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vina Commedia o la Storia Sacra, altre forse le inventò egli stesso traendole direttamente dalla letteratura del suo tempo.

La scena del conte Ugolino e l'episodio di Salomone formano l'originalità dell'affresco dell' anonimo artista che lasciò qualche altra traccia nel suo peregrinare nella riviera di ponente, quantunque rimanga il suo nome ancora avvolto nel mistero.

L'affresco di Campochiesa rappresenta l'unico documento dantesco che la Liguria possegga, appartenendo con tutta probabilità all'arte lombarda del secolo XV i codici danteschi miniati della biblioteca Durazzo, pervenutivi soltanto sulla fine del secolo XVIII, e a quella toscana popolare (secolo XV) il codice dell'Archivio di Stato di Chiavari che il professore Valle ha illustrato in altra parte di questo volume.

I codici Durazzo sono ornati da miniature rozze; vi ritroviamo l'Inferno raffigurato in una testa di drago nella cui bocca il diavolo getta le anime e il ritratto di Dante in una lettera iniziale che riproduce la scena del Poeta nella selva oscura.

Il ritratto di Dante si stacca totalmente dalla tradizione: il Poeta è vestito con un ricco abito ornato di ermellino ed ha un cappello a cono con bordo d'ermellino. Il volto è grassoccio e giovanile e ricorda un po' da lontano il Dante del codice pariginoimolese.

Il Giudizio Universale e il Paradiso formano ancora il tema di alcuni pittori liguri della prima metà del '500, di Ludovico Brea che dipinse una folla di santi e di eletti attorno alla divinità, con una visione veristica e lontana dai testi sacri e dalla Divina Commedia, di Giovanni Cambiaso che affrescò a Lavagna il Giudizio finale nella chiesa di Nostra Signora delle Grazie, senza alcun interesse iconografico per gli studi danteschi; e, infine, negli ultimi anni della sua vita, Luca Cambiaso dipinse per l'Escuriale il grande affresco del Paradiso, ispirato dai dettami della Chiesa più che dalle cantiche ormai dimenticate.

Le visioni dell'Inferno, nel secolo XVI perdono il loro valore narrativo, la significazione poetica e, per merito degli artisti fiamminghi Breughel e Bosch, assumono deliziosi aspetti caricaturali ed umoristici, ben lontani dalla letteratura sacra medioevale.

Raffaello domina il secolo e il grande palpito dantesco anima Michelangelo nell'opera gigantesca della cappella Sistina.

Gli artisti genovesi seguono la scuola romana, temperata dalla lombarda, e nessuno ha rivolto il pensiero a Dante. Luca Cambiaso dipinse per la chiesa dell'Annunziata di Portoria a Genova una scena infernale; sulla fine del secolo Bernardo Castello disegnò, per illustrare la Gerusalemme Liberata, un'altra scena consimile, sempre ben lontana dalla tradizione dantesca. I pittori diventano idilliaci, si occupano della mitologia per il sentimento pastorale che emana, delle Metamorfosi di Ovidio, degli episodi della storia greca e romana, vagando sempre in un mondo ideale, senza speculazione spirituale.

Una sola opera esisteva a Genova, dipinta da Cesare Corte, figlio di Valerio, ammiratore e biografo del Cambiaso, per illustrare il canto V dell'Inferno. Cesare Corte, pittore e poeta, dichiarato degno di lauro dal Foglietta e dal Chiabrera per il suo puro verseggiare italico, ingegno bizzarro, dedito agli studi della filosofia e della teologia, tanto da essere accusato di eresia, doveva leggere ed amare il poema dantesco per farne sua fonte per il quadro destinato a Filippo Pallavicini, oggi perduto, definito dal Soprani come « bellissimo ». Il Chiabrera tanto si entusiasmò di « sì superba pittura» da lodarla nel seguente sonetto:

Perchè forte ragion freni il talento,

Sicchè non corra ove lussuria spinge,
Dante procella sempiterna finge,
Di condannato amor degno tormento.

Or perchè rimirando abbia spavento

Chi troppo acceso a male amar s'accinge,
Su breve tela Cesare dipinge
Gl'orridi verni di Tartareo vento.

E sì dotto pennello inganna i sensi
Che l'occhio scerne turbini funesti
Tutta agitar la Region profonda.

Febo, se premi alla virtù dispensi
Dell'alme foglie ond'il cantor cingesti,
Le saggie tempie del Pittor circonda.

Non rimane purtroppo altra memoria di questo prezioso quadro se non l'accenno del Soprani e il sonetto del poeta savonese. Il dipinto del Corte fu eseguito in quegli anni che succedettero alla glorificazione di Dante fatta dal Vasari e alle illustrazioni degli Zuccari.

La collezione dei disegni di palazzo Bianco conserva uno schizzo a matita acquarellato, su uno sfondo giallognolo, ravvi

vato da lumi di biacca e quadrellato, che rappresenta l'allegoria dei poeti toscani.

