse la notizia più compiuta, da un terzo manoscritto ashburnhamiano, non in riassunto come per gli altri due, ma integralmente, pubblica l'A. delle suppellettili che servivano a quella mensa l' Inventario compilato nel 1361 e nei successivi continuato e rinnovato fino al 1367. Tali suppellettili, certamente in uso quando l'Alighieri sedè in palagio, sono in parte di argento e taluna con smalti; ma sembra certo che abitualmente i Priori mangiassero, nei primi tempi, in taglieri e scodelle di legno, e che alle volte non se ne avessero bastanti al bisogno, trovando noi registrata la spesa per il << presto» di tali utensili e per il « mendo» di ciò che s'era guastato o perduto; e così delle tovaglie e delle guardanappe. Ma le forchette son d'argento (una sola, una sola volta, di ferro) e molte, trentotto, quarantatrè, quasi tante quanti i coltelli (ventinove, trentuno « cum maniche d'avorio e ghiere d'ariento », più altri tredici « cum maniche d'osso nero »); - il che è testimonianza di gentilezza di costumi, poichè solo inolto più tardi la forchetta per mangiare fu di uso comune. Anche l'abbondanza delle saliere (dodici), di argento smaltate, e più dei « salsieri » (ventiquattro), pur d'argento, fa pensare che ogni commensale avesse il suo. Per contrario non vedesi in che bevessero i Priori: certo non nell'unico nappo registrato (solo utensile da ciò che abbia l' Inventario); ma forse dei bicchieri non si fa menzione, perchè di vetro e non di metallo.

I codici manoscritti della Biblioteca Oratoriana di Napoli, illustrati da ENRICO MANDARINI dell' Oratorio. Stab. tip. Andrea e Salv. Festa, NapoliRoma, 1897; 4o, fig., pp. xviiij-403. — Illustrando il ricco tesoro de' codici appartenenti alla bibl. Oratoriana, il p. Mandarini ne descrive due che interessano gli studi danteschi. Il primo è quel noto ms. del secolo XIV che contiene la D. C. con un ampio commento marginale tuttora inedito: il Mandarini se n'era già occupato altra volta in appendice all'edizione del codice Cassinese (tip. di Montecassino, 1865), per la quale ebbe a comunicare alcune varianti di esso. Ora ripete le sue argomentazioni sulla data del commento, che sarebbe intorno il 1350, e sull'autore, identificato con tal Lorenzo Poderico o Pulderico << uomo dottissimo del suo tempo e primario possessore del cod. Filippino » sol perchè il 1° foglio porta miniato lo stemma di sua famiglia. Che la data sia in realtà posteriore, e che autore del commento possa più facilmente essere Andrea da Napoli, cercai dimostrare nel Giorn. dant. VI, 164-171. Il secondo codice, del sec. XV, contiene il commento completo, scritto da due mani, di Piero di Dante [Pil. X, n. XXXIV], che l'antico catalogo della biblioteca dava col

nome di Filippo della Lana. Il codice, che appartenne ai Giustiniani di Genova, ha sulla prima carta « miniata a diversi colori la figura del sommo Poeta, ma così consumata dal tempo, da non potersi distinguere la foggia del suo vestimento ». P. SAVJ-LOPEZ.

PAUL POCHHAMMER, Durch Dante. Ein Führer durch die « Commedia » in 100 Stanzen und 10 Skizzen. Zürich und Leipzig, Verlag von Karl Henckell & Co., 1897; 16°, pp. 144 con una tavola. Non pago l'A. della versione nè della riduzione libera del Poema da lui fatta (102 strofe ricorda averne pubblicate delle 1500 onde consta il suo lavoro compiuto), pensò fosse opportuno compilar d'ogni canto del Poema l'argomento, ponendolo in bocca allo stesso Dante. Così in 100 stanze di 8 versi ciascuna è riassunto il sacro poema, ad illustrazione del quale sono aggiunti 10 schizzi, tre nel testo, sette in una tavola a parte.

L'Allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri. Fiorenzuola d'Arda, G. Pennaroli edit., 1897; 8°, pp. LXX-386 (L. 5, per l'acquisto rivolgersi al signor Gius. Martelli, Ferrara, via Pergolato, n. 3). — Questo lavoro è la prima appendice d'una più ampia opera, pubblicata dall'A. col titolo La Vigilia e nella quale, a modo di semplice ipotesi, sono svelati i misteri dell' avvenire contenuti nella Bibbia. Secondo le Sacre Scritture Dio fissò al genere umano tre epoche: la prima va dalla caduta del primo uomo e dal successivo traviamento del genere umano, vagante nella gran selva del mondo, sino alla morte di Cesare, fondatore della monarchia romana, e di Gesù Cristo fondatore della monarchia cristiana; la seconda va dalla risurrezione di Gesù Cristo fino alla morte dell'Anticristo e alla distruzione del suo impero; la terza partirà da questa distruzione e andrà sino alla venuta di Cristo giudice e alla risurrezione generale di tutti i defunti, alla quale epoca udì San Giovanni esser assegnato mille anni. Il senso interiore della Commedia è perfettamente identico all'interiore della Scrittura, e consiste nella manifestazione, fatta da Dio a Dante, del vero cammino storico del genere umano nel suo passato (Inferno), nel suo presente (Purgatorio) e nel suo avvenire (Paradiso). Dante « per ispeciale assistenza di Dio e per lume interiore dello Spirito Santo conobbe così bene e così chiaramente e partitamente l'epoca terza del mondo che la descrisse e la cantò, poeta e profeta a un tempo dell'avvenire. Quello che fu un mistero per tutti non fu un mistero per lui. L'allegoria sua dalla mente di Dio passò alla mente di lui chiara, bella, limpida.... » Non vuol perciò l'A. metter Dante « nel novero dei profeti, e porre il suo sacro poema a livello delle profezie, giacchè da poeta particolarmente illuminato da Dio a profeta ispirato in tutto e per tutto da Dio il divario è immenso », e il « portare tropp' oltre l'azione dello Spirito Santo, trasformando il poeta in un ente passivo, sarebbe anzi un detrarre alla gloria di esso e di quella religione che a così alti e arditi voli allena l'umano ingegno ». Dante ristabilisce il millennio di pace, posto da S. Giovanni e soppresso nelle scuole cattoliche, tra la disfatta dell'Anticristo e la risurrezione universale per il Giudizio; e la sua Apocalisse è « sommamente simile » a quella di S. Giovanni; anzi le due Apocalissi« si richiamano, si compiono a vicenda, hanno lo stesso principio come lo stesso fine, e descrivono gli stessi avvenimenti; i quali si compiranno tutti nel secolo ventesimo >>.

