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cetti così diversi ed opposti che racchiude, una contradizione (1); e se inoltre, discutendo in astratto su quello che Dante avrebbe dovuto dire, invece di ascoltar la voce della poesia e cercar di penetrare l'anima del poeta, non si corra il rischio di trattar l'ombre come cosa salda '. Donde si può mai desumere che il poeta volesse infamare i Fiorentini per la trista usanza della vendetta, quando egli non palesa l'animo suo nè si fa in alcun modo ammonire o riprendere da Virgilio? D'altra parte, gli esempi di vendicatori de' congiunti, puniti nell'Inferno, o quello del buon Marzucco' (probabilmente un frate!) non possono ricordarsi in aiuto; sia perchè ciascuno di questi esempi ha qualche cosa di singolare e di proprio, sia perchè si deve pur pensare che quegli stessi che compievano una vendetta per sodisfare al feroce punto d'onore del tempo, s'attendessero, s'erano credenti, a doverne scontar la pena nell'altra vita. Al modo stesso che la vendetta di sangue era dagli Statuti condannata e punita, convien pensare che la giudicassero biasimevole, come pericoloso fomite di discordie e di lutti e come violenza usurpatrice della giustizia umana e divina, molti che, ove ne

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(1) Non so neppure se qualche contradizione, almeno formale, non ci sia fra ciò che si ricava dai passi citati e ciò che è detto poco dopo nello stesso articolo, p. 125: « E non si ricordan dei tempi, o nulla ne sanno, quelli che sull'episodio di Geri del Bello si scandalizzano che Dante approvi nel suo parente il desiderio della vendetta, o quelli altri che cavillano per discolparnelo. Giudiziose parole di Raffaele Andreoli; e altrettanto acuta, come spesso quelle del suo Commento, la osservazione che Virgilio, cioè la Ragione, non ne faccia al discepolo rimprovero alcuno. La vendetta privata' prosegue l'egregio dantista.... fino a che non potè sottentrarle la pubblica, fu un diritto legale; ed anche gran tempo dipoi rimase un dovere di onore.... Altrettanto reo, ma ben più ridicolo, sembrerà a' posteri il nostro duello' ». Ma qui la segreta intenzione morale dov'è andata? E si confronti pure l'articolo Dante nel suo poema, a p. 354: « Fieri affetti anche gli affetti della famiglia, in quei tempi, è vero: e un fosco episodio dell' Inferno dantesco potrebbe quasi farci pensare, che se Dante rimaneva in patria, alla morte d'un suo congiunto, Geri del Bello, sarebbe stata affrettata la vendetta, vendetta di sangue. Ma come la ferocia di tali propositi, che il Poeta in cotesto episodio liberamente manifesta, non toglie la religiosità de' suoi sentimenti; così pure avveniva, che il focolare domestico alimentasse e cosiffatti odii efferati, e amori tenaci e profondi ». Ma forse qui è da concedere qualche cosa al tòno della conferenza. Tornando alle parole dell'Andreoli, che son riferite e approvate nel passo del Del Lungo, io le trovo giuste ma non complete; mi pare cioè che vi manchi in parte quello che il Foscolo a' suoi tempi si doleva mancasse del tutto nei commentatori; poichè se non si può rimproverargli« tu non osservi la vita dell'uomo connessa agli altri umani individui che pur facevano parte della sua vita », si può però sempre pensare << niuno interpreta i pensieri del poeta co' sentimenti del cuore dell'uomo ». Cfr. Disc. sul testo della Commedia di D., XCIV. L'ammonizione del Foscolo merita anche ora d'esser meditata profondamente.

