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oltre ai c di ance, certo, roncí quello di zo, str. rifer., v. 2 (almeno in un ms.; gli altri hanno cho, che parrebbe da leggere ciò), di sozo, ib., 9, di gauzo (vero genovese sarebbe gozo), 72, di prezo (in un codice; gli altri s), 73.) Si trova nell'ediz. Crescini proensal 21 (v. 7 della str. rifer.), dove un cod. (D) ha però z; proenzal 56 (due codd., D e a'; gli altri due s), e così 83 (tutti i codd. z); proenzalesco 71 (≈ solo D). Risulta che è meglio scrivere z dovunque, come vuole anche il dialetto. Anche nella parte provenzale il vocabolo è scritto con z, v. 89, benchè la lingua d'oc qui possa a buon diritto preferire un s, ma non vogliamo sforzarci a trarne alcuna conclusione. Infine c'è mozo, str. riferita, v. 9, che al v. 51 ritorna, al femminile, sotto la forma mosa, in rima con cosa. È un'altra grave concessione che il valoroso Rambaldo ha fatto alla prepotenza della rima. Egli, un poeta provenzale, non solo ha mutato un z in s (pazienza! per la lingua d'oc non era un gran fallo), 1o) ma un u, o mettiamo pure un o chiuso (se è possibile che ancora si pronunciasse così), lo ha costretto, proh pudor!, a rimare con l'o aperto di cosa (aperto e lungo, mentre la vocale di moza è breve). Ma! Tutti abbiamo i nostri momenti di debolezza. Il fatto è che si deve leggere muzu, ossia muzzu (o forse, ripeto, al più mozo, cioè mozzo, con due o molto chiusi), come dimostra la grafia delle Rime anonime, (P) mozo 2, 7; 9, 214; (L) mocitae 53, 10; 79, 98, ecc.; in altri testi inmocij. 11)

Meno possiamo far conto sull'unico z sonoro sicuro: za, str. rifer. 10, (in un solo ms., a'; gli altri ia), mentre al v. 6 è scritto ja (in tutti i mss.). 12)

È tempo di conchiudere. Della pronuncia z dell'antico genovese non pare si possa dubitare, nè quindi dell'interpretazione da darsi al passo dantesco. Ma era solo il dialetto genovese a possedere quello stock di z, da cui era stata mossa la bile del divino poeta? Non è chiaro. L'ortografia ci presenterebbe condizioni consimili per altri dialetti dell'Alta Italia, e basti considerare i testi lombardi e anche i veneti. Non è certo ora il caso di intavolare una lunga discussione per fare il confronto tra questi e per esempio le Rime anonime, tanto più che i dati sono assai difficili a valutare con esattezza; ma basti dire che però nessun testo lombardo (o veneto) permette un giudizio tanto sicuro quanto i genovesi, circa la pronuncia dei due z. E poi basterebbe supporre che lo z genovese fosse più sibilante, più aguzzo, per così dire, più vicino insomma allo z toscano; quello di altri dialetti invece più simile a s, per rendersi ragione della sentenza ironicamente pronunciata

dal non indulgente poeta. Senza dire che anche se fosse stato uguale, poteva in un diverso complesso dialettale fargli un'impressione acustica diversa, e diversa specialmente.... secondo le sue simpatie e antipatie. Ma non sottilizziamo e non maligniamo. A me pare assai probabile che, tra i dialetti principali dell'Alta Italia, il genovese fosse quello che s'era spinto più oltre nelle sue preferenze per la disgraziata sibilante, e che quindi bisogni adattarsi pazientemente a riconoscere ch'era in colpa verso le delicate e forse un poco mal prevenute orecchie del divino Poeta.

E. G. PARODI.

NOTE.

1) Vedi Bullettino della Società Dant. ital., N. S., III, 115; XXIII, 18. 2) Cfr. Bullettino cit., III, p. 93.

3) Vedi, per questo e in genere per tutti i vocaboli dialettali di Dante, il mio articolo, a cui si riferiscono le precedenti citazioni del Bullettino dantesco, vol. III; La Rima e i vocaboli in rima nella Divina Commedia: pp. 146 e segg. (per vonno pp. 126 e seg.). Il nostro co era comune nell'Alta Italia, era anche genovese! Per esempio, nelle antiche «Rime genovesi» (edite nell'Archivio glottologico italiano, II), si legge, num. XLIII, V. 116: «che De n'e sempre cho e guia» (capo e guida).

