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l'opposizione. Ma una cosa tuttavia egli è riuscito a cogliere pienamente in Raimondo, accanto ai vari punti dottrinali che additeremo; ed è il naturalismo: quell'appassionata attenzione alla realtà naturale e umana come eterna rivelazione di Dio, che la scuola di Chartres aveva levata sugli scudi come motto di battaglia contro l'aristotelismo e in nome di Platone: ed è un'attenzione che, precorrendo la scienza del Rinascimento, non vuole deformare e dialettizzare, ma venerare e adorare. È questo lo spirito del lulliano Liber magnus contemplationum, ora più che mai presente al poeta nella sua trattazione di questa naturale e umana realtà, insieme al De arcanis già ricordato, ai Principia theologiae, philosophiae, iuris, medicinae e al De homine e a quanto di nozioni scientifiche è sparso per tutti i libri della Grande Arte. 71)

Accennato di volo alle qualità estrinseche dei quattro elementi, si passa a parlare dei loro accidenti essenziali, per cui essi possono formare e trasformare, corrompere e restaurare le cose: accidenti che agiscono in loro con forza crescente dal più basso (terra) al più alto (fuoco), e senza dei quali la natura sarebbe morta, nè vivrebbero i sensi umani e le umane facoltà, anzi la vita intera e Dio stesso si ridurrebbero in una vuota indifferenza. E son tre passività, attività e atto in differenza, cioè energia specifica, quella che già Aristotile distingueva dall'entelechia come tale. L'unione dei quattro elementi in una discorde concordia costituì il corpo misto originario, «< come caos, o materia prima, Sostanza elemental piena e feconda»: secondo il concetto stoicoagostiniano della materia seminale, accettato da Lullo, in opposizione al concetto aristotelico-tomistico della materia fluitans, indifferente e indifferenziata. Si critica la teoria dell'azione separata degli elementi; una volta fusi, essi costituiscono il plasma indissolubile della natura, informato da principî che scendon dal primo mobile, sotto l'azion dei quali esso costituisce la varia molteplicità dei corpi, legata a lui come a sua radice, dominata dalla legge dei contrarî, modellata secondo i propri tipi celesti. Ma l'opposizione dei molti non può infrangere l'ordine di natura; essa è un principio accidentale, questo invece una concordanza sostanziale, radice e regola tanto della generazione che della corruzione. Nell'essenza di questa originaria e insuperabile concordanza, che ha nella necessaria e concreta unione degli elementi attraverso i loro vari stati e qualità la sua manifestazione fenomenica, hanno la loro scaturigine metafisica tutti i principî del reale: natura, forma, materia, moto, privazione, causa, effetto,

pieno e vuoto e via dicendo sino alla stessa potenza e atto (canto V, pp. 37-44). Ecco l'immanentismo neoplatonico, che prenderà sempre più terreno nella filosofia della Natura del Rinascimento, fino a Telesio, Bruno e Campanella, delineato qui nel suo motivo essenziale. 72)

Ma l'attenzione del poeta si rivolge poi per tutto un canto, il VI, alle proprietà fisiche, meteorologiche e alchimistiche dei quattro elementi: ricadiamo nel Medio Evo, come vi si ricade nella successiva enumerazione dei minerali, con le relative potenze e qualità (c. VII, pp. 56-58). 78) E nemmeno balena tosto fra questa scienza tradizionale uno sprazzo di pensiero moderno, di fronte al problema della legittimità dell'alchimia in quanto si sforza di tramutare un elemento nell'altro. Perchè la trasmutazione è ammessa come possibile, 74) ma si pensa sottratta dal Cielo alle forze umane, perchè troppo sono le voglie degli uomini affamate d'oro e di ricchezze, che da quelle avrebbero grande incremento. E gli alchimisti invano cercano e frugano il mistero della natura: l'arte non basta a penetrarlo, quando non le soccorra, anzi le faccia ostacolo, il volere divino (c. VII, pp. 59-62).

I corpi naturali hanno dunque per costitutivi la missione degli elementi, il vuoto (« detto quinta essenza »), che comporta le determinazioni quantitative e quindi il principio d'individuazione, il loco «<e tutti gli altri gran predicamenti », o categorie (c. VII, p. 55). All'azione concorde di queste forze presiede l'anima elementativa; e allo stesso modo abbiamo per i vegetali l'anima vegetativa, che è unica in sè stessa pur diffondendosi e vegetando per tutte le piante viventi, cui riassorbe poi in sè come specie quando ha cessato di vivere: anima che inerisce nella prima e forma con essa un solo agente naturale per questo regno del cosmo. Per questa unione è possibile alla forma del vegetante trar dalla terra, in potenza, il suo alimento, e, continuamente trasformandolo in atto, propagare la propria discendenza all'infinito, dentro l'infinita diversità della Natura, che si svaria senza tregua in ogni sorta di prodotti a servizio dell'uomo: poichè l'uomo è la causa finale del tutto (c. VIII, pp. 64-69: segue, pp. 69-72, un breve sommario di medicina vegetale).