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fosse gravato su di loro l'obbligo, non avrebbero creduto di potercisi sottrarre. È a un dipresso il caso in cui si trovano molti ai nostri giorni, rispetto ad uno degli ultimi resti delle fiere costumanze barbariche, rispetto al duello: lo trovano barbaro, ma si sentirebbero umiliati e davanti agli altri e davanti a sè stessi, rifiutando di battersi. Anche Dante, ch' era uomo del suo tempo, si trovava involto in una tale contradizione; e l'animo suo, che pur rifuggiva istintivamente da una tale violenza, si faceva nondimeno più pio' verso lo sciagurato congiunto, al pensiero che nessuno de' suoi aveva ancora pensato di vendicarne la morte. Ho detto sopra che Dante non palesa l'animo suo; ma egli lo palesa invero nella malinconica tenerezza, di cui sono impregnati quei versi; e se l'arte non è affatto disgiunta dalla vita, e se gli effetti che produce su di noi sono gli effetti che il poeta ha voluto produrre e ci rivelano l'intimo sentimento che in quell' istante lo dominava, noi dobbiamo riconoscere nelle parole di Dante un intenso rammarico. Egli sentiva di non potere e di non dover sodisfare al tristo obbligo della vendetta; ma sapeva che in ogni altra famiglia ogni congiunto avrebbe riguardato quell'obbligo come sacro, e della noncuranza de' suoi e della sua incapacità d'odiare a quel modo sentiva una confusa ma pungente vergogna. Perchè dunque introdusse l'episodio? Perchè, non potendo conciliare la contradizione dell'animo suo, sentì il bisogno di adombrarla nel verso, traendo dallo sprezzante silenzio di Geri una volontaria espiazione (1).

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Fin qui gli uomini del Medio Evo quali erano; il terzo studio ce li presenta come Dante li vide e li raffigurò nel poema. Buone le intenzioni; profonda la conoscenza del poema e dei tempi; ricchi i particolari ed esposti colla consueta eleganza: ma talvolta anche colui che meglio. possiede l'abito dell'arte' ha'man che trema '; cosicchè non è da stupire se non tutto lo studio sia riuscito quale il Del Lungo lo volle, cioè se le due prime parti, Della realtà storica nella Divina Commedia, secondo gl'intendimenti del Poeta, e I Comuni, i Signori, le Corti, il Clero, appariscano un po' inferiori al difficile e complesso argomento che svol

(1) Che Dante si sia ricordato del silenzio di Didone, come sospetta lo Scherillo, mi sembra sicuro; e colla mia interpretazione il raffronto cresce d'importanza e di significato. Ma, a proposito dell' amico Scherillo, questo silenzio si capirebbe, o sarebbe almeno così poeticamente drammatico, se Geri fosse stato vendicato da' suoi e Dante, quando scrisse, n'avesse avuto notizia? 11 contegno di Geri è quello d'un uomo che non prevede riparazione o vendetta; nè la prevede Didone. D'altra parte, un Dante che s'intenerisce sullo zio, perchè non fu vendicato, mentre sa che altro sangue fu sparso e un altro delitto commesso, rischia di parer degno della bolgia di Geri. L'orrore delle cose non ancora avvenute può attenuarsi nella lontananza del futuro e velarsi de' più varii sentimenti; ma l'orrore del fatto compiuto si manifesta intero nella sua ripugnante verità.

gono. Buona ad ogni modo la prima parte e di fruttuosa lettura; anche se nel suo insieme non si presenti così fusa ad unità, da lasciarci un'impressione ben netta; e se, nei particolari, l'affermazione del Casella, che Dante << partendo dall'idea astratta » cercasse « di poi le forme simboliche che la rivestissero », non appaja contradetta con sufficente energia, penetrando nell'intimo del poema e nella genesi di esso; o se alla 'dissonanza ' tra l'imaginaria data del mistico viaggio, il 1300, e le cure reali della vita attiva che nel 1300 trascinarono Dante, sia attribuita troppa importanza e all'esame di essa troppo spazio; o se infine il magnifico ardimento della concezione dantesca, che popolò di figure vive di contemporanei il veramente morto regno dei morti delle Visioni medievali, non sia considerato, come forse doveva, nella sua profonda originalità e nel suo alto valore poetico.

