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al dato della presa di Otranto, poichè esso non è esplicitamente citato, nemmeno è necessario ricorrervi: la deplorazione del sopravvento degli Infedeli sul Cristianesimo, anche per le invettive contro i depravati costumi del clero che l'accompagnano può benissimo riferirsi a un paio di decenni più tardi (tra il 1498 e il 1503 cade una nuova e più disastrosa guerra di Venezia contro i Turchi). Se però il Fallamonica scriveva nei primordi del Cinquecento, è certo che la sua coltura e la sua formazione spirituale risalgono al secolo precedente.

Ma questa opera che pareva all'ingenuo Giustiniani e agli amici suoi superiore nello stile alla Divina Commedia in essa imitata, e vicina per eleganza al verso armonioso del Petrarca, 23) fu ben presto sottratta all'ammirazione o alla censura dei posteri. Già il Foglietta, che compose i suoi Elogia nel 1572, dopo aver espresso la sua ammirazione in termini egualmente esagerati, sulle orme stesse del Giustiniani, doveva lamentare come il merito grandissimo del poeta non potrebbe venir riconosciuto per la stoltezza dei discendenti, che tenevano gelosamente nascosto il «<< divino volume ». 24) Un secolo più tardi i due emuli biografi della Liguria, Michele Giustiniani e Raffaele Soprani, non potevano altro che riportare il primo e il secondo riassumere le scarse notizie dei loro predecessori. Il Soprani parla addirittura di smarrimento del poema per la scarsa cura degli eredi e parenti: facendoci supporre che non se ne trovasse ormai più copia tra le carte di famiglia. 21)

Attraverso una limitatissima tradizione manoscritta il poema è invece giunto fino a noi. Una lettera del prof. Gagliuffi, pubblicata il 30 maggio 1821 sulla Gazzetta di Genova e un successivo chiarimento del marchese Emidio Carenzi-Gallesio di Finale, comparso nello stesso giornale pochi giorni dopo, 26) ne annunziavano il ritrovamento da parte del Carenzi medesimo, l'identificazione e analisi per opera dello Spotorno, e la prossima stampa a cura del poeta Gio. Carlo Di Negro, discendente del Fallamonica. Ma di questa edizione (a cui avrebbe dovuto collaborare anche il Biondi di Pisa) non si parlò più: e rimase a testimonio dell'iniziativa l'esame dedicato dallo Spotorno nella sua Storia letteraria della Liguria27) al poema del Nostro, seguito da qualche notizia biografica e bibliografica, e poche pagine più oltre da un accenno alla produzione lirica già ricordata. Il dotto storico distingue l'opera in quattro parti fondamentali, o Cantiche, di cui riassume la trama con qualche citazione: e pur senza salire agli entusiasmi del Giustiniani, riconosce al poema un vero e proprio

pregio intrinseco, per la vastità dell'argomento, che vince qualunque altro poema (anche la Divina Commedia!), e per le bellezze d'immaginazione e di stile, formate su Dante e il Petrarca; sebbene le attenuino i difetti propri del Quattrocento. << E per finire, niun poema, dopo la Divina Commedia, e prima dell'Orlando Furioso, può sostenere il paragone del nostro Falamonica ». Si perdonerà al buon padre se nel 1824 non faceva troppa stima del Pulci e del Boiardo?

Intanto, a cura del grecista ab. Crovi, che aveva trovato un altro manoscritto, usciva nel giugno 1822 il primo fascicolo di una frettolosa edizione del poema, contenente i primi tre canti e metà del quarto, come saggio per sottoscrizione2): ma i sottoscrittori mancarono e l'impresa restò arenata appena fu in mare. Solo nel 1877 il prof. Giuseppe Gazzino, dopo aver arrischiato anche lui un fascicolo di saggio co'l primo canto nel 1872, 29) dava alle stampe un'edizione integrale del poema. 30) Il Gazzino, com'egli ci informa nella prefazione, si giovò di un terzo manoscritto, sconosciuto allo Spotorno perchè entrato solo pochi anni più tardi a far parte della Biblioteca Universitaria di Genova, dove ancor oggi si trova: ma date le gravi scorrezioni di quest'ultimo testo, ne curò la collazione con il ms. carenziano, tosto passato alla Biblioteca Vaticana, e la lezione di questo seguì quasi costantemente come più antica e migliore, salvo in pochissimi luoghi guasti e inintelligibili, da lui racconciati, e per l'interpunzione, che non sempre gli riuscì troppo felice. 31)