4) Mi riferisco specialmente ai miei Studj liguri, nell'Archivio glottologico italiano, XIV e XV (§ 1, Le carte latine; § 2, Il dialetto nei primi secoli). Col nome di Rime L. o Rime anonime L., cito le già citate Rime genovesi della fine del secolo XIII e del principio del XIV, edite ed illustrate da N. Lagomaggiore (Archivio medesimo, II, pp. 161-312); e col nome di Rime [anonime] P. la seconda parte di esse, edita da me (ib., X, 109-140). Naturalmente posso anche citare Rime anonime in genere, comprendendo entrambe le parti.

5) Trascrivo da! Manualetto provenzale del CRESCINI, 2.a ed., p. 287 e segg. (Si veda pure del CRESCINI: Il contrasto bilingue di Rambaldo di Vaqueiras; nel Vol. VII, Disp. II. degli Atti e Memorie della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova; 1891; estr. di pp. 20; e: Il Contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras secondo un nuovo testo; estr. dagli Studi di filologia romanza, vol. VIII, fasc. 22, pp. 10. Il nuovo testo è il Canzoniere provenzale Campori, riesumato dal Bertoni, e chiamato qui dal Crescini a1). Venendo alla nostra strofa, disgraziatamente i suoi due ultimi versi sono scorretti e non si trova modo di correggerli. Anche il metro vi è mal rispettato: en tempo, dovendo rimare con zo, farò, ecc., ò, so, dovrebbe pronunciarsi tempò, e millorado manca di una sillaba, poichè tutti gli altri versi brevi sono (contando all'italiana) quinarii. Potrebbe venire in mente di leggere: eu temp'ò Amesurado, ho il tempo misurato; poichè il senso sarebbe soddisfacente, eu (cfr. s'eu aja v. 72) per en non è, paleograficamente, una difficoltà, e la ripetizione in rima di ò non lo è metricamente: in questa poesia stessa, nella parte provenzale, rimano insieme sai: non sai, vv. 64, 67. Nondimeno amesurado è troppo lontano da millorado, e peggio è forse che questo -ado stuona collo schietto genovese -ao di malaurao escalvao. Infine, amesurao rima, e non dovrebbe, con malaurao, ecc., ma sarebbe un misero espediente averlo scritto amesurado per non farlo rimare. Questa obbiezione colpisce anche il millorado dei manoscritti e qualunque vocabolo che vi si sostituisse, con uguale terminazione; il che mi ha fatto pensare se non possa trattarsi di due, anzi tre parole: (eu temp' d) Millor. A dé: «io ho come spender meglio il mio tempo. Addio ». La frase non è felicissima, ma.... «si quid novisti rectius istis, Candidus imperti », chè sono p: onto a rinunziarci.

6) Notevole è car, proprio nell'ultimo verso. Ma alcuni possono doversi ai copisti,

per es. amia invece di amiga, v. 5 della strofa riferita, e mari ò per mario ò, o mari' ò, ib., v. 11; plait per chaito o chait', v. 79. È vero però che il secondo, marì, ricorre anche al v. 78, in rima con mi e con ti, e con nuovi provenzalismi che riescono dunque, com esso, sicuri: genoí, genovino (moneta), barbarí, barbaresco, latí, in luogo di zenoin, ecc. Ma non sarà poi mari (come amia), come vestí, vestito, altra rima della medesima strofa (come meill, v. 93?), più che un provenzalismo, un ibridismo monferrino? Forme poco schiette in ogni senso sono ancora (e' ve) dì e (zo ve) afí, vi assicuro, sempre di quel medesimo gruppo di rime. Per la pura grafia; corteso per corteiso (o meglio corteise), e simili, si trovano ancora nelle Rime anonime; ma se' per sei, vv. 1 e 12 della strofa cit., potrebbe attribuirsi ai copisti: infatti sei è nell'ultimo verso della poesia, e cfr. andei: parei : averei, vv. 45 e segg. All'antica grafia genovese non è estraneo l'i o j di chaidejai (cfr. il già citato Zovaio), jujar, e così di enojo, aja, abbia. Provenzale pare invece il ll (il) di millorado, semellai, fillo, vollo e acaveilar (voi t'acaveilar co mego?) v. 77, meill v. 93.

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7) Vero genovese non potrebb'essere che chaitezai (o chaezai): il d sarà dei copisti? 8) È singolare che chu si trova pure nella strofa data per italiana del Discordo Aras cant vei verdeiar dello stesso Rambaldo: «chu fresca qe flor de glaio », v. 15 (nello stesso Manualetto CRESCINI, pp. 278 e segg.). Pare che tutto l'italiano si presentasse a Rambaldo con una forte tinta, forse dell'Alta Italia in genere, certo del genovese in ispecie! Nondimeno altre forme spingono verso il centro, almeno maio cioè maggio (lascio stare aio, cioè aggio ho, e qualche altra cosa troppo dubbia). Con beutà non c'è nulla da fare; ma abril, benchè possa senza dubbio esser provenzale, non sarà un provenzale che intende rendere il genov. avril avrir (oggi arví)? Infine flor sarebbe stato scritto così al tempo di Rambaldo anche da uno schietto genovese, poichè il tipo xor (cioè sciur, od. sciû) non si trova che molto dopo. Al v. 13 « q'en nisun lengaio », al legge e negun: questo poi sarebbe genovese e in genere settentrionale, ma purtroppo è anche provenzale.