Più diffusamente espositiva e più frammentaria gli è riuscita la seconda parte, dove l'enumerazione si sostituisce troppo spesso alla sintesi; mentre non accade così di frequente come si richiederebbe, che la frase, ricca d'ornamenti esteriori, risplenda pur d'un intimo contenuto, e del difetto della comprensione generale ci compensi la viva e profonda intelligenza o interpretazione dei particolari, i quali sono in questo caso i personaggi danteschi. Ci compensa invece la terza parte, Il Papato, l'Impero, e specialmente quel tratto di essa, dove l'Autore, aggruppando insieme, in ordine cronologico, le figure dei pontefici ricordati da Dante, rischiara, pur colla semplice luce dei fatti, il perchè delle sue preferenze, il perchè delle volute dimenticanze, cosi numerose, cosi singolari; e studiandosi di penetrar nel segreto di que' giudizi, ce li mostra guidati dalla logica inesorabile d'un sistema o, se si vuole, d'un odio politico (1). Anche il D'Ovidio, recentemente, nel suo notevolissimo studio intorno al più grande dei pontefici dimenticati, Gregorio VII, giunse ad una conclusione consimile; ed io credo ch'essa rimarrà sempre vera nelle sue linee fondamentali, pur se la critica storica dovesse provarci che Dante ignorò molte più cose che per ora non saremmo disposti ad imaginare.

Altre cose appajon notevoli nella rassegna, che il Del Lungo fa, di papi e d'imperatori danteschi; per esempio il confronto dell' episodio di Celestino con quello di Adriano V (dove forse meritava d'esser rilevata anche la pungente allusione ironica dei versi: « Drizza le gambe e levati su, frate, Rispose; non errar; conservo sono Teco e con gli altri ad una potestate); inoltre le opportune considerazioni intorno al 'buon' Barbarossa, a Federico II, a Manfredi. E spigolare utilmente si potrebbe anche nell'articolo intitolato Dante nel suo poema; dove pur vorremmo con più larghi e vigorosi tratti schizzate certe parti del carat

(1) Qualcosa vide già il Foscolo, op. cit., CLXXXVIII: « condannando Bonifacio VIII, non assolveva Innocenzo II, nè Gregorio VII; e non pure non li venera fra' beati, ma non ne parla, e li danna tacitamente, ecc. ».

tere di quell'uomo, che mentre fu più d'ogni altro capace di sentire e ritrarre in figure immortali la tenerezza e la magnanimità (e nelle loro forme più diverse, cosicchè nella sua sacrilega e quasi grottesca magnanimità il terribile Vanni Fucci è più grande di « quel che cadde a Tebe giù da'muri »), nel tempo stesso colla tenacià e l'energia de' suoi odi si palesa, secondo la meditata frase del Foscolo « disposto, ma non arrendevole alla pietà » (1). L'articolo fu in origine una conferenza, destinata a più vario e meno paziente pubblico che quel dei dotti; il che toglieva all'Autore di allontanarsi troppo dalle vie battute e gl'imponeva di diradare anche su queste gli sterpi, o di nasconderli sotto i fiori. Gli sterpi, che sarebbero in questo caso le notizie erudite, sono riserbati all'articolo che segue; come se il Del Lungo, esperto dei superbi disdegni dei dotti per gli articoli, come si chiamano, di divulgazione, maliziosamente abbia voluto preparar loro, subito dopo, l'offa di alcuni documenti. E documenti, s'intende, molto importanti, una parte de'quali i lettori del Bullettino hanno già avuto modo di apprezzare, perchè ne furono offerte loro le primizie (2).

Il saggio sul Volgar fiorentino nel poema di Dante, che, cresciuto di certe sue propaggini o giunte e appendici, chiude il volume, è in special modo notevole per le osservazioni intorno a modi e frasi della Divina Commedia, e pei raffronti con modi e frasi d'autori contemporanei, che più d'una volta giovano a rischiarare passi oscuri o controversi (3). Ma poichè di codeste osservazioni, degne d'un conoscitore della nostra antica lingua qual è il Del Lungo, e di codeste argute dichiarazioni se ne trovano sparse per tutto il volume, andrò scegliendo di qua e di là e talvolta annotando ciò che mi sembri o più importante o meno sicuro. Nell'articolo sul disdegno' di Guido il Del Lungo, a pp. 51 sgg., difende il suo modo d'interpretare, che è in fondo quello stesso del D'Ovidio, affermando che per quanto siano grandi i capricci ellittici del vocabolo cui ...; per quanto le diverse sue funzioni, ora di semplice relativo, ora (che è ben altra cosa, e non del caso nostro) di equivalente al pronome chi', complichino bizzarramente cotesti capricci, non è fra essi

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(1) Op. cit., LII.