Non si tratta d'opera d'artista genovese: le indicazioni scritte sul retro del disegno e sul davanti del foglio, in una parte aggiunta per restauro, fanno pompa di nomi di pittori celebri. Con scrittura che sembra secentesca (la carta è del '500 o del '600) si trova sul retro l'indicazione di Andrea del Sarto e il foglio aggiunto, forse del secolo XIX, reca con caratteri dell'800 il nome di Angelo Bronzino, ripetuto poi negli inventari, così poco attendibili.

Sul disegno in due calligrafie diverse, una delle quali più antica, sono scritti alcuni nomi, riconoscibile la moderna per le lettere a stampatello e per qualche stranezza.

Non credo sia possibile accettare l'attribuzione dei due anonimi collezionisti e assegnare all'uno o all'altro dei due maestri il debole disegno di palazzo Bianco, troppo vincolato nell'iconografia e da alcuni particolari all'opera del Vasari, dedicata appunto ai poeti di Toscana, anche se sia possibile rilevare nella composizione qualche motivo bronziniano.

Il disegno di palazzo Bianco ricorda il noto quadro, dipinto da Giorgio Vasari dopo il suo ritorno da Roma e Firenze (1544), << nel quale era Dante, il Petrarca, il Boccaccio, Cino da Pistoia, Guittone d'Arezzo, il quale fu poi da Luca Martini cavato dalle teste antiche accuratamente: del quale ne sono state fatte poi molte copie ».

La tavoletta del Vasari, conservata ad Oxford, Oriel College, che Girolamo Coke incise, rappresenta Dante seduto presso un tavolo con sopra il mappamondo e la sfera celeste, nell'atto di conversare con Guido Cavalcanti al quale mostra un libro, la Divina Commedia, e indica quello che il Petrarca, che gli è vicino, tiene in mano. Il Cavalcanti a sua volta fa lo stesso gesto verso Dante e lo stesso fa il Petrarca. Il Boccaccio, il Poliziano e Marsilio Ficino completano il gruppo.

Ispirata allo stesso concetto sembra la stampa in legno, che rappresenta lo stesso colloquio all'aria aperta, presso un albero di alloro, al cui piede è seduta la simbolica figura di un fiume nella persona di un vecchio barbuto e coronato di lauro che, appoggiandosi ad un leone, versa dal tradizionale vaso l'acqua che fluisce copiosa. Dante, posando la destra sulla sfera celeste, parla con Petrarca e Boccaccio. L'incisione fu ripetutamente impressa nella Zucca del Doni 1551-1552 e nei Marmi per Francesco Marcolini.

Il disegno di palazzo Bianco, pur avendo in comune con l'incisione descritta l'elemento della figura allegorica del fiume, che rappresenta nella composizione l'Arno glorioso, molto ne differisce.

L'allegoria dei poeti toscani si svolge con maggior numero di personaggi sullo sfondo d'una grandiosa architettura cinquecentesca alquanto fantastica, con due rampe di scale opposte che conducono allo stesso punto e sboccano sopra un ampio terrazzo al cui centro zampilla una fontana a due vasche. Nel mezzo della scalinata un gruppo scultoreo in un riquadro, due statue nelle nicchie laterali e sul terrazzo, attorno alla fontana, un anfiteatro e due loggiati laterali; sullo sfondo alberi e figure ovunque.

Innanzi a questo scenario grandioso si svolge il colloquio dei poeti del Parnaso toscano: Dante in prima fila, con fare sdegnoso, regge il volume della Commedia e pone la mano sopra una sfera celeste, volgendosi al Petrarca, come se gli parlasse. Alla sua sinistra Boccaccio si protende. I tre personaggi principali riproducono gli stessi volti della tavoletta vasariana di Oxford, e sulla copertina del libro che il Petrarca ha in mano, si trova la stessa figura femminile, Laura, dipinta su quello che lo stesso poeta tiene nell'opera del Vasari.

Un po' a destra e verso il margine estremo della composizione è disegnata la figura simbolica del fiume e dietro il gruppo dei grandi una folla di poeti minori e in cielo un volo di angioletti che porgono corone e scoccano frecce. Sul gruppo dei poeti minori, disposti attorno a Dante, una scrittura secentesca, senza intendimenti decorativi, indica il nome di ciascun personaggio e sembra l'annotazione di un collezionista: vi leggiamo: M.° Cino, Maiano, Cavalcante, Martelli.

Il ritratto di Dante deriva da quello di Raffaello nel Parnaso e tutta la composizione sembra ispirata dalle opere del grande urbinate, anzi si potrebbe quasi supporre che l'autore del disegno abbia potuto creare il Parnaso toscano, sotto l'impressione degli affreschi vaticani.

L'ignoto ed inedito disegno di palazzo Bianco, che si avvicina all'incisione del Marcolini, appartiene all'arte vasariana, per una serie di raffronti significativi, e costituisce un piccolo contributo all'iconografia dantesca generale.

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