L'anima vegetativa non ode, nè vede, nè sente in alcun modo: epperò a costituir l'animale son necessarie una terza anima, la sensitiva, e una quarta, immaginante; come poi una quinta, che è la razionale, per costituir l'individuo umano. Ogni singolo vivente «< circoscrive » così, e cioè determina, individua un principio psichico universale, che si moltiplica in queste sue attuazioni senza

perciò perdere la propria unità: secondo la concezione del pieno realismo medioevale, che compare qui con un sentore di averroismo (il principio universale non solo è somma realtà, ma anche la sostanza unitaria della vita, sotto il fenomeno delle specie e degli individui). Ma, del pari, in ogni singolo vivente non una, bensì più anime sono per tal modo congiunte: ciascuna con funzioni proprie, ma tutte fuse insieme, « facendo un drappelletto insieme stretto Col vincolo d'amor vivo e sensato » (c. IX, pp. 77-75); proprio conforme all'errore incriminato dall'Alighieri, « ch' un' anima sovr'altra in noi s'accenda » (Purg., IV, 6). Alla sensitiva spettano cinque potenze, cioè i cinque sensi, che scaturiscono da un << senso comune »; all'immaginante, oltre il centro immaginale che raccoglie i dati del senso comune, anche la forza appetitiva e conservatrice della vita, da cui sono determinati i varî costumi degli animali, su cui il poeta si sofferma alquanto, quasi a dare un cenno di zoologia (c. IX, pp. 75-79). Così si compie il gran quadro del cosmo, che in tutte le sue meraviglie è un richiamo segreto per l'uomo « in aprir gli occhi all'armonia sì bella, Ed al governo ch'indi ne risulta Col mezzo concernente d'ogni stella ». E il Poeta leva un inno alla grandezza di Dio, che stringe in un solo organismo tanta varietà, e scaglia un'invettiva contro l'umanità, sempre più cieca alla sua misericordia (pp. 80-81).

La grazia divina ha fatto poi dell'uomo il sommo grado di questo ordine cosmico, che ha in lui la propria causa finale, e la creatura più degna. Questa dignità ha la sua sede non già nel corpo, ma nell'anima che questo corpo regge e governa e a cui ineriscono le umane eccellenze e virtù: questa dignità il poeta celebra in tre appositi canti (X-XII), non senza altri echi nel resto del poema, con accenti che ricordano singolarmente il De dignitate et excellentia hominis (1453) di Giannozzo Manetti e in genere tutta la nuova concezione umanistica.75) Ma qui si nega la concezione averroistica di un unico intelletto, al pari che quella traducianistica: e ritorna in campo la fiera opposizione di Lullo a «quel gran commentator sì forte errante ». Due principî giudicanti agiscono nell'uomo: il sensitivo, corporeo limitato e mortale, e il razionale, a cui compete l'immortalità, il quale deriva direttamente da Dio e costituisce e domina l'individuo come persona morale. L'anima intellettiva e razionale, che rende oscura immagine della stessa divinità una e trina, ha appunto tre virtù legate in una individualità unica (a differenza delle quattro anime del corpo, non più che congiunte insieme), dove ciascuna da sè non può equivalere al tutto, ma solo tutte insieme : che sono in

telletto, volontà, e libero arbitrio di cui il Poeta è acceso fautore al pari di Dante, così poco seguito, del resto, in questa sezione (canto X). Secondo la dottrina lulliana («< altissima e sottile ») ricorda il poeta come i dati delle anime sensitiva e immaginativa, che non si staccano dal corpo, vengono a raccogliersi nell'intelletto passivo: donde l'anima intellettiva, come intelletto agente, li trae a sè e li fa intelligibili caratterizzandoli con la sua virtù attiva. Di questa materia dell'esperienza si nutrono le varie facoltà intellettuali superiori, che troviamo vivacemente descritte: la fantasia, l'intelletto in senso proprio, la memoria, il volere come appetito del piacere e come amore, e l'arbitrio, che decide, data la sua indifferenza, secondo il parere dell'intelletto in funzione di sinderesi o coscienza; facoltà che, per un ordine immortale, attendono ciascuna al proprio obbietto ma acquistano sempre non per sè sole ma per la totalità di cui son parte. In questa varia vicenda spirituale, culminante nelle lotte tra il volere e la carne ribelle, «volando passa l'uomo al mondo » (canto XI). 76)

VII.