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(2) Vedi Bullett., S. I, n. 4 e 10-11. I due documenti del 6 luglio e del 14 dicembre 1295 non sono però qui ristampati, come omai notissimi. Intorno al primo, vedi anche Bullett., N. S., IV, 56 sgg.

(3) Anche la parte espositiva è di utile e aggradevole lettura, riassumendo e dichiarando ciò che di meglio s'è detto sulla questione della lingua aulica ', in special modo dal D' Ovidio, e sulle questioni che vi si connettono. Ma parlando dell'efficacia che Dante ebbe nella formazione d'una lingua nazionale, vorrei si tenesse conto pur di quanto egli fece riguardo alla sintassi, che mostra in lui una regolarità singolare, e si studiasse per quali ragionamenti e con quali modelli vi pervenisse. Certo il latino ebbe anche qui la parte del leone.

1*. - Bull. Soc. Dantesca.

Ma,

compreso quello che la proposta interpretazione esigerebbe, e cioè che il sullodato' cui' possa significare a tale persona, la quale', ad eum quem, ad eam quam, o, peggio ancora, ad eum qui, ad eam quae ». per porre subito quasi una questione pregiudiziale, se s'intenda ad eum qui o ad eam quae, forse che il cui 'non sarebbe equivalente al pronome chi'? Invero, se fosse giusta l'interpretazione del Torraca, se cioè il Cavalcanti fosse non il soggetto, ma l'oggetto del 'disdegno', Dante avrebbe potuto scrivere: «mi mena Forse a chi Guido vostro ebbe a disdegno ». Gli era quindi lecito mutare questo a chi in a cui, come in un esempio d'un Fioretto della Bibbia (cod. Magliab. IV 107, f. 22 v): <di a chui t'à mandato ». Resta l'uso del cui per ad eum quem, ad eam quam, com'è inteso da alcuni (tra i quali ricorderò Guido nostro, perchè i suoi articoli, posteriori al 1889 e quindi non menzionati dal Del Lungo con gli altri sulla questione, hanno un loro proprio valore) (1). Ma che codest'uso sia pure legittimo, qual prova migliore dell'esempio di Dante stesso, citato dal Del Lungo in nota per impugnarne l'importanza, « e cui saluta fa tremar lo core »? Ove l'iperbato non muta per nulla il fatto sintattico, che non renderebbe possibile se già non fosse; come non lo muta, che il relativo sia retto da una locuzione avverbiale nell'altro esempio, pur dantesco e pur citato dal Del Lungo per scemargli valore: << a guisa di cui vino o sonno piega ». È chiaro che questa singolare attrazione, che tanto somiglia ai noti fenomeni della sintassi greca, era lecita con qualsiasi particella di caso. Ancora un'osservazione. Il pronome chi di solito non si spinge ne' suoi ardimenti così oltre come il cui : fa dunque al caso nostro e prova per noi un esempio del Pecorone, citato dalla Crusca, ov'esso si prende libertà ben maggiori di quelle che noi vorremmo assicurare al suo confratello : « fui tradita da chi mi fidai », cioè da colui al quale'.

Il Del Lungo potè, nel primo de' due versi ora citati, attribuire qualche importanza all'iperbato, perchè Dante scrisse cui, piuttosto che a cui: questo secondo avrebbe tolto ogni possibilità di resistenza. Ma la diversità riesce illusoria: quel cui è pur esso un dativo, e questo pronome s'è sempre potuto usare col suo originario valor di dativo (2), conside

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(1) GUIDO MAZZONI, Due parole sul disdegno' di Guido Cavalcanti; nel volume per Nozze Cian-Sappa Flandinet, 67 sgg. Ivi il M. riassume anche un suo articolo precedente.

(2) Pel senso, è però piuttosto una fusione di cui e di cuius (si dice tuttora il cui figliolo, ecc.): più tardi, dal confronto di a cui, di cui con a chi, di chi, chi, ecc., si estrasse anche un cui accusativo, che si sostituì del tutto in certi usi al chequem'. Ma in frasi come la dantesca « quando verrà per cui questa disceda» (che nel Del Lungo è, per mera svista, citata fuor di posto), mi par che restino tracce evidenti di costrutti latini. Del resto, sul cui si potrebbe intessere un importante capitolo di sintassi comparativa. Qui merita forse d'esser

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