I manoscritti da tener presenti per un'edizione critica del poema, che manca a tutt'oggi (non essendo sufficiente, pur con tutti i suoi meriti, quella del Gazzino) sono dunque tre in tutto, il Carenziano-Vaticano (che indicheremo con CV), il Croviano, che si è perduto (D), e l'Universitario (Gu). Quanto a CV (cartaceo, nel solito quarto antico), esso consta di 222 pagine, in condizione mediocre, e contiene il solo poema, senza titolo nè indicazione di autore, essendo privo del frontispizio. 32) Lo Spotorno, appena l'ebbe tra le mani, avanzò l'ipotesi che si trattasse di una copia « di mano dell'autore medesimo»: e questa supposizione volle poi mantenere per vera. 33) Sia CV autografo o no, è certo che la bontà della lezione lo fa più antico e migliore di tutti. Il cod. D era invece, per quel che sappiamo, del secolo XVII, a giudicar dal carattere: sebbene in una avvertenza a firma del tipografo, che va premessa al saggio stampato nel '22, si affermi che questo è il vero autografo, come fornito dell'indice degli argomenti! Recava le iniziali B. F. e in appendice alcuni sonetti

dell'autore (forse gli stessi tre che si trovano in Gu). 3) Quanto a Gu è pur esso un codice cartaceo del secolo XVII (di pp. VI inn. +388 +2 inn.); 3) sulla guardia ha, nel dorso, l'indicazione Canzoni scritte a mano, e solo una mano posteriore ha aggiunto, nel frontespizio, Canti di Bartolomeo Gentile Fallamonica. Contiene (da p. 1 a 383) il poema, poi (pp. 384-6) tre sonetti alla Vergine, e da ultimo un indice, che segna sempre come uno solo i vari canti di uguale argomento. 36) Nei primi canti sono sottolineati non pochi errori del copista, con lo stesso inchiostro che ha servito per numerar le pagine: e non mancano raschiature e correzioni, sempre di errori del copista. 37) Solo per il primo canto si ha testata e numerazione: ma si va sempre a capo di pagina per ogni canto. Quanto alla lezione, essa è senza dubbio molto men buona di CV: ma non sembrerebbe che derivi da corruzione di questa, bensì da un altro archetipo, probabilmente lo stesso da cui proveniva D, che ha (almeno nei primi canti) con Gu notevoli somiglianze.

Tale, per chi volesse pensare a un'edizione critica e commentata, lo stato odierno della tradizione manoscritta del nostro poema: a cui piuttosto che il semplice titolo di Canti converrebbe altra più degna denominazione, che indicasse all'attenzione dei contemporanei l'opera del Fallamonica. Per ora intendiamo qui a mostrarne la modesta ma non trascurabile importanza, certamente superiore a quella assegnatagli in un troppo rapido cenno da Vittorio Rossi: 88) a cui pare che in essa il viaggio per regni ultraterreni si riveli artificio tutto esteriore, perseguito con molta oscurità nei particolari, talvolta non ben chiaro allo stesso autore: che gli sproloqui di teologia vi si inseguano e accavallino <«< con monotonia e insistenza accascianti, senza vita nè poesia » : che insomma qui si abbia soltanto lo scheletro sformato del modello dantesco.

III.

Ma vediamo intanto come il poema si organizzi e si snodi attraverso alla lunga trama dei suoi quarantadue canti (il quarantatreesimo sta da sè, come lauda spirituale alla Vergine Maria, secondo già avvertiva il Gazzino. 39) La visione nasce qui da un intimo dramma spirituale, non d'uomo nel fior degli anni che smarrisce la sua via nell'oscura selva di perdizione, ma di canuto

gentiluomo che ha corso tutti i sentieri della vita come si corre una giostra, e a sessant'anni suonati, quando il fiore delle sue forze ormai reclina e le sue speranze sono tutte, senza residuo, disperse al vento, sente la vanità di questa guerra e di tutta la realtà terrena. « Un'immortal e doloroso affanno » stringe il cuore del poeta: l'affanno stesso che fece gridar l'Ecclesiaste e cantare Leopardi con la lira del dolore universale - l'affanno che si moltiplica per il rimorso dell'allontanamento da Dio. Ma in questo tormento, che ancora non si allegorizza — anzi rimane nudo e chiaro in tutta la sua intensità spirituale, egli è colto da una forza celeste che lo trae verso la visione purificatrice:

Un gran motor che mi costrinse il senso [costringe?]
E mi conduce in un'oscura valle.

(Pag. 2).

La valle, oscura e d'aer denso, è residenza dei saggi, poeti e filosofi, da Orfeo a Virgilio, da Talete ad Aristotile, che il poeta enumera parafrasando e allargando il famoso catalogo del Limbo dantesco. Qui a lui confuso e meravigliato si presenta, come una stella che cala d'occidente, il suo Virgilio: Raimondo Lullo, «< un raggio al mondo in forma di romito» che, richiesto da lui di soccorso e avuto conto del suo doloroso stato, gli promette l'immediata conoscenza dell'errore umano e della gloria del futuro regno celeste. È l'alba, ormai; e Raimondo:

Vedi che il carro ascende dall'aurora;
A lui t'appoggia, in quanto al naturale,
Che sopra li suoi crin farai dimora.

Da poi mi prese come avessi l'ale
E seco mi congiunse in la sua sfera
Dicendo: Or guidal tu, luce immortale,

Infin ch'io lo riprenda in altra sera.
E quel mi strinse con amor sì forte,
Come fanciul la sua nutrice vera;

E caddi allor come uom di dolce morte.

(Pag. 9).

Così termina il primo canto, proemiale: nè crediamo che questi versi abbiano soverchio bisogno di glosa. 40) Altrettanto chiaro del resto il carattere dantesco di cui fin d'ora s'impronta il poema, e che fra breve preciseremo, per discorrerne minutamente più oltre. Solo che dopo questo proemio, che fonde insieme gli ele

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(Da uno schizzo allegorico conservato nel Palazzo Bianco di Genova).

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