Il terzo canto dell'uomo (XII) ci accosta già alla teologia morale, essendo tutto dedicato alla classificazione, esposizione, celebrazione delle virtù: cominciando dalle tre teologali per passar poi alle razionali, dalla fortezza alla temperanza, sempre sulle orme del Dottore di Maiorca. 7) Come per Lullo, il posto principe è destinato alla fede: «fides est res adeo excellens et nobilis, quod trascendat terminos, in quibus ratio est terminata et conclusa, quia de talibus rebus tractat fides, quod ratio et intellectus hominis non possint ipsas intelligere »; senza che per questo l'oggetto suo differisca dall'oggetto intellettivo per caratteri essenziali. 78) E il Poeta, qui (pp. 102-103) e in un altro luogo correlativo (c. XVII, pp. 145-6), espone largamente tale teoria: la fede, luce dell'uomo nella vita, è fondata tutta sull'intelletto, che vorrebbe intendere da solo, ma inchinandosi al volere divino riesce ad attingere per quella via la stessa essenza della divinità, in quanto nel credere sta qui la radice dell' intendere.

Se la fede possiede il più alto valore teoretico tra le virtù, il più alto valore pratico spetta invece alla temperanza, che c'insegna a moderare gli appetiti terreni e rivolgere ogni nostra at

tenzione alla salute eterna: concetto svolto ampiamente nella chiusa del XII e per tutto il XIII canto. Transitorie son le cose tutte di questo mondo; vinciamo noi stessi, e avviamoci alla virtù con una savia moderazione e un giusto timore di Dio; poichè << temer Dio d'ogni sapienza è inizio »: initium sapientiae timor Domini. Ma non solo si deve temer Dio: ma altresì amarlo come perfetto Bene e imitarlo con le opere buone che ci procacceranno il Paradiso. Una lunga teoria della vera vita cristiana compie così i canti XIV e XV.

Siamo ora all'essenza stessa di Dio: obbietto immenso, luce infinita, primalità assoluta, egli ha nella sua mente quanto produce: «< qui sta per farsi, e là tutto è fornito; Il mondo in Lui ed Ei nel mondo luce ». È un ente unico, indefinito e infinito, estraspaziale estratemporario estrasensibile; conforme ai dettami della teologia negativa, non si può dire nemmeno che sia spirito: <«< ma solo è un che, compreso per non è», cioè determinabile solo negativamente. Egli è colui che è (l'ego sum qui sum della Bibbia): uguale solo a sè stesso, grande « senza quanto »>, onnipotente, onnivadente, onniveggente: uno in sè stesso (« trino nel giudizio », cioè nella sua vita interiore), crea dal nulla il diverso del mondo e lo regge in trascendenza, pur immanendovi con l'opera sua. E si accumulano i contrasti fra l'opera provvidenziale, che attira Dio nel mondo, e la Sua assolutezza, che lo vuole infinitamente superiore a questo: contrasti la cui coesistenza è ammissibile solo per fede, e per fede dichiarata logica e non assurda (canto XVII). « Mai dai creati non sarò compresa >> ferma una voce che è della stessa divinità, « ma per gli effetti in qualche parte intesa ». Senonchè il poeta per lume di mistica grazia intuisce le potenze divine nella mente di Colui che ha creato il mondo a propria somiglianza, e che infrange nella sua essenza creatrice la legge universale che vuole per l'azione la preesistenza dell'obbietto passivo di fronte alla forma attiva: perchè Egli può, producendo l'obbietto stesso, porre la passività senza materia preesistente, come del resto è proprio di una forza intellettiva tanto sviluppata. Le potenze divine, che nell'atto creatore si accomunano ad un sol atto, son successivamente definite come: Bontà, infinità, eternità, potenza, sapienza, volontà, virtù, gloria: ciascuna radice di un necessario ordine di realtà (dalla volontà, in particolare, come divino amore, discende la trinità divina). Il Poeta ricorda le contese scolastiche intorno al problema << se questi nozionali in Dio son veri, O solo in noi »>, e combatte la tesi « che non reali son questi attributi, Ma sono

af

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