9' Il dubbio qui è d'altro genere. Ha voluto l'autore scrivere prezo o prexo, possibili entrambi in genovese (come in italiano prezzo e pregio)? Un prexo poteva anche esser scritto preso o presio (questo è del cod. a1) secondo i più antichi documenti (es. cosina, docum. del 1156, in Arch. glottol. ital., XIV, p. 18, l. 4), e anche secondo le Rime anonime, che non mancano in tutto di tali esempi. Nel Contrasto è da confrontare deschasei (« per qe trop - 1. tro me d. », cioè desciaxeí, v. 47, già cit.).

10) Si veda almeno CRESCINI, Manualetto cit., p. 38, dove cita le Leys d'amors che permettono la rima tra m'abissi, mi abisso, e cilici, cilicio.

11) Vedi Archivio glottol. ital., VIII, p. 361, inoltre 370; XV, 68. L'od. musciu, ben pasciuto, che ha i suoi agi (detto di persona di classe non elevata) dev'essere lo stesso vocabolo, nonostante certe difficoltà; cioè il singolare muzzu, poi mussu, si è rifatto sul plurale musci. Che non vada con l'it. moscio lo prova per es. lo spezzino: << quand'i eno musse e a pansa I gh'ano e 'r bûzo cen», quando sono sazie e hanno piena la pancia e il buzzo'. Si risale dunque a un* muciuso mucceus (con u breve), e sarà da ristudia e e da correggere in parte l'art. musteus del Romanisches Etymologisches Wörterbuch del Meyer-Lübke.

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12) E razon, v. 44? (È di due mss.; gli altri due hanno s). Il genovese ha ed ebbe raxon (cioè raxun, con lo x che equivale al j francese); ma, come si ebbe in senese razone (credo, con z aspro, come in acquazzone, aquatione), potrebbe essersi avuto anche da noi. Se no, bisogna pensare di nuovo a un provenzalismo (anche nel Monferrato si sarà detto rason, con s sonoro). Ricordo infine che, nel principio della stanza sopra riferita, un ms. ha cuiar, cioè, credo, çügiar, con quel che in molti dialetti serve anche per la sibilante sonora. Più tardi il vocabolo in genovese si trova, ma nella forma zugorar o jug., lat. jocularis; non mai in codesta riduzione del provenzale joglar, che forse nondimeno più che di Rambaldo fu del dialetto stesso, col gl provenzale ridotto convenientemente a tipo indigeno.

II.

LA LIGURIA NELL'OPERA DI DANTE.

Il nome << Liguria » non appare nell'opera di Dante. E il fatto può, almeno in gran parte, essere spiegato colla variabilità a cui fu soggetto, nel corso dei secoli, il valore territoriale del nome spettante alla nona regione augustea: variabilità così grande che di essa non possono rendersi, in genere, chiara ragione gli scrittori del Rinascimento.

Quando, nella prima metà del Quattrocento, Jacopo Bracelli detta, in successive redazioni, la sua succinta descrizione della Liguria (estesa, propriamente, alla sola « Riviera » : Descriptio orae Ligusticae)1) che servirà a Flavio Biondo per la compilazione dell'Italia Illustrata (stampata per la prima volta, a Roma, nel 1474, 11 anni dopo la morte dell'autore), dove fra le 18 regioni dell'Italia continentale e peninsulare figura, prima, la «< Liguria siue genuensis », l'erudito e sagace Cancelliere della Repubblica di Genova si trova di fronte al problema del limite sciroccale della Liguria. Questo limite è stato da qualche scrittore portato alla foce dell'Arno [Polibio, II, 16], da qualche altro a quella del Tévere forse per influsso della tradizione, raccolta da Filisto di Siracusa e da Dionigi d'Alicarnasso, la quale ravvisava nei Líguri i più antichi abitatori del Lazio.

Il caso merita di essere particolarmente ricordato, non solo perchè la Liguria è, per quanto ci risulta, la prima regione italiana che sia stata oggetto di una vera e propria trattazione corografica di tipo moderno, ma anche ed essenzialmente perchè offre l'opportunità di rilevare che spetta agli italiani il merito di aver approfondito, primi, nell'età moderna, la ricerca intorno al valore territoriale dei nomi regionali. Nel tentativo del Bracelli di circo

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