Dante's vision of God. A critical analysis by CAROLINE K. SHERMAN. Chicago, Scott Foresmann & Co., 1897; 16°, pp. 33.- La visione della Divinità promessa

da Dio in premio ai puri di cuore, sperata dai primi martiri e confermata dai Padri, fu nel M. E. aspirazione costante di ogni anima, e quindi anche di Dante che conobbe e compendiò in sè tutte le inclinazioni e i bisogni dell'età sua. Ed ecco che egli nell'Inferno ritrasse coloro che di quella visione sono privi, nel Purgatorio descrisse la preparazione dell'animo a goderla, e la pose quale grado sommo di beatitudine nel Paradiso; e nessuno potrà significarla in modo più alto, sebbene ei confessi che « all'alta fantasia qui mancò possa »: sicchè a ragione il Card. Manning diceva che « al di là della visione che Dante dice d'aver avuto della divinità, non c'è che questa visione stessa ». Ma qual'è la ragione della concorde ammirazione con la quale al poema dantesco si accostano i seguaci delle più disparate dottrine? Gli è che a base e dell'intera concezione dantesca e d'ogni sua parte sta una verità generale ed eterna. Si potrà rigettare la teoria medioevale dell' Inferno, ma ogni anima pur rifuggendo dal pentimento troverà nel peccato il suo Inferno; si potrà non partecipare alla credenza di Dante nel soprannaturale, ma converrà sempre riconoscere quanto v' ha di misterioso nello svolgersi nel mondo esteriore ed interiore. Allo stesso modo, pur non venerando Maria, dovremo confessare la grande efficacia esercitata da questo ideale di donna e di madre nel mondo dell'arte e del sentimento; ed anche rigettando il dogma della Trinità, riconosceremo che gli attributi delle tre persone, si convertono in realtà l'uno nell'altro e sono indissolubilmente congiunti. Grazie a questo suo contenuto ideale, che è proprio d'ogni tempo e non solo per lo splendore dell'arte, la Commedia ha ancora tanta importanza, riuscendo come il messaggio d'un' età ricca di fede, ma povera di scienza, ad un'età ricca di scienza, ma povera di fede. A. DELLA TORRE.

Dott. MARIA PIA MICHELANGELI, insegnante nel R. Ginnasio, E. Q. Visconti, La donna nella Divina Commedia. Messina, tipografia dei Tribunali, 1898; 8°, pp. IV-104. Premesso uno sguardo al concetto ed alla condizione della donna nell'antichità e nel Medio Evo, l'A. mostra come Dante, che nella Vita Nova diede, innanzi il Petrarca, la più perfetta espressione alla lirica d'amore, diventi, per la Divina Commedia, il primo cantore epico della donna. Fa quindi una troppo rapida e superficiale rassegna di tutte le donne che s'incontrano nelle tre cantiche più numerose nel Purgatorio, perchè, pensa l'A., intendendo il poeta a ritrarre nelle prime due cantiche le passioni e i sentimenti umani - la sovrumana letizia è riservata al Paradiso e ben qui bastano a rappresentarla Maria, Beatrice e le altre donne divine, credè che i caratteri muliebri meglio si convenissero alla melanconia del Purgatorio, mentre l'uomo era più acconcio alla cupa disperazione dell' Inferno. Si tenta anche, in quest' opuscolo una classificazione metodica delle donne della Commedia, distinguendo quelle che hanno parte più o meno notevole nel dramma da quelle che sono solo menzionate. La prima categoria si suddivide in tre gruppi: le donne che muovono l'azione, quelle che si manifestano al poeta e quelle che egli appena vede; anche la seconda categoria comprende tre gruppi: delle donne citate come esempio morale, di quelle rammentate per determinar meglio un personaggio, di quelle ricordate per artifizio letterario. L'A. distingue le donne del poema anche secondo il criterio del tempo e della nazione e osserva come siano più tosto biasimate che lodate, e più spesso per i peccati di lussuria. Si ferma infine sulle principali fra le donne divine e sulle virtù che sono indotte a simboleggiare:

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